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scaturito il suo interesse per la relazione tra mente e linguaggio, ed alle discussioni con i
contemporanei che lo hanno sospinto a sviluppare le proprie idee nella direzione in cui esse
stanno ancor oggi avanzando.
Il primo capitolo espone sinteticamente i tre principali ambiti/teorie da cui ha avuto origine, e
a cui tutt’ora fa riferimento il pensiero di quest’autore: la teoria degli atti linguistici di Austin
e Searle, il pensiero dell’autore russo Lev Semenovich Vygotskij, e lo studio delle “teorie
della mente”.
Nel secondo capitolo è trattata l’evoluzione del pensiero di Olson: dall’interesse sul rapporto
tra linguaggio e pensiero durante l’evoluzione storica dell’essere umano, allo studio di come
tale relazione si sviluppa nel bambino nei suoi primi anni di crescita, e infine (anche se questi
ultimi aspetti sono due facce della stessa medaglia) alla ricerca su quanto ed in che modo le
istituzioni scolastiche influiscono sullo sviluppo delle capacità e della coscienza
metacognitive.
Nella seconda parte dell’elaborato sono esposti i risultati della mia ricerca in Tanzanìa,
preceduta da alcune contestualizzazioni metodologiche e culturali necessarie per comprendere
meglio sia i dati sia la loro discussione.
Il terzo capitolo tratta le caratteristiche metodologiche specifiche delle ricerche culturali e
cross-culturali in tutti i loro aspetti principali, con una particolare attenzione a quelli implicati
nella ricerca da me effettuata.
Nel quarto capitolo sono analizzati alcuni aspetti della cultura africana, ed in particolare di
quella tanzaniana che permettono di contestualizzare efficacemente la ricerca sul campo.
Nell’ultimo capitolo, infine, sono presentati e discussi, confrontandoli anche con i dati
italiani, i risultati di tale ricerca, e sono tratte alcune conclusioni a partire da tali dati.
In tutto il libro si ripresenta numerosissime volte il termine/concetto di “cultura”, ed è questa
“cultura” che, ad una più approfondita analisi, in un modo o nell’altro si ritrova in tutti i
diversi ambiti trattati, e permette la loro intrerconnessione. Essa è definita in diversi modi, ed
in particolare nella prima parte del lavoro è presa in considerazione come al contempo humus
e luogo dell’esperienza umana. Dagli albori ai giorni nostri questo concetto si è ampliato e
ben strutturato, ma rimane ancora separato, in qualche modo, dalla realtà. E’ un modello
teorico che si adatta ad ogni contesto ma in realtà non ne rappresenta nessuno. Ben diversa è
la cultura a cui ci si riferisce nella seconda parte del libro. Qui essa è ben considerata in tutti i
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suoi aspetti ascrivibili dal concreto, ma rimane tuttavia sempre connotata, concretizzata,
storicizzata. Non si parla più tanto “della cultura”, ma di “una cultura”, “la cultura X”, in
correlazione con le altre culture e con l’apparato scientifico, ma sempre contestualizzata. Il
mio auspicio è che questi due punti di vista possano un giorno incontrarsi e modulare una
cultura (o meglio, più culture) a tutto tondo.
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SEZIONE I
LA COMPRENSIONE DEL
LINGUAGGIO SUL LUNGUAGGIO E
DEL LINGUAGGIO SUL PENSIERO
12
Capitolo 1
LA TRAMA DI FONDO
If psychology must be changed in order
to understand the majority of mankind,
then is a fact of profound importance.
Harry C. Triandis
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In questo capitolo mi prefiggo di presentare alcuni filoni di pensiero da cui ha preso
spunto ed entro i quali si è inserito e sviluppato il lavoro di David Olson. Cercherò di proporre
un’esposizione sintetica, mantenendo una particolare attenzione al dialogo scientifico più
recente che si è sviluppato su questi temi ed estrapolando gli aspetti specifici su cui si è
focalizzato l’interesse di quest’autore.
La teoria degli atti linguistici, il pensiero di Vigotskij e le teorie della mente sembrano
appartenere a domini di studio differenti all’interno del vasto ambito della psicologia, tuttavia
condividono più assunti di quanto appaia a prima vista. Fin da una prima analisi, notiamo che
alla base dello sviluppo di ciascuno di questi ambiti si ritrovano almeno quattro concetti
comuni: il linguaggio, il contesto, la prassi e l’intenzionalita’/scopo.
1.1. LA PAROLA IN ATTO:
LA TEORIA DEGLI ATTI LINGUISTICI
La teoria degli atti linguistici si sviluppa sull’assunto di base che l’enunciazione di una
qualsiasi preposizione non si esaurisce semplicemente nell’espressione di un contenuto, ma
implica inevitabilmente il compimento di una o più “azioni”, su di un medesimo piano o su
piani differenti.
Questo concetto fa la sua comparsa sulla scena del dibattito scientifico nel 1962 con un
articolo di John Austin, “Performatif-Constatatif”, dove l’autore afferma l’esistenza di due
tipologie di enunciazioni: i dichiarativi o constatativi, che servono a descrivere la realtà nelle
sue condizioni di verità o falsità, e i performativi, che hanno la funzione di compiere
un’azione, azione che “non si potrebbe eseguire altrimenti, almeno non con tanta precisione”
(op. cit., pg. 49). Il significato di quest’azione diviene esplicito (cioè comprensibile per il
ricevente) attraverso la valutazione d’insieme della forma verbale, degli specifici attributi non
verbali e, soprattutto, dalle caratteristiche del contesto in cui viene proferita la frase. Tuttavia,
al termine di questa trattazione, Austin non sembra più così nettamente convinto della sua
suddivisione, tanto che afferma che “anche formulare un enunciato dichiarativo equivale a
proferire un atto, e cioè l’atto dell’affermare. [...] non si può mai proferire un qualunque
enunciato senza eseguire un’atto linguistico di questo genere.” (op. cit. pg., 58).
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La constatazione del fatto che ogni enunciazione corrisponde ad un’azione apre la strada alla
costituzione di una nuova teoria che spieghi il funzionamento di questo “fare-insieme-col-
dire”. Tale teoria ci viene proposta dall’autore nello stesso anno con l’articolo: “How to do
things with words”, dove vengono presentati tre diversi generi di atti linguistici:
1) l’atto locutorio, cioè l’azione di dire qualcosa
corrisponde all’enunciato nei suoi aspetti fonetico (atto fonetico), lessicale (atto fatico) e
semantico (atto rhetico), ed è quindi appannaggio della linguistica classica, pur derivando da
un punto di vista pragmatico
2) l’atto illocutorio, cioè l’azione che si compie nel dire qualcosa
è un atto che si esprime nella duplice prospettiva di significare un atteggiamento o
un’intenzione ed una forza specifica riguardanti la frase che si enuncia, i suoi contenuti e gli
attori che ne sono coinvolti. La sua corretta comprensione dipende dalla condivisione di un
insieme di convenzioni da parte degli astanti
3) l’atto perlocutorio, cioè l’azione che si compie col dire qualcosa
consiste nell’esprimere intenzionalmente (ma non per forza esplicitamente) qualcosa per
produrre effetti (conseguenze) sui sentimenti, i pensieri e/o le azioni di un’altra persona.
Gli atti illocutorio e perlocutorio rientrano entrambi nell’ambito pragmatico della linguistica
moderna, ma, mentre il primo, similmente all’atto locutorio, si esprime attraverso canali di
significazione convenzionali e si esaurisce completamente nel momento dell’enunciazione del
predicato, il secondo si ricopre di significato dipendentemente dal contesto situazionale
dell’enunciazione e si completa attraverso la produzione di un effetto conseguente in un
soggetto altro dal parlante.
1.1.1. La forza di dire
Da questo momento in poi l’attenzione si concentrerà principalmente sullo studio degli atti
illocutori, poiché essi sono quelli che maggiormente esprimono e rappresentano il diretto
collegamento tra pensiero e linguaggio. Vendler, studiando i verbi illocutori, afferma: “Nulla
potrebbe illustrare la stretta affinità tra gli atti di pensare e quelli di dire meglio di questa
tendenza delle parole del pensare a insinuarsi nel dominio delle parole del dire” (Vendler
1970, pg.144), o, ancora oltre Olson e Astington dicono che: “gli stati mentali costituiscono le
“condizioni di sincerità” degli atti linguistici [...] Questa stretta interrelazione tra dire e
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pensare implica che i modi di interpretare le affermazioni [...] equivalgono ai modi di
considerare gli stati mentali” (Olson e Astington 1993, pg.432), per cui studiando i primi, cioè
gli atti linguistici, si può arrivare a conoscere i secondi, cioè gli stati mentali.
A questo proposito, John Searle approfondisce e chiarisce il concetto di illocuzione. Egli
innanzitutto sottolinea la netta distinzione tra verbi illocutori (che hanno, e quindi esplicitano,
un contenuto relativo ad un significato illocutorio: verbi che esprimono intenzioni,
atteggiamenti, desideri, etc.), ed atti illocutori veri e propri. Essi non devono per forza
coincidere nella medesima frase, ed anzi possono esprimere significati diversi. Un verbo
illocutorio, in un determinato contesto frasale, può non esprimere un atto illocutorio, ed un
atto illocutorio può essere agito anche senza l’uso del verbo che lo esplicita. Gli atti illocutori,
poi, possono essere distinti in più tipologie. Searle riprende le cinque classi definite
precedentemente da Austin (verdittivi, esercitivi, commissivi, espositivi e comportativi) e le
ridefinisce, descrivendole secondo l’andamento di dodici dimensioni (Searle 1975a). Le
categorie che ne risultano sono:
1) Rappresentativi: impegnano il parlante all’effettivo “darsi” di qualcosa, in termini di verità
o falsità (ad es. giudicare, asserire, concludere, dedurre, ipotizzare)
2) Direttivi: tentativi da parte del parlante ad indurre l’ascoltatore a “fare” qualcosa (ad es.
ordinare, chiedere, pregare, invitare, consigliare)
3) Commissivi: impegnano il parlante a fare qualcosa (ad es. giurare, promettere, garantire,
impegnarsi a, contrarre l’obbligo di)
4) Espressivi: esprimono uno stato psicologico relativo al contenuto proposizionale (ad es.
ringraziare, congratularsi, porgere le condoglianze, deplorare, scusarsi)
5) Dichiarazioni: esprimono un contenuto proposizionale corrispondente al mondo, e, se
eseguite felicemente, provocano modificazioni nello status o nelle condizioni dell’oggetto a
cui si riferiscono (ad es. “Dichiariamo guerra”, “Dó le dimissioni” “Vi dichiaro marito e
moglie”).
In base a questa categorizzazione, inoltre, l’autore conclude che, pur essendo gli atti che
possiamo compiere nel dire una frase numericamente limitati, nella prassi, spesso con un
unico enunciato agiamo contemporaneamente una molteplicità di tali atti. Il reale
funzionamento dello scambio linguistico è molto più articolato di quanto possa risultare “al
microscopio”.
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Nella direzione di analizzare questa complessità si è mosso H. P. Grice. Egli si è interessato
particolarmente di ciò che, in un enunciato, è significato ma non è espresso: le implicature
conversazionali. In particolare, il risultato più significativo della sua ampia trattazione risiede
nell’identificazione del ”principio di Cooperazione” generale, che egli ritiene sia
indispensabile seguire per portare a termine una conversazione (o qualunque altro scambio
linguistico) mutuando un insieme di significati condivisi. Questo principio si articola poi in
quattro massime, di: 1)Qualità; 2)Quantità; 3)Relazione e 4)Modo. Questo insieme di regole
estrapolato da Grice è stato avvallato dalla maggior parte della comunità scientifica, e
l’interesse si è spostato su quegli atti che contravvengono a tali massime: gli atti linguistici
indiretti. Il presupposto di partenza nell’approccio a tali espressioni complesse è che,
nell’intento di seguire regole convenzionali di comportamento (Lakoff 1973), stilistiche
(Searle 1975b; Castelfranchi e Vincent 1997), etc., il parlante non segua le indicazioni date da
una o più delle quattro massime, e venga così a creare un ulteriore nucleo di significati
illocutori che l’interlocutore (ma non sempre gli astanti) è, o dovrebbe essere, in grado di
comprendere (ma non sempre le condizioni comunicative sono adatte perché ciò accada - vd.
Marchetti 1995 e 1997, Siegal 1997, Siegal e Beattie 1991, Siegal e Peterson 1995, Perret-
Clermont, Shubauer-Leoni, Trognon 1992).
1.1.2. Co-costruzione di significati
Questo nuovo snodo all’interno dell’analisi del “fare-insieme-col-dire” ci porta a considerare
più da vicino gli aspetti relazionali e contestuali degli atti linguistici. Levinson (1983)
considera gli atti linguistici come eventi che, in funzione della loro specifica forza
comunicativa, modificano il contesto nei suoi assunti di fondo. Il contesto è qui inteso come
“un insieme di proposizioni che descrivono le credenze, le conoscenze e gli impegni dei
partecipanti ad un discorso”. Questo insieme di concetti limitato, culturalmente orientato e
indissolubilmente legato alla prassi ed al momento presente è il campo all’interno del quale
l’essere umano, nel suo sviluppo ontogenetico, apprende e comincia ad usare il linguaggio
come mezzo di significazione. Il bambino impara a parlare non come spettatore, ma attraverso
l’uso della lingua, e “non impara semplicemente cosa dire, ma anche come, dove, a chi e in
quali circostanze” (Bruner 1990a). Studiando l’evoluzione della comunicazione nei bambini,
Camaioni (1993a) rimodella e “ricolloca” la suddivisione austiniana dei tre generi di atto
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linguistico all’interno dello sviluppo ontogenetico, definendo come perlocutoria la
comunicazione del neonato, che si esprime inintenzionalmente attraverso gesti che tuttavia si
traducono in segnali necessari e sufficienti per l’interlocutore adulto, illocutoria, perché dotata
di intenzione, la comunicazione ancora principalmente non-verbale del lattante dopo i 10/12
mesi, ed infine locutoria la comunicazione eminentemente verbale, a cui il bambino accede
per ultima.
In ultima analisi, possiamo concludere, con Searle , che “la comunicazione linguistica implica
essenzialmente degli atti [...] come prodotti da un essere con certe intenzioni.” (Searle 1973),
ritrovando l’unità fondamentale di tale comunicazione non nell’aspetto lessicale (parola), in
quello semantico (simbolo), o in quello di significazione (enunciazione), ma nel suo aspetto
fattivo, di produzione, attraverso l’azione, di un qualcosa che prima non c’era, e che provoca
perciò un’evoluzione di tutto il contesto in cui si colloca. Gli atti linguistici si esprimono
attraverso la produzione di suoni che traducono un significato, significato che il parlante ha
intenzione di comunicare a qualcuno attraverso un’azione o un insieme di azioni.
Considerandoli globalmente a livello ancora potenziale, Halliday (1973) afferma che il
potenziale linguistico è un potenziale di significati che rappresenta la realizzazione linguistica
del potenziale di comportamento. Tuttavia tale potenziale semantico non viene definito in
termini mentalistici ma “in termini di cultura”, cioè come concretamente determinato e
situazionalmente delimitato.
Come prima abbiamo individuato nell’insieme delle caratteristiche che formano un atto
illocutorio il collegamento che ha portato lo studio degli atti linguistici ad essere un
trampolino di lancio per l’analisi e la definizione delle teorie della mente, in quanto tale atto
può essere considerato espressione concreta, e quindi misurabile, di qualcosa che è
costituzionalmente “aereo” e soggettivo, in quest’ultima ottica “socialmente e storicamente
determinata” della teoria degli atti linguistici ritroviamo un forte anello di connessione con il
pensiero vygotskijano, che esporrò nel prossimo paragrafo. Iniziamo qiundi a visualizzare la
rete di connessioni (e, oserei dire, di significati) che questi tre ambiti teorici hanno fornito alle
basi dello sviluppo del pensiero non solo di Olson, ma anche di molti altri studiosi.
18
1.2. CRESCERE CON GLI ALTRI:
IL PENSIERO DI VYGOTSKIJ
Il pensiero di Lev Semenovich Vygotskij si sviluppa nei primi decenni di questo secolo, ma
viene scoperto dalla comunità scientifica occidentale con trent’ennio di ritardo. Nonostante
ciò la sua attualità non smette di stupire gli studiosi odierni. Vygotskij parte dagli assunti della
filosofia marxista per articolare, parallelamente ad essa, una teoria storico-sociale dello
sviluppo ontogenetico dell’uomo nel contesto culturale moderno.
1.2.1. Risocializzare il bambino
Non possiamo considerare il pensiero di questo autore senza far riferimento, almeno
inizialmente, alle teorie piagetiane. Egli stesso, nella sua ultima opera “Pensiero e
linguaggio”, pubblicata postuma nel 1934, apre l’esposizione della propria teoria evolutiva
(ed educativa) riferendosi al lavoro di Piaget. A quest’ultimo riconosce di aver rivoluzionato
lo studio del pensiero e del linguaggio del bambino, descrivendo e comprovando come questo
non sia un “adulto incompleto”, ma sia sostanzialmente e qualitativamente differente da un
individuo adulto. Tuttavia, afferma Vygotskij, Piaget rimane ancorato al dualismo che permea
la scena della psicologia loro contemporanea, dualismo che “ha origine dall’acuto contrasto
tra la materia effettiva della scienza e le sue premesse metodologiche e teoretiche [...] Ogni
giorno [...] vengono fatte importanti scoperte destinate ad essere velate da teorie pre-
scientifiche e semi-metafisiche elaborate ad hoc. Il Piaget cerca di sfuggire a questo fatale
dualismo attenendosi ai fatti. [...] L’empirismo puro gli sembra l’unico terreno sicuro.” Ma
questo stile di pensiero non gli permette di comprendere nei giusti termini l’unum della realtà
umana. Inoltre, l’errore più grande della teoria piagetiana, secondo l’autore, consiste nel
ricollegare tutti i tratti dello sviluppo infantile al concetto di egocentrismo del pensiero, nella
convinzione che il passaggio dal “pensiero autistico” al “pensiero controllato” sia
necessariamente un cammino solitario. Per cui, il linguaggio egocentrico, nella concezione di
Piaget, risulta essere manifestazione diretta di un pensiero orientato unicamente verso il
soggetto stesso, senza interesse per il mondo sociale che si ritrova intorno. Vygotskij inverte
la concezione piagetiana dello sviluppo linguistico, “risocializzando” il bambino-isola
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prospettatoci in tale visione: “Riteniamo che lo sviluppo totale si svolga come segue: la
funzione primaria del linguaggio, sia nei bambini che adulti è la comunicazione, il contatto
sociale. Il primissimo linguaggio del bambino è quindi essenzialmente sociale. Dapprima
esso è globale e plurifunzionale; successivamente le sue funzioni divengono differenziate. Ad
una certa età il linguaggio sociale del bambino viene nettamente diviso in linguaggio
egocentrico e linguaggio comunicativo. [...] Dal nostro punto di vista le due forme,
egocentrica e comunicativa, sono entrambe sociali, anche se le loro forme differiscono.” (op.
cit., pp. 37-38).
Inoltre, a mio parere, ponendosi nettamente al di fuori della concezione dualistica della vita di
stampo freudiano: “principio di piacere” vs “principio di realtà”, e affermando che non può
concepire la ricerca della soddisfazione dei propri bisogni come separata o addirittura
contrapposta alla necessità di adattamento (op. cit.), egli anticipa una nuova concezione
dell’individuo che si svilupperà appieno solo molti anni dopo con l’avvento delle teorie di
Bowlby e della Ainsworth.
1.2.2. Le intersezioni di pensiero e linguaggio in una teoria storico-
culturale dello sviluppo
Nella teoria vygotskijana, pensiero e linguaggio non si sviluppano parallelamente, né dal
punto di vista ontogenetico, né da quello filogenetico. Questi due livelli evolutivi però si
intersecano più volte nel loro cammino, e così facendo permettono all’organismo in
evoluzione (o al bambino) di integrare processi complessi all’interno di un sé in costruzione.
Ogni funzione, nello sviluppo culturale, appare due volte, prima a livello interpersonale (nel
linguaggio) e poi a livello intrapersonale (nel pensiero). E’ questa funzione di mediazione tra
mondo esterno e pensiero che l’autore ritiene specifico compito del linguaggio egocentrico
prima, e del linguaggio in generale poi. Egli prospetta tre stadi dello sviluppo linguistico:
linguaggio esteriore, linguaggio egocentrico e linguaggio interiore. Il primo momento consiste
in un apprendimento di tipo imitativo; nel secondo di essi il bambino utilizza la sua capacità
linguistica per interiorizzare gradualmente il linguaggio, fino a farlo diventare mentale e
quindi autonomo. A questo punto il linguaggio, mentale e non, diventa esso stesso uno
strumento, atto all’interiorizzazione del pensiero.
20
In ciò che è stato appena esposto sono già presenti molti dei concetti principali dell’opera
vygotskijana:
• Innanzi tutto lo sviluppo dell’essere umano è un processo SOCIALE, cioè avviene grazie
ed attraverso lo scambio relazionale del bambino con le altre persone interagenti nella sua
quotidianità.
• In questo scambio il bambino partecipa come soggetto ATTIVO, dotato di intenzioni e di
iniziative che si manifestano nella sua esperienza CONCRETA.
• Questo processo è eminentemente CULTURALE, cioè avviene in un contesto storico ben
definito, a livello sociale, relazionale e di condivisione di significato.
• In questo “cammino” il bambino fa uso degli STRUMENTI, o artefatti, che si sono
sviluppati durante l’evoluzione filogenetica della società a cui appartiene. Questi strumenti
possono essere tecnici oppure psicologici (simbolici). Di questi ultimi fa parte il
linguaggio.
• La mente, il cui sviluppo consiste nel padroneggiare le strutture simboliche, diviene quindi
uno strumento di MEDIAZIONE tra il mondo esterno e quello interno, in continua
comunicazione. Questa mediazione permette al soggetto di attribuire un SIGNIFICATO
all’esperienza e di contribuire con la sua acquisizione al proprio sviluppo.
Vygotskij colloca quindi il linguaggio al centro della “linea sociale di sviluppo” (storica), e fa
interagire questa con la “linea naturale di sviluppo” (genetica) tramite la “mediazione
semiotica”. Quest’ultima viene articolata dall’individuo tramite l’uso di determinati strumenti,
che l’autore chiama “artefatti”, per evidenziare che si sono formati storicamente attraverso le
modifiche che l’uomo ha apportato all’ambiente nella sua evoluzione, e si sono accumulati
nel bagaglio culturale di ogni specifico gruppo sociale. La cultura è il medium specie-
specifico dell’essere umano, ed il linguaggio è il suo strumento prediletto. Come ho
accennato, gli strumenti possono essere di tipo tecnico-pratico o psicologico-simbolico.
Entrambe queste categorie di artefatti svolgono la duplice funzione di strumento, con cui
l’individuo conosce e modifica la realtà, e di simbolo, attraverso il quale il soggetto comunica
e perpetra i significati nel succedersi delle generazioni. “La cultura, allora, è divenuta per
l’essere umano il mondo a cui adattarsi, ma anche l’insieme dei mezzi a sua disposizione per
poterlo fare” (Bruner 1990a). La relazione di mediazione che Vygotskij individua tra
soggetto, oggetto e artefatti è illustrata nella figura 1.1. Engeström sviluppa questo schema
21
includendo nella struttura relazionale gli altri appartenenti alla comunità, le regole sociali e la
divisione del lavoro tra il soggetto e le altre persone (Engeström 1987) (fig. 1.2).
Fig. 1.1 Il triangolo standard della mediazione
Fig. 1.2 Triangolo della mediazione comprensivo della dimensione sociale degli individui
22
Lo sviluppo ontogenetico si articola in questo passaggio mediato della conoscenza, o meglio,
con Bruner, del significato, dall’ ”esterno” all’ “interno” (nel pensiero) del bambino. Affinché
questo processo si adempia, è centrale e necessario il ruolo svolto dall’interazione sociale.
Altro punto, questo, in cui il pensiero vygotskijano si differenzia da quello di Piaget, secondo
cui l’esperienza sociale si rivela utile ma accessoria nell’accompagnare lo sviluppo del
fanciullo, che, comunque, avviene “naturalmente”. Per Vygotskij la vita mentale si esprime,
prima di tutto, nell’interazione con gli altri. L’acquisizione di una determinata funzione o
capacità non avviene secondo un modello “tutto-o-niente”. Tra l’incapacità di fare qualcosa e
la capacità di eseguirla in maniera autonoma vi è un passaggio intermedio, che l’autore
chiama “zona prossimale di sviluppo”. In questa posizione il bambino è in grado di risolvere
un problema con l’aiuto/sostegno di un altro individuo socialmente più competente (un adulto
o un bambino più grande). E’ all’interno di questo particolare momento evolutivo che è
possibile intervenire educativamente nello sviluppo dell’individuo tramite l’attività tutoriale.
Tale attività è definita da tre caratteristiche: 1)dissimmetria di competenze degli interagenti;
2)coinvolgimento effettivo dei partecipanti; 3)differenza ma convergenza degli scopi
dell’interazione (Gilly 1997). Quando queste tre caratteristiche sono compresenti la situazione
di tutoring, anche se non rientra negli scopi espliciti dell’interazione, si rende
automaticamente presente. Questa descrizione risulta molto utile per orientare lo studio e la
ridefinizione degli strumenti pedagogici, primo tra i quali la scuola. Proprio alla scuola come
istituto educativo e agli strumenti da essa utilizzati si rivolge anche una buona parte delle
ricerche di Olson, che identifica in questi il luogo ed i mezzi attraverso cui si sviluppa
maggiormente il pensiero metacognitivo caratteristico della società moderna.
Sui concetti di zona prossimale di sviluppo e di attività tutoriale Bruner sviluppa i concetti di
“format” e “scaffolding”. I primi sono delle “forme che forniscono una configurazione
all’interazione comunicativa” (Bruner 1984, pg. 22), mentre lo scaffolding è l’attività di
supporto che il soggetto interagente “esperto” rivolge a quello “non esperto” per
accompagnarlo nella risoluzione di un nuovo problema, e che si articola in una serie di
funzioni compenetrantesi. Bruner è, tra gli studiosi odierni, fra quelli che più accolgono e
sviluppano il pensiero vygotskijano. Egli approfondisce, soprattutto negli ultimi lavori, il
concetto di cultura e di uomo (e bambino) come essere immerso in un contesto culturale
specificatamente determinato.