Con riguardo all’art. 2059 c.c., il confronto si è articolato intorno al concetto di “danno non
patrimoniale risarcibile3, onde circoscrivere l’effettiva portata del vincolo di tipicità posto
dalla norma in esame.
Tale vincolo è stato per decenni considerato dalla prevalente giurisprudenza come
un’invalicabile limitazione del danno non patrimoniale risarcibile al solo danno morale
derivante da reato ex art. 185 c.p. (c.d. tesi restrittiva del danno non patrimoniale), nonché
alle altre sporadiche ipotesi di danno non patrimoniale espressamente contemplate dal
legislatore4.
A causa di quest’interpretazione restrittiva dell’art. 2059 c.c., il danno biologico, derivante
dalla lesione del diritto alla salute quale interesse costituzionalmente garantito all’integrità
psichica e fisica della persona, tradizionalmente considerato dalla dottrina come tipologia più
rilevante del genus del danno non patrimoniale, era risarcibile soltanto indirettamente, entro i
limiti in cui si fosse tradotto in una perdita della capacità della vittima di produrre reddito
(danno patrimoniale, da perdita della capacità lavorativa specifica).
Si comprende dunque come il substrato dogmatico, nonché le istanze pratico-applicative poste
alla base del danno biologico si rinvenivano proprio nell’esigenza di superare lo sbarramento
risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma,
contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante.
Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del fatto
illecito delineato dall’art. 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la
sua atipicità. Compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art. 2043 c.c., è quindi quello di procedere
ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché solo la lesione di un interesse siffatto può dare
luogo ad un “danno ingiusto”[…]. Cfr. F. CARINGELLA, Manuale di diritto civile, Le obbligazioni, vol. II, Giuffrè,
2007, p. 751.
3
All’indomani dell’entrata in vigore del codice civile del 1942 è emerso un problema di fondo relativo
all’esegesi dell’art. 2059 c.c. : se in altri termini la norma in esame riguardi tutti i danni non patrimoniali di
qualsiasi tipo (c.d. tesi estensiva del danno non patrimoniale) oppure se la disposizione si riferisce
esclusivamente a quella parte di danni patrimoniali per i quali la questione del risarcimento era stata
maggiormente avvertita nella vigenza del precedente codice, cioè i danni morali puri (o soggettivi), consistenti
nelle sofferenze psicologiche transeunte (turbamento emotivo, patema d’animo, dolore momentaneo) patite dalla
vittima dell’illecito (c.d. tesi restrittiva del danno non patrimoniale).
La tesi estensiva pertanto sosteneva che per “danno non patrimoniale risarcibile solo nei casi
determinati dalla legge” dovesse intendersi qualsiasi tipo di pregiudizio diverso dalla lesione del patrimonio in
senso stretto, e quindi sia il turbamento emotivo transitorio (danno morale soggettivo) sia ogni altra offesa di
beni non patrimoniali (l’integrità fisica, l’onore, la riservatezza). Si evince chiaramente tuttavia come una simile
opzione esegetica comportasse l’illogica e costituzionalmente dubbia limitazione della risarcibilità del danno alla
salute allo stretto vincolo di tipicità imposto dall’art. 2059 c.c., cioè all’ipotesi in cui l’illecito civile lesivo della
salute costituisca reato ai sensi dell’art. 185 c.p. In caso contrario (danno alla salute derivante da illecito non
penale) il pregiudizio al bene dell’integrità psicofisica era risarcibile soltanto nei limiti in cui si fosse tradotto in
una perdita della capacità della vittima di produrre reddito (c.d. capacità lavorativa specifica) ed in definitiva in
un danno patrimoniale. La salute verrebbe così ad essere tutelata non in quanto bene fondamentale rilevante ex
se ai sensi dell’art. 32 Cost., bensì come strumento di produzione di un reddito. Cfr. sul tema C. M. BIANCA, Diritto
civile, La responsabilità, vol. V, Giuffrè, 1994, p. 178; F. CARINGELLA, Manuale di diritto civile, cit., p. 860.
4
Si vedano, esemplificativamente, i casi dell’art. 89 c.p.c. e 598 c.p., dell’art. 2, comma 1, legge n. 117/1988,
dell’art. 29 legge n. 675/1996 (v. ora art. 15, comma 2, d. lgs. n. 196/2003), dell’art. 44, comma 7, d. lgs. n.
286/1998, dell’art. 2 legge n. 89/2001, art. 3, comma 3, legge n. 67/2006, art. 37, commi 3 e 4 e art. 38, comma
1, d. lgs. n. 198/2006.
5
costituito dalla tipicità del danno non patrimoniale imposta dall’art. 2059 c.c., anche al fine di
evitare le conseguenti illogiche ed inaccettabili discriminazioni di tipo censitario.
In particolare l’esigenza più avvertita e gradualmente inseguita da parte di dottrina e
giurisprudenza è stata quella di riconoscere comunque una pretesa risarcitoria a chi avesse
subito un danno alla salute, a prescindere dalla presenza e dalla prova di riflessi economici
negativi nella sfera del danneggiato.
A questo scopo la giurisprudenza per superare l’ostacolo rappresentato dai limiti di
applicazione dell’art. 2059 c.c. e consentire la tutela risarcitoria della salute anche in favore di
categorie areddituali (casalinga, disoccupato, pensionato) ammette in una prima fase una
dimostrazione semplificata del suddetto riflesso patrimoniale, facendo perno sul concetto di
capacità lavorativa generica, propria di tutti i soggetti indistintamente a prescindere da una
capacità lavorativa specifica5.
Altri escamotages a tal fine elaborati dalla giurisprudenza sono rappresentati dalle categorie
del pregiudizio alla vita di relazione: il soggetto leso nella salute perde la possibilità di
inserirsi nel contesto sociale o di mantenervisi, ha minori chanches di concorrere nel mercato
del lavoro e conseguentemente minori occasioni di produrre reddito. Trattasi di un danno non
già morale (non essendo legato a sensazioni dolorose momentanee) ma neanche stricto sensu
patrimoniale (non essendo rapportabile ad una perdita di capacità lavorativa specifica),
comunque rientrante nella nozione di danno patrimoniale latamente inteso6 posta alla base
della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c.
Le medesime considerazioni valgono per il concetto di danno estetico (minore gradevolezza
estetica del soggetto leso nella salute): per esempio un soggetto che abbia riportato un
importante danno estetico al volto è menomato con riguardo alle occasioni non solo lavorative
ma anche di socializzazione, perdendo così capacità relazionali fonte diretta o indiretta di
guadagno.
Anche in questi casi tuttavia resta fermo che la lesione della salute è risarcibile unicamente se
è provata, sia pure in modo semplificato, la perdita di capacità reddituale.
Pertanto le suddette categorie dogmatiche non risolvono il problema della tutela risarcitoria
della salute in quanto tale, cioè senza distinzioni basate sul censo, sulla classe sociale di
appartenenza del danneggiato o su connesse valutazioni probabilistiche7; infatti le nozioni di
5
Qualunque vittima di un illecito offensivo del bene salute può agevolmente dimostrare la perdita di capacità
lavorativa conseguente (danno reddituale presunto).
6
Tale nozione, accogliendo una lettura ampia ed aggiornata del concetto di patrimonio di cui all’art. 2043
c.c.,che sarà ripresa anche dalla storica sentenza della Corte cost. n. 184/1986, intende lo stesso come
comprensivo dei beni strettamente inerenti alla persona, come la salute appunto, e non solo di quelli materiali di
immediato carattere economico. Sul punto cfr. F. CARINGELLA, Manuale di diritto civile, cit., p. 861.
7
Autorevole dottrina (cfr. ID, op. ult. cit., p. 861) rileva che con riferimento al minore vittima dell’illecito sarebbe
necessario effettuare un giudizio prognostico e probabilistico relativamente alla futura capacità reddituale che
6
capacità lavorativa generica, danno alla vita di relazione, danno estetico, operando solo sul
piano della semplificazione probatoria, implicano comunque un inaccettabile giudizio
discriminatorio di tipo censitario o fondato sulle condizioni personali della vittima.
È soltanto la storica sentenza della Corte Costituzionale n. 184/19868 che si è avuto il
superamento di tale discriminazione: essa ha delineato i confini del danno biologico come
danno alla salute considerata ex se, a prescindere dalle eventuali ripercussioni patrimoniali
subite dalla vittima dell’illecito aquiliano, quali ad esempio la riduzione della sua effettiva o
potenziale capacità lavorativa. La Consulta ha interpretato in modo realmente innovativo gli
art. 2043 e 2059 c.c. arricchendoli di nuovi significati emergenti dal tessuto costituzionale.
La Corte Costituzionale, attraverso un’operazione ermeneutica fondata sulla lettura dell’art.
2043 in combinato disposto con l’art. 32 Cost., nonché mediante la qualificazione del danno
alla salute come danno evento (poiché le conseguenze dannose sarebbero in re ipsa
dimostrate, cioè per il semplice fatto della lesione del bene/interesse fondamentale), ha
sostenuto la necessità di una lettura ampia ed aggiornata del concetto di patrimonio di cui
all’art. 2043 c.c.9 in senso non solo economico, ma anche personale, comprensiva del bene
salute onde svincolarlo del tutto dai rigori dell’art. 2059 c.c.
Secondo il Giudice delle leggi la lesione di diritti fondamentali costituzionalmente sanciti in
norme precettive (salute di cui all’art. 32 Cost.) doveva quindi essere necessariamente
risarcita alla stregua dell’art. 2043 c.c. in quanto menomazione di una posta attiva del
patrimonio individuale latamente inteso (danno alla salute come pregiudizio lato sensu
patrimoniale). Ne discendeva che dall’ambito operativo dell’art. 2059 c.c. andavano depennati
i pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti fondamentali per transitare nella sfera di
operatività dell’art. 2043 c.c. Pertanto l’art. 2059 c.c. in combinato disposto con l’art. 185 c.p.
riguardava soltanto i danni morali soggettivi (accoglimento della c.d. tesi restrittiva del danno
non patrimoniale).
In tal modo sorgeva quella concezione tripartita della responsabilità civile fondata sul:
1. danno stricto sensu patrimoniale ex art. 2043 c.c. (danno-conseguenza di carattere
patrimoniale, fondato sulle conseguenze negative dell’illecito sul piano economico,
che andranno allegate e provate dalla parte che invoca la tutela risarcitoria);
2. danno biologico scaturente dalla lettura combinata dell’art. 2043 c.c. con l’art. 32
Cost. (danno-evento lato sensu patrimoniale, uguale per tutti, “presunto” risarcibile ex
tenga conto delle condizioni socioeconomiche della famiglia in cui vive, dovendosi ritenere plausibile che il
figlio svolga la stessa attività del padre (vedi Trib. Milano, 18 gennaio 1971, in Giur. merito, 1971, I, p. 10.
8
Cfr. Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, c. 2053 ss.
9
Cfr. le considerazioni espresse in nota 6.
7
se per il semplice fatto dell’alterazione dell’integrità psicofisica a prescindere dalla
prova della ricorrenza di conseguenze dannose);
3. danno morale soggettivo costruito sulla rigida interpretazione della clausola di tipicità
dell’art. 2059 c.c. (danno–conseguenza non patrimoniale, identificato nelle sofferenze
psicologiche transeunte patite dalla vittima dell’illecito e conseguentemente risarcibili,
ai sensi dell’art. 2059 c.c., soltanto nei casi previsti dalla legge, ovverosia di
coincidenza tra l’illecito civile e quello penale ex art. 185 c.p.).
Tale tripartizione ha resistito sino agli interventi della Corte di Cassazione del maggio 200310,
successivamente avallati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 23311 dello stesso anno.
Tuttavia già prima delle storiche sentenze del 2003, a partire dalla pronuncia della Corte
Costituzionale n. 372/1994, è stato assestato un duro colpo alla costruzione del danno evento
in quanto la risarcibilità del danno biologico è stata subordinata alla dimostrazione oltre che
dell’esistenza della lesione dell’integrità psicofisica, anche della derivazione, dalla lesione
medesima, di conseguenze dannose per la vittima dell’illecito12. Non si è infatti mancato di
notare come il “danno” è necessariamente “conseguenza” dell’illecito, per cui anche il danno
alla salute non può che essere qualificato come tale13.
A fondamento di tale assunto è stato posto l’art. 5, comma 4, legge n. 57/2001 (nella
formulazione antecedente alla novella di cui all’art. 23, comma 3, l. n. 273/2002),
disposizione che consente al danneggiato da sinistro stradale di dimostrare in giudizio un
danno biologico “ulteriore” rispetto al quantum determinato in base al criterio legislativo
generale del punto percentuale variabile, ossia una “conseguenza ulteriore” della lesione della
salute, un peggioramento aggiuntivo della qualità della vita dell’offeso (danno biologico
consequenziale).
L’impostazione tricotomica del danno non patrimoniale prospettata dalla Consulta del 1986
è stata comunque completamente ribaltata, allorquando la Suprema Corte, sez. III, sentt. nn.
8827 e 8828/2003, superando definitivamente la qualificazione del danno biologico come
danno evento, ha incluso nell’area del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. oltre al
10
Cfr. Corte Cass., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828.
11
Cfr. Corte Cost., 11 luglio 2003, n. 233.
12
L’impostazione della Corte Costituzionale del 1986 è stata perciò parzialmente ribaltata dalla successiva
pronuncia n. 372/1994: se nel 1986 il Giudice delle leggi ritenne sufficiente la prova dell’esistenza della lesione
(“in se”) dell’integrità psicofisica (essendo considerato il danno biologico un danno-evento “presunto”) per far
sorgere l’obbligazione risarcitoria con i conseguenti rischi di duplicazioni e sperequazioni, nel 1994 l’efficacia
della presunzione di cui si è detto viene circoscritta alla dimostrazione dell’an del danno, necessitando il profilo
del quantum di una prova ulteriore.
13
Cfr. M. ROSSETTI, Il danno biologico dal diritto vivente al diritto vigente, in www.lexfor.it Opinioni di diritto
civile, 2001, p. 5: “Anche ad ammettere che il danno biologico sia un danno evento, la sua risarcibilità non
scaturirebbe ipso facto dalla dimostrata esistenza di lesioni alla persona, ma sorgerebbe soltanto dall’ulteriore
prova che le lesioni hanno causato la riduzione di un valore personale dell’ individuo, cioè dalla prova di un
danno-conseguenza”.
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