Nella prima parte affronterò il concetto di standard e
neostandard secondo la terminologia di Berruto [Berruto
1987], in modo da definire il quadro sociolinguistico cui faccio
riferimento; successivamente, presenterò in termini generali i
linguaggi dei media e della televisione, in modo da sapere in
che contesto ci stiamo muovendo.
La seconda parte sarà invece dedicata in modo specifico
alla ricerca da me svolta. Prima definirò il corpus di studio e le
metodologie seguite per l’analisi. I capitoli successivi saranno
invece dedicati ognuno ad un aspetto dell’analisi: testualità,
morfologia, sintassi, lessico, pragmatica, fonologia. Infine, mi
occuperò di alcuni temi emersi durante l’analisi e che si sono
rivelati particolarmente interessanti: italiano popolare, varietà
di apprendimento.
L’ultimo capitolo sarà dedicato alle considerazioni
conclusive.
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1. Il concetto di standard
In questo primo capitolo cercherò di contestualizzare la
mia ricerca nell’ambito della sociolinguistica. Si tratta prima
di tutto di definire l’italiano in base alla gamma di varietà che
lo compone, in modo da arrivare a un modello di architettura
della lingua.
Affronterò poi il problema dello standard e di come esso
sia evoluto, a partire dagli anni ‘80, in neo-standard, secondo
la definizione di Berruto [Berruto 1987]; infine, analizzerò
alcuni tratti che differenziano queste due varietà.
1.1. Caratteri dell’italiano
Prima di tutto, analizziamo le caratteristiche dell’italiano
come insieme di varietà linguistiche [Berruto 2004: 69-70].
1.1.1. Il sistema di variazione
Le varietà di lingua si classificano in base a quattro
dimensioni fondamentali: diatopia, diastratia, diafasia e
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diamesia. Una quinta dimensione, quella diacronica (che
concerne cioè le variazioni della lingua attraverso il tempo)
non è di interesse della sociolinguistica, che è una disciplina
che si occupa in primo luogo di variabili sincroniche.
1.1.1.1. Varietà diatopiche
Quelle diatopiche sono le varietà che dipendono dalla
provenienza geografica dei parlanti [Berruto 2004: 76-83].
Il termine più usato, anche comunemente, per indicare
varietà diatopiche è dialetto, ma si tratta di un termine
ambiguo per due motivi principali: il primo è che i linguisti lo
usano con significati diversi, il secondo è che molti di quelli
che in Italia sono considerati dialetti in realtà non sono affatto
varietà dell’italiano, ma lingue a sé stanti.
1.1.1.2. Varietà diastratiche
La diastratia è la dimensione lungo la quale si
dispongono le variazioni che dipendono dalle classi sociali, o
strati sociali, e dai gruppi dei parlanti [Berruto 2004: 73-76].
A questa categoria appartengono le distinzioni tra lingua
dei giovani e lingua degli anziani, lingua delle donne e lingua
degli uomini, e anche tra lingua dei parlanti primari e
interlingue, ossia le varietà di apprendimento.
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In base alla diastratia si possono inoltre distinguere
lingua alta, lingua media e lingua bassa.
1.1.1.3. Varietà diafasiche
La diafasia raccoglie le variazioni che si presentano a
seconda della situazione sociale. A differenza delle altre
dimensioni, essa è interna ai singoli parlanti [Berruto 2004:
83-84].
Fino agli anni ‘80, il mezzo era considerato un fattore
interno alla diafasia, e solo successivamente è stato separato
perché costituisse una dimensione a sé, la diamesia [Berruto
2004: 85].
La due grandi classi di variazioni diafasiche sono i
registri, connessi al tipo di rapporto esistente tra i parlanti, e i
sottocodici, che dipendono dall’argomento del discorso, e di
cui tratteremo in maniera più approfondita nel prossimo
capitolo.
1.1.1.4. Varietà diamesiche
È la categoria legata al canale di comunicazione [Berruto
2004: 85].
È necessario distinguere tra il Medium, che può essere
grafico o fonico, e la Konzeption, che prevede scritto e parlato:
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questo significa che il linguaggio può avere molti tratti tipici
della lingua scritta anche quando utilizza il canale fonico, e
viceversa. Pensiamo ad esempio a un intervento letto a una
conferenza (scritto fonico) o ad una e-mail (parlato grafico).
1.1.2. Gamma di varietà
Per quanto riguarda l’Italia, la prima fonte di
diversificazione delle varietà è la dimensione diatopica; non
esiste infatti un unico repertorio valido per tutti gli italiani, ma
diversi repertori relativi a diverse aree geografiche [Berruto
1993b/1: 4].
Diversi autori hanno cercato di distinguere delle varietà
in cui suddividere l’italiano, muovendosi talvolta in base ad
una sola, talvolta in base ad alcune e in altri casi ancora
secondo tutte le dimensioni sociolinguistiche (diatopia,
diafasia, diastratia, diamesia) [Berruto 1993b/1: 8].
Tutti questi modelli, che in questa sede non è opportuno
trattare uno per uno, cercano di cogliere i tratti principali
della declinazione dell’italiano in una gamma di varietà, ma è
molto difficile inserire le varietà dell’italiano in uno schema
bidimensionale, come invece cercano di fare tutti questi
autori: fra di essi c’è accordo sugli estremi, ma cominciano a
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sorgere difficoltà quando si tratta di definire le varietà
posizionate nelle zone intermedie [Berruto 1987: 19].
1.2. Un modello di architettura dell’italiano
L’architettura dell’italiano è un continuum con
addensamenti, costituiti dalle varietà, che non sono discrete,
ma si sovrappongono tra loro.
Berruto [Berruto 1987: 19-27] propone un modello che
si fonda su tre premesse:
1. È necessario evitare di mescolare le dimensioni
fondamentali della variazione, senza per questo
dimenticare che esse, inevitabilmente, si intersecano.
2. La dimensione diatopica non deve costituire un
asse, come accade invece per le altre dimensioni, ma è
piuttosto lo sfondo su cui si dispongono le altre
dimensioni.
3. È stata presa la decisione di considerare, in questo
schema, anche la diamesia, perché l’opposizione scritto-
parlato non si può ricondurre totalmente all’opposizione
formale-informale.
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Lo schema è quello presentato in fig.1. Al centro si trova
lo standard, mentre man mano che ci si sposta verso la
periferia si trovano varietà non-standard e sub-standard. Il
quadrante in alto a sinistra indica le varietà più alte, quello in
basso a destra
indica quelle più
basse. Per quanto
riguarda la diafasia,
i registri sono a
destra e i sottocodici
a sinistra.
È necessario
ricordare che
l’italiano standard
letterario è descritto
e regolato in
maniera uniforme
dai manuali di
grammatica, ma conserva una sfumatura di marcatezza
diatopica, anche se in teoria non dovrebbe essere così: è quasi
impossibile trovare l’italiano standard letterario non marcato
utilizzato da parlanti reali. Al centro troviamo anche l’italiano
neo-standard, corrispondente a un italiano colto medio. Nei
prossimi paragrafi,
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Figura 1. Architettura dell’italiano [Berruto 1987:
21].
approfondiremo la questione dello standard e del neo-
standard.
Sarebbe scorretto interpretare il continuum qui
presentato in maniera creolistica, considerando basiletto il
dialetto puro e acroletto l’italiano standard, perché il
continuum dell’italiano non è lineare, ma multidimensionale:
quello dell’italiano è un continuum orientato ma non
polarizzato, in cui le diverse varietà coincidono con
addensamenti di fasci di tratti lungo il continuum stesso
[Berruto 1987: 28-29].
La grammatica di base del singolo parlante può
comprendere tratti di altre varietà rispetto a quella di base:
ogni parlante ha la propria varietà [Berruto 1987: 41].
1.3. Standard
È necessario sottolineare subito il fatto che quello di
standard sia un concetto puramente sociolinguistico, poiché
non si basa su proprietà intrinseche al sistema linguistico, ma
dipende da fattori sociali [Berruto in c. di st.]. Ancora negli
anni '50-'60 del XX secolo, l’italiano conservava un forte
carattere di lingua ufficiale e burocratica, e per molte persone
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la lingua di socializzazione primaria era ancora il dialetto
locale. Questo faceva sì che i tratti della lingua standard
coincidessero grosso modo con l’italiano letterario.
Ma qual è la definizione di lingua standard? Anche in
questo caso, diversi studiosi hanno individuato criteri diversi
in base ai quali definire lo standard, spesso in contrasto tra
loro. Sembra però opinione comune che lo standard sia
considerato la buona lingua, il modello cui adeguarsi; è anche
vero che, per questa sua natura, lo standard non può essere
la base dello studio linguistico, dal momento che è molto
difficile trovarlo in un contesto 'reale'. [Berruto in c. di st.].
Berruto [1987: 57] conclude che la nozione di standard
non è riconducibile ad un’unica proprietà, ma è data dalla
convergenza di diversi criteri: quattro tratti principali dello
standard sono uniformazione, artificialità, imposizione e
norma di riferimento [Berruto in c. di st.].
Questa è, però, una definizione funzionale; esiste anche
la possibilità di dare una definizione linguistica di standard.
Questa definizione può essere normativa, se viene individuato
un insieme di tratti che fungano da punto di riferimento
uniforme, oppure descrittiva, se individuiamo una serie di
tratti non marcati o poco marcati lungo il continuum. Una
definizione linguistica, come abbiamo già visto, non può
prescindere da una definizione sociale-funzionale: nel caso
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della definizione normativa dovremo tenere in considerazione
le funzioni di uniformità, di modello di riferimento e di
sovraregionalità, mentre per quanto riguarda la definizione
descrittiva avremo meno vincoli, ma non potremo trascurare
almeno la sovraregionalità, che è la conditio sine qua non per
definire la non-marcatezza [Berruto 1987: 58]. Per quanto
riguarda la definizione normativa, possiamo intendere lo
standard come la norma prescrittiva in base alla quale
vengono valutate tutte le produzioni linguistiche, mentre nella
definizione descrittiva lo standard è visto come la varietà non
marcata, neutra [Berruto in c. di st.].
Possiamo dire che un italiano standard è stato codificato
per la prima volta nel XVI secolo, elevando a standard una
varietà dell’epoca, il fiorentino delle classi colte, sicuramente
marcato diatopicamente, diastraticamente e anche
diafasicamente, se supponiamo che si trattasse della varietà
utilizzata per le opere letterarie. Sin dai primi tempi, però, è
iniziato un processo di divaricazione che ha fatto sì che
l’italiano standard non si possa identificare totalmente col
fiorentino colto. L’italiano standard è infatti ripulito da tutti i
tratti troppo marcatamente regionali, più che altro nell’ambito
della fonetica. Il risultato è che non esistono parlanti nativi
dell’italiano standard, almeno per quanto riguarda la
pronuncia, che viene appresa, nella forma tipica dello
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standard, solo da chi ha bisogno di possederla per motivi
professionali (attori, speaker) [Berruto 1987: 57-59].
La divaricazione tra fiorentino colto e italiano standard si
fa ancora più accentuata se si prendono in considerazione
lessico e morfosintassi: i mutamenti in questi settori
nell’italiano standard, infatti, si sono sviluppati in maniera
indipendente dal fiorentino colto fin dai primi secoli, e con
particolare evidenza negli ultimi cento anni. Altri autori, però,
sostengono invece che il fiorentino colto non abbia mai smesso
di influenzare lo standard dell’italiano, e che questo
andamento abbia subito un forte incremento con la cosiddetta
riforma manzoniana. In realtà, questi due approcci devono
essere uniti: l’italiano standard ha indubbiamente seguito
l’esempio del fiorentino, ma ha accolto anche gli apporti
provenienti dagli altri italiani regionali [Berruto 1987: 59-61].
Per quanto riguarda l’ultimo secolo, poi, è ovvio che il
grande aumento di italofoni ha naturalmente significato un
notevole incremento di non toscani che hanno adottato
l’italiano come lingua primaria, ma questo italiano ovviamente
non è lo standard, ma diverse varietà di italiano regionale
[Berruto 1987: 61].
Consideriamo infine l’aspetto della norma. Abbiamo già
visto che la norma può essere norma prescrittiva, ossia un
modello cui uniformarsi per non commettere quello che è
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considerato un errore, norma descrittiva, quando raccoglie
l’insieme dei tratti meno marcati, cui i parlanti tendono a
uniformarsi per soddisfare le aspettative dell’interlocutore,
oppure norma statistica, quando è costituita dall’uso più
diffuso. Se consideriamo la norma prescrittiva, l’italiano
standard è la varietà migliore perché obbedisce a certe regole
di purismo. Per quanto riguarda la norma descrittiva, invece,
ogni varietà di italiano ha la propria, e quindi non esiste una
norma descrittiva unica nella lingua italiana [Berruto 1987:
61-62]. L’italiano standard non è la somma degli italiani
regionali, né è costituito dai tratti comuni a tutte queste
varietà.
Per molti secoli l’italiano standard era identificato con
l’italiano letterario scritto, e questa concezione è
necessariamente entrata in crisi quando l’italiano si è
trasformato da lingua prettamente scritta e utilizzata dalle
classi alte a lingua parlata dalla maggioranza della
popolazione. Questa situazione ha portato alla nascita del
neo-standard [Berruto 1987: 62].
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1.4. Neo-standard
Negli anni ‘80, è iniziato un processo di ri-
standardizzazione dell’italiano: ora lo scritto tipico tende ad
accogliere alcuni tratti che prima erano esclusivi del parlato, e
la sfera dello standard ha cominciato ad accogliere tratti che
prima erano considerati sub-standard. Berruto ha definito
questa nuova varietà neo-standard [Berruto 1983].
Ai motivi di questo processo abbiamo già accennato: la
situazione precedente era costituita da un monolinguismo
dialettale con alcuni bilingui dialetto/italiano, mentre ora la
maggioranza è costituita da bilingui, con una parte di
monolinguismo italiano. Questo nuovo standard, creato dalla
mutata interazione sociale, è più semplice, più variato, e
anche radicato più profondamente nel contesto sociale, e pare
in fase di consolidazione [Berruto 1983: 63].
La varietà standard sembrerebbe ormai ridotta allo
scritto formale, ma ancora negli anni '80 era stato osservato
che i cambiamenti sembravano limitarsi quasi esclusivamente
al parlato, notando che in buona parte della produzione
scritta, anche più bassa e/o informale (fumetti, riviste,
paraletteratura), le norme dello standard sembrano esercitare
ancora una forte influenza. L'impressione è che tale influenza
sia piuttosto forte anche nei nostri anni, sebbene ad alcuni
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livelli si possa osservare un avvicinamento al neo-standard
[Sebastiani 2002].
1.4.1. Tratti salienti
Vediamo ora alcuni tratti tipici del neo-standard, che
secondo una trattazione di Berruto di alcuni anni fa [Berruto
1987: 55-104] lo differenziano dallo standard.
Le preoccupazioni che alcuni studiosi hanno espresso
riguardo questo mutamento della lingua, che secondo alcuni
sta portando a un suo ‘inselvatichimento’, sono più culturali
che linguistiche; è vero che, diventando lingua di massa,
l’italiano ha visto un significante aumento quantitativo degli
usi scorretti, ma non sembra che questa situazione abbia
un’influenza sulle strutture della lingua, nonostante non si
possano negare alcuni spostamenti e ‘promozioni’ di alcuni
tratti dell’italiano sub-standard. Non bisogna però dimenticare
che alcuni di questi tratti erano già presenti nell’italiano
standard del passato, sono stati in seguito considerati sub-
standard ed ora sono ‘risaliti’ allo standard.
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