riguarda la lingua tedesca. L’elaborato è imperniato sulla rassegna della storiografia e perciò non sono
state considerate fonti dirette.
Per quanto riguarda la delimitazione del periodo oggetto di analisi, si è preso in considerazione l’arco
temporale che va dai primi anni Venti fino al 1936. E’ stato infatti indispensabile analizzare il contesto
e il decennio alla fine del quale la crisi si è manifestata. Successivamente si sono considerati i sei anni
successivi all’inizio della crisi nei quali si è passati dal punto più profondo della depressione, alla
ripresa. Nel stabilire tale limite temporale si è tenuto conto anche dell’ambito geografico sul quale si è
concentrato l’elaborato. Infatti, si è preferito accentuare l’attenzione sui poli americano e europeo della
crisi, considerando due fra le più grandi economie di allora, gli Stati Uniti e la Germania. Gli Stati
Uniti hanno rappresentato il paese più profondamente toccato dalla recessione e soprattutto il crollo
della Borsa di New York è stato l’evento simbolo della crisi del 1929. Per quanto riguarda il
continente europeo la Germania ha subito i maggiori effetti della crisi e i destini di questo paese
hanno successivamente coinvolto tutta l’Europa: si pensi all’ascesa del nazionalsocialismo, favorita da
un clima politico e soprattutto economico decisamente instabile. Si è scelto di analizzare questi due
paesi anche perché le loro economie erano strettamente legate negli anni Venti mediante l’investimento
di capitali statunitensi in Germania e negli anni Trenta hanno seguito un arco temporale parallelo per
quanto riguarda il cambiamento nel livello di intervento. E’quindi possibile fare un confronto che si
esporrà più avanti, in modo tale da mettere in rilievo ciò che afferma la parte iniziale del titolo
dell’elaborato, ovvero come le politiche economiche di stampo liberale e interventista hanno saputo far
fronte alla recessione economica. Si può affermare che nel 1933, in tutti e due i paesi si verificò un
cambiamento di regime politico a cui seguì un processo di ripresa. In Germania i governi della
repubblica di Weimar (Brüning, Von Papen e Schleicher) furono sostituiti dal regime
nazionalsocialista, mentre negli Stati Uniti fu eletto alla presidenza Roosevelt che succedette a Hoover:
in entrambi i casi si accentuò l’intervento dello Stato nell’economia. Fino al 1936 in Germania si
applicò il primo piano quadriennale, mentre negli Stati Uniti si approvarono una serie di misure
denominate complessivamente New Deal. Il 1936 fu un anno chiave per tutte due i paesi poiché si può
affermare che la ripresa economica diventò una realtà; quasi tutti i principali dati macroeconomici
(reddito, produzione, occupazione) ritornano ai livelli precedenti la crisi, anche se negli Stati Uniti
permaneva il problema della disoccupazione. Dopo il 1936 l’intervento dello Stato nell’ economia
tedesca fu sempre più sproporzionato verso le spese belliche, mentre negli Stati Uniti il New Deal perse
lo slancio iniziale. Gli anni successivi furono sempre più caratterizzati dai preparativi per la guerra. Si è
ii
preferito perciò concludere la trattazione nell’anno 1936 quando la crisi economica sembrava ormai
superata e i maggiori provvedimenti governativi in un’economia di pace erano stati attuati.
Scendendo più in dettaglio nei contenuti dell’elaborato, il capitolo I analizza gli anni Venti ed è
suddiviso in tre paragrafi. Il primo descrive la complessa questione dei debiti ereditati dalla Prima
guerra mondiale che contribuirono a creare molta instabilità e incertezza fino ai primi anni Trenta. Fra
tutti i paesi spiccava in modo particolare la posizione contrapposta degli Stati Uniti e la Germania.
Infatti gli Americani uscirono vincitori della Prima guerra mondiale e diventarono il maggior paese
creditore al mondo, sia verso le nazioni sconfitte che quelle alleate. La loro intransigenza nel voler il
rimborso di tutti i debiti rimase il principale ostacolo alla risoluzione del problema fino allo scoppio
della crisi. Al contrario la Germania fu sconfitta e su di lei vennero imposti tutti gli oneri del conflitto,
attraverso il pagamento di pesanti riparazioni alle potenze vincitrici, soprattutto Stati Uniti, Inghilterra
e Francia. Tuttavia, siccome l’economia tedesca era al collasso nei primi anni Venti, non poteva far
fronte ai pagamenti e perciò nel 1924, attraverso il piano Dawes, gli Stati Uniti in modo particolare
cominciarono a fare prestiti alla Germania nel tentativo di risollevare l’economia e rispettare gli
impegni con i paesi creditori. A questo punto si creò un perverso meccanismo secondo il quale ogni
nazione era legata l’una all’altra secondo debiti e crediti reciproci che sarebbero potuti essere regolati
insieme, semplificando la situazione. Per esempio gli Stati Uniti prestavano denaro alla Germania che a
sua volta pagava le riparazioni alla Francia e quest’ultima confidava nelle riparazioni tedesche per
saldare i debiti interalleati con gli Stati Uniti.
La presenza significativa dei prestiti nell’economia tedesca ha fatto nascere il dibattito su come il venir
meno di tali prestiti abbia influito sulle recessioni tedesche degli anni Venti e in particolare su quella
che anticipa la crisi del 1929. Le ipotesi che si scontrano sono quella di una crisi esogena dovuta al
ritiro dei capitali stranieri (Landes e Falkus) e quella di una crisi endogena all’economia tedesca che
anticipa il ritiro dei prestiti esteri (Temin, Balderston). Per Temin la diminuzione del tasso di crescita
della domanda domestica e il correlato cambiamento negli ordini e nelle aspettative sembra essere la
probabile causa della riduzione degli investimenti. Balderston si differenzia però da Temin poiché
focalizza maggiormente la sua attenzione sull’instabilità dei mercato dei capitali tedesco piuttosto che
sugli investimenti. Lo shock esogeno, dovuto al ritiro dei capitali, portò al collasso un sistema già
instabile. All’ipotesi di Temin risponde Falkus che invece sostiene l’impostazione tradizionale come
esposta da Landes e avanza delle riserve sulle argomentazione di Temin, sostenendo che, nel quadro di
un’economia tedesca già debole (in cui l’industria era a corto di capitali, il mercato finanziario era
iii
disorganizzato e i risparmi ridotti dall’inflazione) l’afflusso di capitali stranieri migliorò la situazione e
il ritiro successivo aggravò le cose.
Il paragrafo 2 del capitolo ripercorre tutto il processo di ricostruzione del sistema monetario basato
sull’oro secondo il modello presente nel periodo prebellico. Ma il contesto era cambiato e il gold
standard restaurato presentava grossi limiti. Come afferma Aldcroft tutti i paesi erano poco disposti a
sacrificare la stabilità interna e perciò quelli in deficit non deflazionavano abbastanza, mentre quelli in
avanzo adottarono politiche di sterilizzazione.
Secondo Eichengreen mancava una cooperazione che avrebbe potuto far condividere l’onere
dell’aggiustamento. Le banche centrali dei paesi in avanzo avrebbero dovuto ridurre i tassi di interesse
al loro interno e concedere credito in modo tale che i paesi in deficit non avrebbero dovuto adottare
politiche deflazionistiche per rimanere nel sistema ed evitare di perdere oro a vantaggio degli altri.
Temin sottolinea che la restaurazione del gol standard contribuì a far cadere il mondo nella depressione
perché portò a adottare politiche restrittive, quando invece erano necessarie politiche espansive in un
contesto economico cambiato dalla Prima guerra mondiale. Kindleberger, invece, vede come principale
limite del gold standard la mancanza di un paese guida che sapesse coordinare il sistema a livello
internazionale come l’Inghilterra nel periodo prebellico.
Nell’affrontare l’aspetto monetario assume rilievo il dibattito sulla politica monetaria della Fed negli
anni Venti che poi si è esteso anche agli anni Trenta. Vari autori hanno cercato di analizzare come la
politica della Fed abbia influito sulla crisi successiva e in modo particolare sulla bolla speculativa del
mercato azionario. Secondo Galbraith per fermare la bolla speculativa era più importante un’energica
denuncia di autorità come la Fed, in modo tale avvertire la Borsa che era troppo alta. Gli speculatori
sarebbero stati indotti a vendere e la bolla si sarebbe sgonfiata prima che vi fossero eccessi. Per
Friedman e Schwartz la maggiore contraddittorietà si manifestò fra il rispetto dell’obiettivo
internazionale di ristabilire il gold standard e la necessità di favorire la stabilità interna. Rothbard, di
ispirazione libertaria, attribuisce alla Fed la responsabilità di aver alimentato il boom e il successivo
scoppio della bolla speculativa di Wall Street, al cui termine si scatenò la depressione. Wicker,
sottolinea i motivi esterni (l’aderenza al gold standard) che guidarono la politica monetaria della Fed
negli anni Venti. Field afferma che l’aumento del costo del denaro può essere responsabile dell’inizio
della depressione, influendo sull’economia reale. Hamilton analizza da un punto di vista monetario la
politica contrattiva, ma è cauto a considerarla come la sola causa della depressione dell’economia reale.
Eichengreen non attribuisce molta rilevanza al fatto che la politica monetaria abbia avuto un ruolo
significativo nell’euforia degli anni Venti. Secondo l’autore la politica della Fed tra il 1928-29 fu
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troppo modesta per spiegare il calo del Pil Americano nell’anno successivo. Altri fattori hanno
contribuito al rallentamento economico, come squilibri strutturali dell’industria americana e un calo
autonomo della spesa per i consumi.
L’ultimo paragrafo del capitolo descrive gli anni Venti dal punto di vista dell’economia reale,
soffermandosi soprattutto sugli Stati Uniti e sulla Germania.
L’economia statunitense negli anni Venti basò la sua prosperità sull’interconnessione fra i settori dei
trasporti, dell’elettricità e dell’edilizia residenziale, che fornirono un grande stimolo agli investimenti e
alle aspettative imprenditoriali.
Tuttavia non mancarono delle ombre, come il fenomeno della disoccupazione tecnologica che fu in
parte assorbita dai servizi. Il settore agricolo vide peggiorare la propria posizione rispetto al periodo
prebellico. Un ulteriore aspetto negativo della crescita fu il fatto che il maggior reddito si distribuì in
misura disuguale. Inoltre gli anni Venti furono l’epoca dei forti eccessi. Dapprima si verificò un boom
immobiliare rapido nell’ascesa quanto nel declino che caratterizzò la Florida dal 1925 al 1926 e sembrò
anticipare quello azionario della Borsa di New York. Quest’ultimo assunse carattere speculativo
all’inizio del 1928 quando rialzi repentini si succedevano di mese in mese. Per quanto riguarda
l’economia tedesca, essa dapprima fu caratterizzata dall’iperinflazione; poi si riuscì a realizzare le
misure necessarie per stabilizzare l’economia e la ripresa successiva.
Infine al termine del paragrafo si affronta il tema dell’importante settore delle materie prime, per il
quale il confronto principale problema degli storici economici è stato quello fra i sostenitori di una
diminuzione dei prezzi dovuta a una sovrapproduzione oppure all’innovazione tecnologica.
Il secondo capitolo dell’elaborato è molto denso e in esso sono affrontati rilevanti dibattiti degli storici
economici ed economisti sulle vicende della crisi e in particolare sulle politiche economiche adottate
per contrastarla fino all’inverno 1933. Nel primo paragrafo si descrive l’episodio simbolo della crisi,
cioè la fine della bolla speculativa di Wall Street che si manifestò in tutto l’autunno del 1929. Di
particolare interesse è il dibattito che è scaturito a proposito dei collegamenti fra il crollo del mercato
azionario e l’inizio della crisi. Si è discusso se la bolla speculativa fosse stata generata da aspettative
irrazionali (Galbraith, White), oppure fosse giustificata dall’andamento degli utili societari in
un’economia in crescita (Sirkin). Inoltre è affrontato il tema di come il crollo di Wall Street abbia
influito sulla quantità di moneta, sui consumi e sugli investimenti in modo tale da determinare la crisi
economica. Galbraith sottolinea l’impatto del crollo su un’economia fragile, Friedman e Schwartz
mettono in rilievo l’importanza delle forze monetarie, Kindleberger l’aspetto deflazionistico, mentre
Temin, Romer e Mishkin pongono l’accento sui consumi anche se secondo diverse sfaccettature.
v
Si affronta poi il propagarsi della crisi economica al resto del mondo e in particolare in Europa,
analizzando i fallimenti bancari del 1931 e l’uscita della Gran Bretagna dal gold standard, episodio che
decretò la fine del sistema monetario internazionale esteso a tutto il mondo.
Nel paragrafo 2 si analizza la crisi dell’economia tedesca e le politiche intraprese dalla Banca centrale e
dal governo per farvi fronte. Si parla perciò dei fallimenti bancari, del riordino del sistema creditizio e
delle politiche valutarie che fecero rimanere la Germania solo nominalmente all’interno del gold
standard perché di fatto l’eliminazione della libera circolazione dell’oro ne determinò l’abbandono.
Quello che assume più rilevanza sono però le politiche deflazionistiche del governo Brüning (aumento
delle tasse, riduzione della spesa pubblica e dei prezzi) perché hanno innescato un dibattito soprattutto
a partire dal 1979, quando Borchard ha avanzato la tesi che il governo Brüning non avesse alternative a
tali politiche. In particolare non era possibile la svalutazione a causa degli accordi internazionali e delle
conseguenze finanziarie se si fossero adottate politiche espansive (svalutazione e aumento del deficit).
Diversi autori sono intervenuti successivamente per sostenere o controbattere tale tesi ( Overy, Temin,
Balderston, James).
Il paragrafo 3 affronta invece le politiche monetarie ed economiche per quanto riguarda gli Stati Uniti.
Anche in questo paese furono particolarmente gravi i fallimenti bancari che si manifestarono in diverse
fasi dal 1930 al 1933. Dibattuto è stata l’origine di questi fallimenti e sono state fornite varie
spiegazioni come i cattivi investimenti degli anni Venti (Wicker) l’indebolimento degli attivi delle
banche (Friedman e Schwartz), la caduta del reddito degli agricoltori (Temin), l’instabilità del sistema
creditizio (White). Questi autori si focalizzano solo su singoli elementi, mentre altri considerano
l’insieme di diverse cause ( D.E. Hamilton).
Di particolare importanza risulta poi il dibattito degli economisti e storici dell’economia
sull’atteggiamento della Fed durante la crisi. Quasi tutti gli autori esaminati sono concordi che la Banca
centrale fu incapace di reagire alla crisi mediante politiche monetarie più espansive, ma diverse sono le
motivazioni fornite: cambiamento della guida della Banca (Friedman e Schwartz), fattori esterni
(Wicker), lettura sbagliata del mercato del credito (Brunner e Meltzer, Weelock), conflitti di interessi
fra le banche membri del Federal Reserve System (Epstein e T. Ferguson), aderenza a dottrine
economiche sbagliate (Hall e J. D. Ferguson). Solo il libertario Rothbard critica le già limitate politiche
espansive poiché non garantivano il risanamento del sistema creditizio.
Il paragrafo 4 pone invece l’attenzione sulle misure approvate dall’amministrazione Hoover per
risolvere soprattutto il problema della disoccupazione e della crisi nel settore agricolo e industriale. Al
termine è presente il commento di alcuni autori su tali politiche; il giudizio è diverso a seconda che il
vi
loro pensiero sia liberista o più favorevole a un intervento dello Stato nell’economia. Innanzitutto è
presentata l’opinione di Rothbard, esponente della scuola austriaca (ultraliberista), che fa una critica
accesa contro l’amministrazione Hoover, accusandola di aver ritardato la ripresa attraverso i
provvedimenti sul mercato del lavoro e nel settore industriale. Altri autori (Rosen, Hall e Ferguson,
Temin) invece criticano Hoover per le politiche economiche poco espansive. Soprattutto l’attenzione è
posta sulla politica fiscale che era rivolta al pareggio del bilancio, la politica protezionista e l’insistenza
nel mantenere il gold standard. Barber sostiene una tesi di compromesso affermando che Hoover
comprese che bisognava stimolare l’economia, ma non riuscì a formulare progetti incisivi. Questo
atteggiamento fu dovuto da una parte a causa del clima politico e intellettuale del tempo e dall’altra per
la volontà del Presidente di salvaguardare il costituzionalismo statunitense che imponeva di limitare
l’intervento federale nel settore privato.
L’ultimo capitolo riguarda il periodo fra il 1933 e il 1936, anni di profondi cambiamenti sia in
Germania che negli Stati Uniti, descritti rispettivamente nel primo e secondo paragrafo. In Germania
l’ascesa al potere del nazionalsocialismo nel gennaio 1933 contribuì ad accelerare il passaggio dalle
politiche deflazionistiche a quelle più espansive già tentate negli ultimi mesi del 1932 dal governo Von
Papen e Schleicher. Non si è voluto descrivere il sistema economico nazionalsocialista nel suo
complesso, ma si è cercato di evidenziare quelle politiche che furono messe in atto per favorire la
ripresa. All’inizio è presentato il commento di vari autori su tali politiche e in generale il giudizio è che
ci fu una veloce ripresa, soprattutto in termini di riduzione della disoccupazione, ma essa non poteva
essere sostenuta nella seconda metà degli anni Trenta senza la militarizzazione dell’economia tedesca.
Si sono approfondite le misure di aumento della spesa pubblica, a favore dell’occupazione e la loro
modalità di finanziamento. Nel sottoparagrafo 1.3 è presente il dibattito fra chi sostiene che la scintilla
per la ripresa fu data dal settore automobilistico (Overy) e chi ritiene invece che l’impulso iniziale fu
dato dal settore immobiliare (Spenceley e Maier). Infine l’ultimo sottoparagrafo del capitolo si riferisce
a quei provvedimenti messi in atto dal governo nazionalsocialista per stabilizzare l’economia tedesca
con riguardo ai prezzi e alla valuta. Infatti, le politiche espansive potevano innescare una spirale
inflazionistica simile a quella degli anni Venti e ciò bisognava evitarlo. Perciò il governo controllò i
prezzi nei settori chiave dell’economia come quello agricolo e industriale, anche se gli interventi
furono ridotti rispetto a quanto avvenne negli anni successivi al 1936. Inoltre si introdusse un
complesso meccanismo per regolare il commercio estero in modo tale favorire le esportazioni e
scoraggiare le importazioni.
vii
Il secondo paragrafo del capitolo descrive le principali politiche economiche introdotte dal New Deal,
cercando di mantenere un parallelismo con l’amministrazione Hoover. Si è descritto perciò la politica
agricola, quella nel settore industriale, la politica fiscale e atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti
dell’economia internazionale che ha portato alla svalutazione del dollaro e a un inizio di apertura dei
mercati. A questa parte descrittiva seguono gli ultimi sottoparagrafi che riguardano il dibattito su alcuni
provvedimenti che sono stati ritenuti importanti nel favorire la ripresa. In particolare a partire dagli anni
Ottanta si è discusso molto sul National Industrial Recovery Act (NIRA). La maggior parte degli autori
è concorde nell’affermare che tale provvedimento ostacolò la ripresa e contribuì a mantenere alta la
disoccupazione in vari modi: provocando inflazione e riducendo l’offerta reale di moneta o attenuando
gli effetti positivi della svalutazione (Weinstein e Eichengreen), creando una massa di lavoratori non
qualificati e esclusi dal mercato del lavoro (Jensen, Hall e J.D. Ferguson), ostacolando l’aggiustamento
automatico del mercato del lavoro (Smiley, Gallaway e Vedder). Temin invece afferma che il NIRA
aiutò a combattere la deflazione, mentre Bernanke e Parker evidenziano che i più alti salari imposti dai
codici NIRA poterono favorire l’aumento produttività registrato statisticamente.
Grande attenzione è stata posta negli anni Novanta sulla svalutazione del dollaro nel 1933 come fattore
che innescò la ripresa. La tesi di Wigmore e Temin è quella che la svalutazione creò nuove aspettative
che cambiarono il regime macroeconomico deflazionistico, favorendo i consumi. Romer, Eichengreen,
Hall e J. D. Ferguson mettono invece in rilievo gli effetti monetari espansivi determinati in seguito alla
svalutazione. In ultimo si è cercato di capire gli effetti della politica fiscale del New Deal sulla ripresa
secondo economisti e storici dell’economia. Gli studi e i commenti di numerosi autori (Brown,
Peppers, Raynold, Mcmillin, Beard, Romer, Vernon, Hall, Ferguson) evidenziano che
complessivamente la spesa governativa non influì in modo significativo sulla ripresa perché fu sempre
controbilanciata da aumenti nella pressione fiscale. Solo con la Seconda guerra mondiale lo Stato creò
deficit sostanziosi per far fronte alle spese belliche, stimolando in tal modo anche l’economia.
Dopo aver passato in rassegna il contenuto dell’elaborato è opportuno tracciare delle conclusioni. Per
quanto riguarda la Germania la politica deflazionistica del governo Brüning certamente contribuì a
ostacolare la ripresa. Discusso è se ci fossero delle alternative o meno. Resta il fatto che l’aderenza
incondizionata al gold standard, la psicosi dell’inflazione e le pressioni internazionali, indussero il
governo ad adottare misure deflazionistiche che gravarono sul benessere della popolazione e non
contribuirono alla fiducia degli imprenditori. Rimarchevoli sono però i provvedimenti a favore del
sistema bancario che ne garantirono un ritorno alla stabilità.
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L’ortodossia classica fu sostituita dalla misure interventiste del governo nazionalsocialista. Il suo
maggiore risultato fu la rapida riduzione della disoccupazione, senza però ampi programmi di lavori
pubblici sistematici. Ciò avvenne soprattutto con la creazione di sottoccupati e l’estromissione dal
mercato del lavoro di donne e giovani. I salari furono mantenuti bassi e la produttività diminuì. I
controlli commerciali e valutari non favorirono la competizione delle imprese a livello internazionale.
In sostanza ci fu una ripresa, ma non avrebbe potuto avere lunga durata senza il massiccio intervento
della componente militare che si registrò soprattutto a partire dal 1936. C’è inoltre da rimarcare che i
nazionalsocialisti furono anche aiutati dalla risoluzione del problema delle riparazioni alla conferenza
di Losanna del 1932 e dalla congiuntura internazionale che stava migliorando.
Le riflessioni conclusive sugli Stati Uniti sono molto più approfondite perché essi furono il fulcro della
crisi e la letteratura anglosassone se ne è occupata maggiormente. Le tre correnti principali attraverso
cui si sono analizzate le politiche monetarie ed economiche si richiamano al pensiero libertario
(ultraliberista), al monetarismo e al keynesianesimo.
Dal dibattito si può concludere che la politica monetaria della Federal Reserve negli anni Trenta fu
molto passiva per varie ragioni e un suo intervento più incisivo avrebbe potuto limitare gli effetti della
crisi. Se oggi la Fed interviene per risolvere le crisi di liquidità delle banche (come è avvenuto nella
recente crisi dei mutui subprime), di fronte alla crisi degli anni Trenta la politica monetaria non assunse
la sua funzione macroeconomica. Solo il pensiero liberista sostenuto da Rothbard mette in risalto che
una politica monetaria attiva interferiva con l’aggiustamento automatico delle forze di mercato.
Per quanto riguarda le politiche economiche del governo, si può affermare che né le politiche
economiche dell’amministrazione Hoover, né quelle del New Deal furono di stampo keynesiano, ma si
adottò piuttosto un mix di politiche che non avevano una consapevolezza macroeconomica della loro
funzione. Piuttosto alcuni provvedimenti potevano favorire la ripresa, altri la ostacolavano, con effetti
complessivi ambigui. Ciò che differenzia maggiormente Roosevelt rispetto a Hoover è che il primo
diede maggior ruolo all’intervento del governo federale con sussidi invece dei prestiti, mentre nel
campo internazionale si slegò dal gold standard e iniziò una politica meno protezionista.
Hoover non intraprese né misure strettamente aderenti al laissez faire, né interventi diretti a limitare in
modo significativo l’iniziativa privata. Il risultato fu che non ci fu una ripresa e vari autori, sia liberisti
che keynesiani hanno criticato il suo operato. Certamente l’approvazione delle misure protezionistiche
contribuì ad allargare la depressione al resto del mondo. Gli aiuti a sostegno dell’agricoltura sono
discutibili perché da una parte miravano ad aumentare i prezzi ritirando il raccolto e dall’altra davano
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incentivi agli agricoltori a coltivare. I provvedimenti nel settore creditizio e industriale erano di aiuto,
ma avevano dei vincoli, i lavori pubblici furono modesti.
Anche durante il New Deal fu approvata un’ampia serie di provvedimenti i cui effetti non sono ben
identificabili. La letteratura esaminata è concorde nell’affermare che la politica fiscale ebbe un ruolo
marginale sulla ripresa negli anni considerati. Infatti, la spesa statale non fu sistematica e si cercò
sempre di evitare deficit eccessivi; perciò si aumentò anche la pressione fiscale. Il National Industrial
Recovery Act (uno fra i maggiori atti del New Deal) in accordo con molti autori ha contribuito a
ostacolare la ripresa creando inflazione, riducendo la competizione fra le imprese e la flessibilità nel
mercato del lavoro, ma può anche aver favorito la produttività dei lavoratori mediante il miglioramento
delle condizioni lavorative e l’aumento salariale. Il provvedimento maggiore che può aver contribuito a
dare l’impulso della svolta ciclica può essere stata la svalutazione del dollaro del 1933 grazie al quale si
sono fermate le forze della contrazione e della deflazione.
In definitiva, dall’analisi condotta sulla storiografia non si può asserire con certezza se i policy makers
degli anni Trenta abbiano contribuito a risolvere o ostacolare la ripresa, ma certamente gli effetti delle
politiche economiche e monetarie devono essere considerate come una variabile importante
nell’andamento della Grande depressione.
Comunque, secondo il parere di chi scrive, l’analisi delle politiche economiche e monetarie degli anni
Trenta può suggerire che una recessione non può essere superata né con le sole forze del mercato, né
con l’eccessivo intervento dello Stato. Infatti, da solo il mercato non poté rispondere nel breve periodo
alle esigenze degli individui che non riuscivano a sopravvivere senza un lavoro e una casa; era evidente
che in quel contesto solo lo Stato (che rappresenta la comunità collettiva) poteva far fronte ai bisogni di
così grandi masse, come dimostra il caso Americano. Discutibile però sono state le modalità con cui
tale intervento si realizzò. Negli Stati Uniti i provvedimenti del governo alleviarono i problemi di
alcuni individui e delle imprese nel breve periodo, ma la continua interferenza nel mercato può aver
avuto degli effetti negativi sul medio periodo, come dimostrano le numerose argomentazioni di molti
studiosi. Sul mercato del lavoro si introdussero tutele che spesso andarono solo a vantaggio dei
lavoratori già occupati, nel settore agricolo si favorirono i grandi proprietari a scapito dei piccoli
agricoltori, nel settore industriale si ridusse la concorrenza fra le imprese. Il caso tedesco dimostra che
l’incapacità dei governi della Repubblica di Weimar di far fronte ai bisogni della popolazione e delle
imprese durante la crisi scatenò disordini sociali ed economici, mentre l’intervento eccessivo dello
Stato nell’economia portò a una situazione in cui la ripresa e l’occupazione furono realizzate al caro
prezzo della libertà economica e politica, fino alla quasi negazione dello stesso sistema capitalistico.
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Senza la guerra, in accordo con le interpretazioni fornite, la ripresa sarebbe stata di breve durata.
Quindi l’insegnamento che si può dedurre è quello che le istituzioni durante una crisi devono agire nel
mercato in modo tale si realizzi un equilibrio in grado di porre rimedio ai fallimenti di entrambi. E’
necessario correggere gli squilibri del mercato e non eliminarlo. Un esempio di ciò può essere stato la
legislazione introdotta dal New Deal per regolare il mercato azionario (come la Securities Exchange
Commission) senza aver la pretesa di porre il controllo su di esso. Anche il riconoscimento delle
organizzazioni sindacali permise la contrattazione paritaria con i datori di lavori. In tal modo si lasciano
agire le forze del mercato nel rispetto delle regole, favorendo un’equa competizione fra gli agenti
economici.
Bisogna soprattutto evitare quelle ideologie economiche che dal punto di vista teorico possono essere
logiche, ma se implementate nella realtà possono avere effetti nefasti. La storia insegna che proprio
l’aderenza all’ortodossia classica e successivamente la pianificazione forzata fecero leggere l’economia
reale da un solo punto di vista, facendo adottare politiche economiche aderenti alla teoria ma poco
adatte a combattere la crisi in modo duraturo.
Al contrario, la contrapposizione fra varie scuole di pensiero, come si è cercato di fare in questo
elaborato, può permettere di leggere i fatti economici da più punti di vista, aiutando a comprendere
meglio i problemi.
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