Premessa
«Ma il poema parla, vivaddio!»
Paul Celan
Il rapporto che esiste tra linguaggio e verità è oggetto di questo lavoro. Insieme ad esso,
ma soprattutto verso di esso, il lavoro si occupa della poesia e del pensiero di Paul
Celan. Questi, da molti considerato il più grande poeta del Novecento (sospeso spesso
tra chi lo vuole continuatore della linea romantica e orfica della poesia tedesca, del
filone Hölderlin-Rilke-Trakl per intendersi, e chi lo vuole voce poetica della tradizione
ebraica, affine a Buber o a Jabés), è per noi unicamente il poeta che più di ogni altro, tra
i contemporanei, ha messo in discussione, del linguaggio, tanto il significare pubblico
quanto il costituirsi in un referenzialismo a carattere privato, tanto l’opera di
attribuzione di senso al mondo quanto l’immediato aderire ad un senso-mondo, tanto i
rinvii allegorici quanto il simbolismo, tanto la concezione idealistica quanto quella
realistica. Ciò che la poesia di Celan opera nei confronti del linguaggio contiene
implicazioni d’ogni sorta: linguistiche, politiche, teologiche, morali, storiche e
letterarie. Quel che ci auguriamo è di dar conto di tutte queste prospettive, anche
facendo ad esse ripetuti riferimenti, senza con ciò né esaurirne alcuna, né estinguere la
vitalità speculativa del nostro lavoro nella fucina concettuale, lessicale e metodologica
di una di esse.
Quello che individueremo in Celan è il costituirsi della verità in linguaggio secondo un
doppio movimento, il quale trasfigura quella costituzione da una parte in un fallimento
delle aspirazioni realistiche e idealistiche della parola, e dall’altra nell’epifania di un
sigillo di testimonianza, di una lingua muta che entra in una relazione paradossale con
l’incomunicabile della realtà. Questo primato del carattere etico della lingua umana
pone la parola in una tensione cruciale tanto con la cosa quanto con l’idea, cosicché al
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contempo le istanze idealistiche e realistiche vengono per un verso trascese, e per l’altro
strappate all’eventualità di una loro cancellazione in chiave grossolanamente
nichilistica. Il nome rimane come soglia critica, come manifestazione dell’idea e come
imitazione della realtà. Il nome è l’emblema che dà testimonianza, è il sigillo.
La nostra ricerca si articolerà in quattro passaggi.
In un primo capitolo esporremo in maniera il più possibile chiara e coerente il concetto-
guida di poetato che metodologicamente faremo nostro per tutto il lavoro sulla poesia di
Celan. È bene notare come questo passaggio sia inserito all’inizio del lavoro unicamente
per ragioni stilistiche e sistematiche. Gran parte delle conclusioni a cui il capitolo
arriverà non prescindono per nessuna ragione dall’opera di Celan. In larga misura è
proprio a partire dalla lettura delle poesie e delle prose di Celan che giungeremo a
scegliere un determinato taglio interpretativo. Nel primo capitolo ci proponiamo di
chiarire il ruolo della poesia nella questione del rapporto linguaggio/verità, cosicché, per
tutto il resto del lavoro, sia chiaro quale sia l’oggetto della nostra ricerca e quanto,
invece, esuli da essa.
Un secondo capitolo sarà costituito dal tentativo di interpretazione di alcune poesie di
Celan, da noi selezionate e tradotte. Due sono gli obiettivi esegetici di questo capitolo. Il
primo è quello di individuare nell’opera di Celan quei cambi di rotta del pensiero che ci
permettono di suddividerla in fasi più o meno autonome, senza con ciò smarrire
l’unicità della voce poetica di Celan, il suo timbro. Il secondo è quello di mettere a
giorno la poesia di Celan come manifestazione di quel doppio passo del linguaggio cui
alludevamo sopra. Pur nell’articolarsi in fasi di cambiamento e di smarrimento, la
poesia di Celan verrà letta come una messa in discussione del linguaggio che supera
(primo passo) il paradigma dell’attribuzione di senso e che arretra (secondo passo) di
fronte all’aderenza acritica della parola alla realtà.
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Il terzo capitolo riguarda Heidegger e Benjamin. È di sicuro il capitolo più delicato ed
esposto al dubbio del lettore, per almeno tre ragioni:
1. questi due autori non hanno mai scritto nulla intorno a Celan;
2. di entrambi, nel terzo capitolo, verranno affrontate opere che riguardano l’opera
d’arte, non la poesia;
3. la prima parte del capitolo parrà prendere ogni distanza da quanto scritto fino a
quel punto.
Non v’è alcun dubbio che questo passaggio interrompa la continuità teoretica del nostro
lavoro. Ciononostante, quell’arresto improvviso ci è parso opportuno. Il capitolo si
propone di inserire le problematiche filosofiche dedotte ed indotte a partire dalla poesia
di Celan nel quadro del dibattito del pensiero contemporaneo. Da un lato, ma in maniera
molto più abbozzata, la riflessione di Celan sarà collocata in una virtuale zona di
collisione delle due prospettive, assunte come poli del pensiero della nostra epoca;
dall’altro, le fasi successive dell’opera di Celan, isolate nel capitolo precedente, saranno
in qualche modo spartite tra Heidegger e Benjamin, per essere infine condotte al di là di
essi, ma pur sempre in relazione con entrambi. L’obiettivo teoretico del terzo capitolo è
quello di individuare una relazione tra il doppio movimento del linguaggio messo a
giorno dalla poesia di Celan ed il doppio movimento che, di pari passo, essa mette in
atto nell’ambito della filosofia, innanzitutto della filosofia morale. Anche rispetto ad
essa, la morfologia non cambia: il superamento (in chiave, potremmo dire, nietzschiana)
del sistema di valori non è anche superamento della dimensione etica, non degenera in
un superomismo grossolano, ma è anzi urgenza di un contegno etico, di un appello
all’Altro.
Il quarto ed ultimo capitolo riguarda il rapporto tra Celan e la tradizione poetica tedesca,
di cui abbiamo eretto a figura emblematica Friedrich Hölderlin. La poesia tedesca, la
lingua tedesca in genere, nei suoi rapporti con la poesia di Celan, rappresenta un
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argomento centrale, messo in luce da numerosi critici. Nel capitolo verrà chiarito quanto
della poesia di Hölderlin sia da mettere tra parentesi per il rapporto con Celan, anche e
soprattutto a partire dalla comparazione delle pagine di Heidegger e Benjamin dedicate
al poeta romantico. Verrà in seguito messa in atto un’operazione speculativa che
crediamo essere molto funzionale al nostro lavoro. Lungi dall’eseguire una ricerca
tipicamente storiografica che individui quanto in Celan sia da considerarsi un debito nei
confronti di Hölderlin, il nostro lavoro procederà in direzione opposta, tentando di
osservare l’effetto che l’opera di Celan ha prodotto sulla ricezione contemporanea di
Hölderlin. In altre parole, l’asse Hölderlin-Celan verrà interpretata come percorso di una
riconfigurazione, la quale, a partire da Celan, agisce sulla poesia di Hölderlin
rideclinandone le istanze veritative, così da strapparla definitivamente di mano
all’ideologia, e da ricondurla, proprio sottraendola alla sua presunta originarietà, che si
rivela come mera interpretazione dominante, alla propria innocenza. Con questo
vogliamo evidenziare il modo in cui il ripensamento celaniano del rapporto
linguaggio/verità investe anche un altro ambito, quello della tradizione letteraria, della
sua ricezione. Quest’ultima, messa in atto dalla letteratura stessa, va al di là di una
semplice aderenza all’opera passata, ma al contempo non si lascia tale opera alle spalle
abbandonandosi allo straripare di un’ermeneutica sorretta dal puro arbitrio.
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1. Poesia, linguaggio e verità
«Il poeta è colui che vorrebbe
rivelare e insieme nascondere,
rivelare nascondendo, che è forse
rivelare il nascosto».
Piero Bigongiari
“- L’autore della copia, l’imitatore, diciamo che non s’intende per nulla di ciò che è, ma
1
di ciò che appare -”. Il Socrate de La Repubblica e la sua sentenza rimangono ancorati
alla poesia a più di duemila anni di distanza. La poesia è imitazione. Lo è senza dubbio
e lo è senza scampo. Essa imita inoltre qualcosa che appare al poeta, il quale, che sia o
meno entusiasmato dal dio, non vede con gli occhi di Dio. Il poeta osserva il reale senza
coglierlo nella sua totalità. Anche se inserito in una concezione spirituale del
linguaggio, in cui il poeta non è che un tramite, un farsi nulla dell’io, mediante il quale
prende voce il canto delle cose, il semplice gesto del poetare è e rimane inesorabilmente
mimetico, getta anzi esso stesso, proprio nel suo compiersi, una distanza infinitamente
incolmabile tra sé e la cosa; una distanza, quantomeno, che né il poetante né la cosa
possono colmare, poiché solo tale distanza rende possibile il dire. Isolare
metodologicamente la poesia e contrapporla ad un logos razionale, più o meno
realizzato, che risale dal fenomeno al vero, che scova nel fenomeno l’universalità
aspettuale, l’idea, significa mettere in luce il valore imitativo del poetare e metterne in
ombra la funzione veritativa, ammesso che ne sia data una. E non è tutto qua. La
ragione, in senso genuinamente platonico, partecipando della verità delle cose, partecipa
del sommo Bene, di quella verità che si eccede e si trascende, quell’essere in senso
pieno che è oltre ogni essere. La ragione platonica è etica nel suo esser fino in fondo
1
Platone, La Repubblica, a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari, 1997
ragione. Alla ragione sta a cuore l’accordatura del reale, l’equilibrio esatto delle cose e,
innanzitutto, dell’anima. La ragione, seguendo di nuovo il Socrate de La Repubblica, è
quella parte dell’anima intimamente chiamata a informare di sé il tutto, a trattenere il
tutto presso di sé e, al contempo, a non fare violenza al tutto, ad accordarsi essa stessa.
Thymos e sophrosyne, animosità e temperanza, debbono rientrare nei cardini di un
equilibrio divino e debbono innanzitutto tenersi a freno, confinarsi, per così dire, nella
propria regione dell’anima, e non rovinare, rispettivamente, in tracotanza e in mollezza.
Ma tutto ciò, in qualche modo, è compito della ragione: l’armonia dell’anima nella sua
totalità è operata da quel settore dell’anima che è intimamente rivolto all’armonia e che
è l’unico a partecipare direttamente del Bene. L’animosità partecipa del Bene
tenendosene distante, occupandosi solo di ciò che le spetta. Come il guerriero è retto e
giusto rispetto alla Repubblica se si limita ad occuparsi della propria arte in maniera
corretta e nei limiti che essa si deve dare per rispondere della propria natura, così
l’animosità è retta e giusta rispetto all’anima se inerisce solamente a ciò che le compete
e, tenendo a freno sé, tiene in equilibrio tutta l’anima. Al contempo, invece, il filosofo-
governante è cittadino e governatore della polis, così come la ragione é parte e tutto
dell’anima. Ed è tutto finché è fino in fondo parte e viceversa. Finché la ragione si
mantiene ragione in sé ed obbedisce alla verità e al Bene non v’è conflitto, altrimenti ha
luogo quell’ambiguità polemica per cui il legislatore non può obbedire alle proprie
leggi: è smarrito, è accecato, è Edipo. Edipo è l’eroe tragico per eccellenza, la legge lo
divide, lo sdoppia, e si sdoppia. Alla leggenda di Edipo fanno da specchio,
condividendone l’oscura maledizione, le parole del primo capitolo de Il Processo di
Kafka, quelle che una delle guardie dice all’altra dopo che Joseph K., reclamata più
volte la propria innocenza, ammette di non sapere nulla della legge che lo accusa: «Hai
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visto, Willem? Ammette di non conoscere la legge e insieme dice che è innocente». Ed
2
Il Processo, Einaudi, Torino 1983
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è questa la dimensione che la poesia, ancora dopo duemila anni, propone. Non è
necessario che narri situazioni tragiche. La poesia, in quanto tale, è la legge nella sua
doppiezza. Il dire poetico è la doppiezza della ragione stessa. Non è l’antiragione. È
l’eccedersi della ragione in un senso e nell’altro: nel senso di Antigone e nel senso di
Creonte. Da una parte è memore del Bene e della sua positività: qualsiasi poetare, sia
pure il più maledetto, lascia fuoriuscire, nella sua dimensione di autonomia e di
immediatezza, quantomeno l’estremo momento di quel positivo che sorregge ogni
negatività. Questo è il fronte del poetare per cui non si dà il vincolo della mimesis, è il
volto della poesia che si mostra assolutamente noncurante rispetto alla propria
condanna. E se esso macroscopicamente può essere isolato e ricondotto ad una dinamica
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esterna della poesia (è il caso dell’ideale di Baudelaire), a livello per così dire
microscopico (e qui l’immagine del microscopico va intesa come un rimando
all’infinito che non può essere racchiuso in un’immagine quieta) l’unicità del linguaggio
poetico è inseparabile da esso. Nel comprendere la poesia e anche nel non comprenderla
fino in fondo, anche nel non seguirne i rimandi e nel non coglierne le valenze, il lettore
che accoglie il testo poetico afferra sempre l’autonomia simbolica, “oggettiva” del
linguaggio poetico. C’è sempre una sintesi unitaria della comprensione linguistica.
Capovolgendo la medaglia, però, si manifesta un altro volto della poesia. Anch’esso è
controllabile a livello macroscopico, ma indistricabile a livello microscopico. È
l’aspetto mimetico del poetare, è il momento in cui la poesia rivela la propria
inadeguatezza alle cose, la propria debolezza. Il linguaggio è inadeguato, arriva dopo,
ineluttabilmente. Vi sono poeti in cui prende voce un’autocoscienza della poesia, una
riflessione del poetare sul poetare, poeti grazie ai quali, macroscopicamente, il dramma
del nominare ci informa di sé. E Celan, da cui ci siamo apparentemente allontanati, è
senza dubbio uno di questi, se non addirittura il più radicale. Ma la cosa più importante
3
si veda W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962 - pag.
89-130
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è che, forse proprio grazie a tali poeti, noi scopriamo questo dramma all’interno di ogni
dire poetico… anzi di più: lo scopriamo all’interno di ogni dire. A questo è servito il
breve e in parte grossolano riesame de La Repubblica di Platone: ad imbatterci fin
dall’inizio in quella menomazione essenziale del linguaggio che la poesia prende tutta
sulle sue spalle. Condensamento e fuggevolezza, appartenenza e sradicamento, simbolo
e allegoria: questi sono i due poli tra cui oscilla il discorso poetico. Ogni poesia, e in
merito a questa radicalità non si può transigere, può essere interpretata (il che non è lo
stesso che compresa), a posteriori, sia come immediata venuta all’apparire di qualcosa
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che, quantomeno, è, sia come messa in mostra del linguaggio nella sua debolezza. Ogni
poesia è memore della propria gloria e della propria sciagura e fa mostra di questa
rimembranza nel momento in cui si offre all’interpretazione, facendole resistenza. Ed
ognuno dei due poli contiene l’altro nella propria dinamica interna: come ogni simbolo
mantiene la propria pregnanza di senso nel suo ininterrotto rimando ad altro, nel suo
“far-segno-a” che addita il senso del segno congedandosi dal segno, così l’allegoria
sopravvive, si rinnova, procede nella sua caduta per via di una positività preliminare ed
impossibile, di un’affermazione assoluta e originaria che mostra sé, al negativo, nelle
pieghe sgualcite del dramma allegorico. La sintesi precede lo sdoppiamento, l’effettivo
status sintetico della parola è ininterpretabile, la sintesi non si mostra all’interpretazione,
si lascia comprendere ma non rimane nel segno, trascende il segno, è l’interna
immanente spinta del segno a condurre la comprensione oltre il segno.
L’interpretazione, di cui la comprensione non è affatto e per nessuna ragione una
microscopia, ma che differisce dalla comprensione in maniera qualitativa, è trasversale
nella sua nuda inadeguatezza, non corrisponde ad uno dei due poli; noi, nell’interpretare
lo scritto, non siamo in grado di interpretarne al contempo l’immediatezza e il rinvio,
pur comprendendoli entrambi alla luce della loro sintesi preliminare di cui però non ci è
4
si veda W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in id. Angelus Novus, trad. it. di
R. Solmi, Einaudi, Torino, 1962.
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né data conoscenza interpretativa, né soprattutto di essa ci è dato un apparato
cognitivo/proposizionale corrispondente. Tale apparato lo rinnoviamo
nell’interpretazione, lo induciamo scorrettamente dagli esiti dello scandaglio
interpretativo.
Ma come si definisce questa sintesi preliminare che determina poi l’inespugnabile
sdoppiamento dell’ermeneutica? Dove troviamo questo uno che, anche e soprattutto per
il nostro Celan, è a tutti gli effetti lo statuto della lingua? Kant und das Problem der
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Metaphysik di Heidegger, non tanto come lettura della prima Critica di Kant, quanto
piuttosto per l’individuazione e l’isolamento della sintesi immaginativa come
preliminare “farsi-avanti” dell’ente, ci suggerisce una riflessione: cos’è che costituisce
la comprensione della lingua nella sua unicità e nella sua indicibilità se non l’immagine
vuota, la spazialità indefinita e inafferrabile, la scena infinitamente ritraentesi e
infinitamente sfuggente, l’immobile temporalità dell’opera che ne spalanca l’abisso, che
la fa giacere come libera creatura in mezzo al niente? In primo luogo non è forse questa
immagine, che non si afferra e che non dà ragione di sé, ad incalzarci non appena ci
avviciniamo al testo? Non è questa la fuga dal segno che il segno contiene nella sua
dinamica interna? Non è questo l’elemento unitario, in sé scisso in soggettivo e
oggettivo, determinato dalla sintesi fluttuante e originaria della relazione che si esplica
come immaginazione, come “farsi-immagine-di”? Non è questo l’eccedersi tanto
dell’opera quanto del lettore, il ritardo dell’interpretazione che lascia entrare, secondo la
lezione di Goodman, nuovi mondi e nuove disposizioni del mondo e, al contempo, il
chiudersi del segno all’apertura della verità che sta oltre di esso? Ed il momento
immaginativo non è appunto il partecipare di questa verità, l’allestimento di questa
verità in uno spazio che è al contempo soggiorno e scarto, nomadismo e abitazione? E
non è forse la memoria di questa unità a spingere il simbolo a ritrarsi all’infinito
5
Kant und das Problem der Metaphysik, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1973; trad. it. Kant e
il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1981
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sottacendo la propria creazione e a spingere l’allegoria a procedere all’infinito
sottacendo la propria intenzionalità semantica? E che cos’è quest’immagine? Dove la
troviamo? Come possiamo tentare di determinarla senza per questo farle violenza,
soffocarla, costringerla nella parvenza diabolica del proprio feticcio? E come si delinea
la valenza che questa unità ontologica e gnoseologica assume nella poesia,
differenziandola da quella che assume nel linguaggio ordinario, senza però creare quello
iato imperdonabile, capriccio di coscienze disoneste, che separa linguaggio ordinario e
linguaggio poetico senza illuminarne l’innegabile legame?
Queste domande si appellano ad una certa trans-dinamicità dell’immagine, lo sguardo
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alla “ininterrotta notizia che dal silenzio si forma”, per dirla con Rilke. L’immagine è
quell’inafferrabile raccolto nel vano senza fondo della propria inafferrabilità. Non è una
possibilità, è un impossibile. Non c’è nulla che dia ragione di essa, essa avviene
soltanto, è anzi la radice di ogni avvenire linguistico. Il linguaggio ordinario aderisce
continuamente, senza urti, a questa sintesi, a questa unità inafferrabile che un passo
dopo l’altro si liquefa vieppiù nella propria sintomatologia. Ciononostante, perlopiù allo
scopo di accomodare le nostre scorrettezze e le nostre inestirpabili slealtà, avviene
spesso che noi parliamo l’un l’altro ignorando, più o meno coscientemente, questa unità
della comunicazione linguistica (abbracciandone, però, inesorabilmente un’altra). Certi
silenzi, così come certi impaludamenti della giustificazione che vogliamo dare alle
parole che abbiamo pronunciato o come certi tentativi di accordarci gli uni con gli altri
su sensi del discorso che sono inguaribilmente esterni rispetto all’unico centro, il senso
eminente e nascosto, trans-dinamico appunto, che entrambi gli interlocutori
comprendono, tutti questi attorcigliamenti del nesso senso-significato ci sono abituali. Il
linguaggio ordinario oscilla sempre tra queste due cecità: in tempo di pace, l’aderenza
cieca all’unità del linguaggio, priva di un qualsiasi indice di questionabilità e di dubbio;
6
R. M. Rilke, Elegie duinesi – Prima elegia, Einaudi/Gallimard, Torino 1995
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e, in tempo di guerra, la chiacchiera vuota e inconcludente, il demonio farfugliante della
disputa sui significati e sulla vera intenzione.
La poesia, di contro, ha luogo sempre nel cuore di quella trans-dinamicità. Essa offre
sempre uno scenario e al contempo lo sottrae, lo lascia sfuggire alla gabbia della
significazione raggelante e immobilizzante, dialetticamente connessa alla placida
accoglienza dell’abitazione linguistica, dello stabile e falso soggiorno del segno nel
ventre del senso, l’impossibile sostituito dal simulacro di una possibilità suprema per
cui il poeta, proprio nella parvenza di un annullarsi a favore dello spirito del Logos,
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apparirebbe come soggetto supremo e violento. Qui entra in gioco il poetato, il
momento di intima trasmutazione della poesia, l’ininterrotto sporgersi del gioco di
possibilità, offerto dallo scenario poetico, sull’impossibile, indicibile e invisibile verità
della vita. Leggiamolo in Celan:
Auch wir wollen sein,Anche noi vogliamo essere,
wo di Zeit das Schwellenwort spricht,dove il tempo dice la parola di soglia,
das Tausendjahr jung aus dem Schneeil millennio si alza giovane dalla neve,
steigt,
l’occhio migratore
das wandernde Aug
riposa nel proprio stupore
ausruht im eignen Erstaunen
e capanna e stella
und Hütte und Stern
stanno nel blu da vicine,
nachbarlich stehn in der Bläue,
come se il sentiero fosse già percorso
als wäre der Weg schon durchmessen.
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si veda T. W. Adorno, Paratassi, in id. Note sulla letteratura, Einaudi, Torino 1979; pag. 127-169
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