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INTRODUZIONE
La parabola filosofica di Herbert Marcuse è molto singolare. La sua figura di
intellettuale si accende improvvisamente come una fiammata, ma altrettanto
improvvisamente si spegne, diventando cenere. E viene accantonata, quasi dimenticata.
Per gran parte della sua vita è un teorico poco conosciuto fuori dagli degli ambienti
accademici. Ma nella seconda metà degli anni Sessanta, quando l’uomo è ormai alla
soglia dei settant’anni, acquista in brevissimo tempo un enorme e folgorante prestigio,
che lo rende per più di tre lustri è pensatore molto noto e molto letto, in particolar modo
nel variegato mondo della Nuova Sinistra. Però qualche anno dopo la sua scomparsa,
avvenuta nel 1979, sul suo nome cala il silenzio. Non si assiste a un eclissi lenta e
graduale, ma a un abbandono fulmineo. Quasi un oblio. Al punto che a distanza di circa
vent’anni è estremamente difficile reperire i suoi testi minori, tutti fuori commercio, per
non parlare dei saggi critici sul suo pensiero, quasi rarità da collezione.
Questo rapido declino è parallelo all’insorgere di un periodo di riflusso e disimpegno
che segna l’esaurirsi della carica di contestazione che ha contraddistinto gli anni
Sessanta e Settanta. L’aspetto curioso e paradossale è che l’interesse per Marcuse scema
proprio nel momento in cui le tendenze che egli coglie nella società statunitense si
diffondono su larga scala anche nel resto del mondo occidentale, proprio quando la sua
riflessione diviene di estrema attualità. Infatti mentre negli anni Cinquanta e Sessanta le
sue critiche potevano sembrare eccessive o troppo crude, dettate dalla non nuova
insoddisfazione di un intellettuale che, secondo un copione già visto, vede nel progresso
i soliti segnali di decadenza, oggi si rivela precorritrice dei tempi. Straordinariamente
incisiva e puntuale. Capace di preannunciare i fenomeni sociali più diffusi del tardo
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capitalismo. Da questo punto di vista il pensatore di formazione francofortese si
dimostra uno dei più accurati osservatori della società contemporanea e uno dei più
attenti interpreti dei suoi sviluppi.
In genere il senno di poi influisce negativamente sulla valutazione di un pensiero,
perché lo estrapola dal suo contesto e utilizza criteri calibrati alla luce dell’evoluzione
successiva. E in questo modo impedisce una piena comprensione del clima intellettuale
e sociale in cui questa riflessione è immersa. Nel caso del giudizio su Marcuse questo è
vero solo in parte. Infatti un’esatta collocazione storica e culturale è indispensabile per
comprendere alcuni aspetti della sua speculazione, come le basi della sua formazione
filosofica, l’evoluzione del suo pensiero, l’attenzione verso determinate problematiche o
la passione ideale presente nei suoi ultimi scritti. Tuttavia la profondità e la
lungimiranza di questo filosofo possono essere colte in maniera compiuta soltanto con
gli occhi del presente, solamente se la sua riflessione viene inserita in una prospettiva
più ampia, ‘slargata’, che tenga in considerazione anche la situazione attuale. Non solo
perché una valutazione distaccata permette di raggiungere una maggio obiettività e una
maggior lucidità. Non solo perché molti dei giudizi dati a caldo dimostrano di risentire,
sia negli apprezzamenti che nelle critiche, del clima di scontro ideologico di quegli anni.
Ma soprattutto perché Marcuse è uno di questi teorici che anticipa il corso della storia,
prefigurando gli sviluppi futuri. Indica all’uomo occidentale i pericoli che lo attendono
dietro l’angolo. Leggere Marcuse con il senno di poi significa avere la consapevolezza
che la realtà di oggi offre una chiara conferma della sua analisi critica, significa
riconoscergli di aver previsto da alcuni sintomi una trasformazione sociale che in
seguito si è effettivamente verificata. Se l’attenzione per le istanze avanzate dalla
contestazione giovanile e la netta condanna della guerra in Vietnam costituiscono gli
aspetti della riflessione di Marcuse più legati a un momento storico specifico, la teoria
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della società a una dimensione rappresenta senza dubbio la parte più attuale e
lungimirante. Non sempre dotata di rigore analitico e di solidità teorica, la sua disamina
rivela, però, un intuito e una profondità non comuni nello sviscerare i nuovi e sofisticati
meccanismi di repressione e di controllo sociale, spesso mascherati dal benessere
materiale e dalle comodità offerte dalla tecnologia. È sufficiente leggere poche pagine
de L’uomo a una dimensione per rimanere colpiti dalla capacità dell’autore di leggere
l’evoluzione degli eventi e mostrare la direzione verso cui le società occidentali della
metà degli anni Sessanta iniziavano a muovere i primi passi, direzione verso la quale, di
lì a poco, si sarebbero incamminate definitivamente. Consumismo, integrazione
dell’opposizione, sostanziale uniformità nei pensieri e nei comportamenti, adesione
acritica ai modelli funzionali dell’apparato sono solo alcuni dei tratti del capitalismo
maturo che il filosofo tedesco denuncia con questa teoria. Un atto di accusa che ha come
obbiettivo primario la logica produttivistica di un sistema basato quasi esclusivamente
sulle leggi del mercato, nella sua versione liberista o socialdemocratica poco cambia
quando l’una e l’altra si rincorrono a vicenda.
Trascorso il periodo aureo di Marcuse, i pochi studiosi che a partire dalla prima metà
degli anni Ottanta si sono avvicinati o riavvicinati a questo filosofo hanno preferito
relegare in secondo piano l’aspetto più squisitamente critico-sociale del suo pensiero.
Alcuni hanno ritenuto opportuno soffermarsi sul suo iniziale periodo heideggeriano,
altri hanno privilegiato la fase della sua collaborazione con l'Istituto per la Ricerca
Sociale, altri ancora hanno sottolineato l’interesse per l’estetica e la letteratura, presente
nell’intero arco della sua produzione. Forse perché particolarmente legata a uno dei
periodi più caldi e discussi del secondo dopoguerra, con tante pagine ancora da scrivere
e, probabilmente, altrettante da riscrivere, la sua aspra critica della società industriale
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avanzata viene giudicata come uno degli eccessi di quegli anni. Viene considerata una
tematica ormai logora e sorpassata, a cui è inutile dedicare ulteriore attenzione.
Il principale obiettivo di questo lavoro è ripercorrere i momenti salienti della
riflessione di Marcuse e mostrare gli elementi ancora estremamente attuali.
Indubbiamente alcuni aspetti sono datati. Ma altri rendono il suo pensiero ancora ‘vivo’.
In particolare la sua diagnosi propone nuove e stimolanti chiavi di lettura che
consentono di cogliere l’altro volto della società e far emergere tutta l’irrazionalità della
sua organizzazione, evidente soprattutto nella sopravvivenza di notevoli disparità sociali
e nell’incapacità di soddisfare in modo equo e razionale le esigenze della collettività.
Però Marcuse non si limita a sottolineare le contraddizioni e le distorsioni del sistema.
Egli ravvisa proprio in ciò che la propaganda ufficiale ostenta come grandi conquiste di
libertà e benessere i germi di un condizionamento strisciante che si insinua anche nella
sfera privata, manipolando i bisogni, le abitudini quotidiane e persino alcuni processi
psichici inconsci. Con la sua analisi Marcuse fornisce categorie utili per comprendere
più a fondo le strutture del dominio, in special modo le nuove forme di indottrinamento
e di controllo sociale. Sono categorie con un profondo contenuto critico, capace di
spogliare le moderne democrazie occidentali del loro velo di pluralismo e opulenza e
mettere completamente a nudo la loro anima repressiva e totalitaria. Una repressione e
un totalitarismo differenti da quelli tradizionali, perché fondati non sulla violenza
esplicita e su imposizioni manifeste, ma su una eccezionale capacità di chiudersi a ogni
alternativa qualitativa e a ogni forma di dissenso radicale.
Ma il discorso di Marcuse non si sofferma solo sui rilievi negativi. Egli coglie anche il
notevole potenziale positivo, di libertà ed emancipazione, presente nel vertiginoso
sviluppo della scienza e della tecnica. E a tratti mostra anche una discreta fiducia nelle
sue possibilità di attuazione. In questo quadro l’utopia è il concetto attraverso cui viene
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rappresentata la più paradossale contraddizione della civiltà tecnologica: grazie alle
conquiste del progresso la possibilità di una piena emancipazione umana, legata in
primo luogo all’indipendenza dalla necessità materiale, è a portata di mano, ma
contemporaneamente è anche la prospettiva più efficacemente repressa. Nell’ambito
semantico dell’utopia si gioca il conflitto tra opportunità storica di uno sviluppo umano
qualitativamente diverso e potere costituito che ostacola la sua realizzazione.
Quello di Marcuse è un pensiero in costante tensione tra realtà e possibilità, intesa
quest’ultima come possibilità reale e non solo logico-formale. È un pensiero in grado di
percorrere il sentiero che delimita la concretezza dall’utopia, ma che permettere di
guardare entrambe da vicino e leggere la loro differenza come un elemento critico
dell’esistente e un impulso alla sua trasformazione. Come rileva lo studioso italiano
Carlo Galli, nell’evoluzione di questo pensiero tale elemento critico assume varie
forme, “presentandosi ora come fondazione, ora come negazione determinata, ora come
istinto”,
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e inoltre io aggiungo anche come utopia. Ma l’intento è sempre quello di
evidenziare l’irrazionalità dell’organizzazione economica e sociale, e ciò nel continuo
confronto con le concrete prospettive di cambiamento qualitativo. Cogliere le possibilità
inespresse dell’essere implica il rifiuto di sottomettersi al potere univoco dei fatti. È il
presupposto teorico per trascendere l’immediatezza del contingente. Per affermare le
potenzialità di emancipazione latenti e realizzarle nella storia.
Affrontare il problema della libertà e dell’utopia significa affrontare il cuore pulsante
del pensiero di Marcuse. La libertà è uno dei grandi temi della modernità. Una delle
grandi conquiste della seconda metà del Novecento. Ma contemporaneamente è anche
una delle più grosse ‘contraffazioni’ delle democrazie contemporanee. Presente sia negli
slogan di destra che di sinistra, sia nei discorsi conservatori che progressisti, è diventata
1
C. Galli, Introduzione all’edizione italiana di H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, Il Mulino, Bologna,
1997, p. 9.
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una semplice parola d’ordine adatta per tutte le stagioni. Un appello demagogico
utilizzato solo per ottenere consensi. Raramente un principio in sé positivo è stato tanto
esaltato e insieme tanto disatteso. Alterato ad arte a seconda delle circostanze, il suo
contenuto è stato profondamente snaturato. Infatti privata delle sue istanze più radicali e
anti-sistema, la libertà è stata trasformata in uno strumento di contenimento
dell’opposizione, in un contentino in grado di addolcire le ingiustizie e ridurre la
conflittualità sociale. Il risultato è che questo tipo di libertà assume i tratti di una
repressione raffinata, basata sull’introiezione democratica della logica del dominio. E in
questo modo alimenta gli interessi costituiti.
Nelle democrazie occidentali la libertà viene concessa generosamente sotto varie
forme: libertà individuali, suffragio universale, libertà di espressione e di riunione, …
Ma in ultima analisi si rivela una libertà incapace di trascendere l’ordine esistente,
perché è circoscritta ad attività e ambiti innocui per la stabilità dell’insieme. Non pone
mai in discussione l’organizzazione complessiva. Consente di agire e decidere in totale
autonomia, ma solo entro regole e confini precisi. Regole e confini e stabiliti,
ovviamente, dall’alto. Grazie anche ai successi della tecnologia, l’originario potenziale
antagonista della libertà è stato posto sotto controllo. Razionalizzato. E reso funzionale
alle esigenze dell’apparato. È una libertà senza liberazione.
Il contributo innovativo di Marcuse, per cui questo pensatore merita ancora di essere
letto, risiede nell’aver compreso che la società tardo capitalista ha inaugurato nuove
forme di sfruttamento e di controllo sociale, che fanno leva sul benessere materiale, la
libertà e il pluralismo. In passato il potere costituito guardava a questi tre fattori come a
una minaccia per i suoi interessi e per la sua stessa sopravvivenza; ora li considera
elementi che garantiscono l’ordine e la stabilità, capaci anche di creare nuove fonti di
profitto. Marcuse denuncia con forza queste nuove dinamiche repressive, in grado di
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utilizzare le libertà democratiche e la maggior disponibilità economica come strumenti
di condizionamento dei bisogni, delle coscienze e dei comportamenti. L’analisi del
teorico tedesco si pone come una lettura lucida e implacabile di un sistema in cui
l’individuo tende a perdere ogni spazio di autonomia e di reale autodeterminazione, in
cui ogni momento della giornata e ogni aspetto dell’esistenza tendono a essere modellati
secondo gli interessi dell’apparato, con l’effetto che le persone sono indotte ad
adeguarsi volontariamente alle esigenze del dominio, legate a soddisfazioni e a bisogni
repressivi che alimentano la sua logica. I risvolti sociali e politici sono numerosi e
Marcuse ne coglie completamente le ripercussioni negative.
Per avere un quadro più completo sul pensiero di Marcuse occorre aprire una parentesi
sull’Istituto per la Ricerca Sociale, più noto con il nome Scuola di Francoforte, a cui il
filosofo tedesco appartiene dal 1932 al 1942 e con cui continua a intrattenere buoni
rapporti anche in seguito. Di fatto questa esperienza rappresenta un momento
fondamentale nella sua formazione, una fase che, come egli stesso riconosce, segna
profondamente la sua evoluzione teorica.
La Scuola di Francoforte viene fondata nel 1922 da un gruppo di intellettuali di area
marxista. Quando Marcuse viene accolto tra le sue fila l’Istituto ha già iniziato i
preparativi per abbandonare la Germania a causa dell’ascesa del nazismo. È una scelta
obbligata, dettata sia dalle sue tendenze politiche, sia dalle origini ebraiche di molte dei
suoi membri. Nel 1933 il centro si trasferisce a Ginevra, poi dal 1934 negli Stati Uniti.
Con la fine della guerra e la caduta del Terzo Reich alcuni dei suoi esponenti, come
Horkheimer e Adorno, fanno ritorno in Germania, mentre altri, come Marcuse,
rimangono oltreoceano.
Un’esposizione esauriente e articolata dell’attività culturale della Scuola di Francoforte
e del suo contributo nella storia del pensiero richiederebbe una trattazione separata. In
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questa sede mi limito a soffermarmi, in estrema sintesi, sugli aspetti più rilevanti e
significativi, utili per comprendere meglio le basi su cui si è sviluppata la riflessione di
Marcuse.
Il principale intento dell’Istituto di Ricerca di Francoforte è lo studio analitico
dell’organizzazione tardo capitalista. La sua elaborazione teorica si presenta, in
sostanza, come una teoria critica della società di massa contemporanea, definita
opulenta e repressiva, alla luce dell’ideale di una condizione umana differente, libera e
disalienata. Questa speculazione si pone nella forma di un pensiero critico e negativo
nei confronti dell’esistente, teso a smascherare l’irrazionalità della società e
contrapporre alla sua organizzazione attuale un modello ‘utopico’ in grado di fungere da
stimolo rivoluzionario per un mutamento radicale.
Su questa riflessione esercitano una notevole influenza Hegel, Marx e Freud, pensatori
che, in termini molto schematici, rappresentano i padri delle tre tradizioni culturali a cui
si richiamano i membri dell’Istituto. Dalla tradizione hegelo-marxista la Scuola di
Francoforte eredita la tendenza a impostare un discorso dialettico e totalizzante intorno
al reale: dialettico in quanto è volto a evidenziare le contraddizioni interne al sistema
sociale; totalizzante in quanto valuta il particolare sempre in relazione all’universale e
non si ferma alla constatazione di ciò che la società è, ma intenda porla in discussione
nella sua globalità, esprimendosi su ciò che dovrebbe essere. In particolare da Marx
eredita l’analisi dello sviluppo del capitalismo e la determinazione dei presupposti della
società socialista. Mentre da Hegel eredita il modello di ragione negativa che non
accetta l’intrascendibilità dell’esistente, ma genera una tensione critica che rifiuta di far
coincidere l’essere con la realtà, il razionale con il reale. Inoltre da Freud mutua
principalmente gli strumenti analitici per lo studio della personalità e dei meccanismi di
introiezione dell’autorità. Infine dalla sinistra freudiana, in special modo da Reich,
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mutua l’interpretazione dei concetti psicoanalitici di ‘ricerca del piacere’ e di ‘libido’
come istinti creativi che devono essere liberati dalle imposizioni autoritarie della società
di classe. L’obiettivo ultimo è il recupero della dimensione soggettiva del marxismo
che, secondo i principali esponenti dell’Istituto della Ricerca Sociale, lo stesso Marx
non avrebbe sviluppato adeguatamente.
Come ho tentato di dimostrare, molte posizioni di Marcuse sono più vicine a Marx di
quanto la maggior parte della critica abbia rilevato. Con ciò non voglio sostenere che
Marcuse sia un marxista ortodosso. Egli stesso avrebbe rifiutato tale definizione. E
d’altra parte non è mia intenzione distribuire patenti di marxismo. Tuttavia è importante
sottolineare che più che a un allontanamento dalla teoria del padre del comunismo, si
assiste a un suo ripensamento critico, a un tentativo di attualizzazione (anche grazie
all’integrazione con altre riflessioni e al contributo di altre discipline). Proprio il
filosofo tedesco afferma in più occasioni di essere impegnato in uno ‘sviluppo teorico’
del marxismo.
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In alcuni casi questa rilettura produce esiti positivi e stimolanti, in altri
giunge a risultati alquanto opinabili. Ma indipendentemente dal giudizio di merito, da
un punto di vista teorico rimane un’originale riformulazione del pensiero di Marx, che
la tradizione marxista non può ignorare.
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Si veda ad esempio H. Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Bari, 1968, cit., p. 162.