4
INTRODUZIONE
Lo studio dei processi di democratizzazione ha sempre considerato il mondo arabo e,
più in generale, il Medio Oriente come un‟area difficilmente permeabile alle spinte
democratiche e a sistemi di governi che tutelino maggiormente i diritti umani o che
garantiscano meccanismi di consultazione e di partecipazione effettivi. La presenza di
governi autoritari, l‟influenza della religione islamica sulla società civile e il parere che
essa sia incompatibile con la democrazia
1
, la mancanza stessa di una forte società civile,
sono tutti elementi elencati di volta in volta come cause di questo “eccezionalismo”
arabo. Karatnycky (2002, pp. 105-107) individua alcuni fattori che contribuirebbero ad
alimentare il gap tra il mondo arabo e il resto dei paesi che si sono avviati sulla strada
della democrazia. Innanzitutto il basso livello di sviluppo economico e spesso di
istruzione che accompagna questi paesi. In secondo luogo la difficoltà di operare una
distinzione effettiva tra principi islamici e politici. In terzo luogo la condizione
femminile (anch‟essa legata il più delle volte alle regole islamiche). In quarto luogo la
mancanza di reinvestimento, economico e sociale, delle rendite petrolifere. Infine,
elementi storico-sociali cui molti di questi paesi sono legati (dalla forma di governo ai
mezzi di mobilitazione popolare).
Tuttavia, non è affatto detto che prima o poi non si arrivi a quella che potrebbe essere
definita una quarta “ondata di democratizzazione” volendo usare la terminologia
1
Questo presupposto sembrerebbe essere stato confutato da Stepan e Robertson (2003). Mettendo a
confronto i 16 stati a maggioranza musulmana che sono prevalentemente arabi con altre 29 nazioni a
maggioranza islamica ve ne sono alcune tra queste (Albania, Bangladesh, Malesia, Senegal e Turchia)
con un grado significativo di diritti politici democratici ragionevolmente estendibili a tutti i cittadini.
Analoghe differenze tra paesi arabi e paesi a maggioranza musulmana vengono rilevate dai rapporti di
Freedom House.
5
adottata da Samuel Huntington (1995) per spiegare le democratizzazioni che si sono
verificate a più intervalli nel corso del secolo scorso. Gli avvenimenti recenti che stanno
interessando diversi paesi arabi tra la fine del 2010 e l‟inizio del 2011 stanno mettendo
in luce l‟importanza che può svolgere la società civile – non solo islamica ma
soprattutto laica - e quanto la sua presa di coscienza possa essere cresciuta negli ultimi
decenni.
Allo stesso tempo bisogna constatare come sia possibile individuare all‟interno del
mondo arabo almeno un esempio di paese che ha raggiunto nel corso della sua storia
(dall‟indipendenza ad oggi) un percorso di regole e pratiche democratiche, sebbene
imperfette, o che in ogni caso non è precipitato in un regime autoritario.
Il Libano contemporaneo ha conosciuto e conosce tuttora - almeno formalmente – un
modello di democrazia consociativa o democrazia confessionale. Tale impianto socio-
politico si è reso necessario fin dagli anni del mandato francese, dal momento che la
demografia libanese è composta da una pluralità di comunità e confessioni religiose che
nel 1926 (quando venne scritta la Costituzione) e nel 1943 (anno dell‟indipendenza e
del Patto Nazionale) resero imprescindibile un accordo di condivisione del potere
(power-sharing) tra le sue diverse componenti che fosse improntato appunto sul sistema
confessionale. Tale schema è sopravvissuto anche a seguito della guerra civile (1975-
1990) e viene mantenuto in vita attualmente, nonostante alcuni segnali, tendenze e
necessità esigerebbero un suo superamento.
Il caso libanese è rilevante non solo per la sua esperienza relativamente democratica che
ha influenzato il suo percorso tra il XX e il XXI secolo, ma anche perché questa
esperienza non si è conclusa del tutto con la grave crisi scaturita dalla drammatica
guerra civile. Le conseguenze sul sistema politico ci sono state certamente ed esso ha
modificato, come vedremo, alcuni suoi caratteri tanto da averlo allontanato in parte dal
modello della democrazia consociativa. Non vi è stata però una significativa
involuzione autoritaria, né una disgregazione dello Stato tale da comportare secessioni,
rivendicazioni autonomistiche o assenza totale dell‟azione delle istituzioni governative.
Nonostante ciò il problema riguardante la statualità sicuramente è presente in Libano in
una certa misura ed è ancora oggi irrisolto in molti suoi aspetti. Anche questo tema, che
verrà trattato nel corso del testo, si lega a quello della democratizzazione, dato che un
6
regime democratico ha tra le sue precondizioni un certo grado di legittimazione che ne
permette il consolidamento. Stiamo parlando infatti dell‟accettazione da parte delle élite
e della società civile di quei principi e valori propri di una democrazia, ma anche di un
adeguato grado di stabilità e inclusività da parte delle istituzioni del paese in questione.
Si tratta di un processo ben più complesso nel caso di paesi non etnicamente e
culturalmente omogenei o ad alto tasso di frammentazione confessionale com‟è il
Libano. In questi casi infatti non è solo la democrazia come modello politico a dover
essere accettato da tutti i cittadini, ma è in gioco la stessa identità nazionale.
La violenza inter-comunitaria e la disgregazione nazionale sono tra i problemi più
attuali fra quelli analizzati da diversi studiosi e osservatori internazionali. I cleavages
che hanno permesso un incremento dei conflitti e delle tensioni su base etnica e
regionale sono stati sempre più al centro dell‟attenzione dalla seconda metà del
Novecento. Oltre al caso del Libano, basti pensare agli innumerevoli esempi africani
(dal Sudafrica al Ruanda), asiatici (India e Sri Lanka), ma anche europei (dall‟Irlanda
del Nord alla ex Jugoslavia, dalle repubbliche ex sovietiche al caso del Belgio). La sfida
di costruire regimi democratici in società fortemente divise diventa ancora più
complicata nelle regioni in cui i gruppi aventi un‟identità condivisa trascendono i
confini di uno Stato. Il carattere transnazionale di molti gruppi ha il potenziale di
trasformare le questioni di politica interna in crisi regionali che coinvolgono diversi
paesi. Quando i conflitti intercomunitari diventano regionali, la minaccia della guerra
che vede coinvolti più Stati si va ad aggiungere a quella già esistente di una guerra
civile.
Nel caso del Libano, la presenza palestinese sul suo territorio fu una delle cause che
contribuirono ad inasprire le tensioni comunitarie interne portando poi ai molteplici
interventi israeliani e allargando dunque lo scenario del conflitto civile.
Sempre nel contesto della statualità, oltre alle variabili interne, non dobbiamo
dimenticare le influenze di attori esterni che hanno sempre condizionato il Libano e che
hanno posto serie problematiche relative alla sua sovranità territoriale.
Proprio per queste ulteriori sfide poste dalla società plurale che lo caratterizza, il Libano
si pone come un caso di studio di estremo interesse per l‟analisi dei processi di
democratizzazione e della fragilità statale. In questa sede va sottolineato in ogni caso
come il paradigma della transizione democratica possa subire delle variazioni proprio
7
per le particolarità che porta con sé il caso libanese e, in senso più ampio, la regione di
riferimento, ovvero quella mediorientale.
Infatti, nell‟applicare il modello della transizione democratica si è tenuto conto non solo
del ruolo che ricopre la società civile e dell‟influenza determinata dai fattori regionali e
internazionali, ma anche di alcune variabili sociali, storiche e culturali che
contribuiscono a spiegare meglio la situazione del Libano.
Il testo si divide in quattro capitoli, più un ultimo conclusivo.
Il primo si concentra sull‟approccio teorico al problema della democratizzazione nelle
società plurali, con accenni al tema della fragilità statale che verrà ripreso nel corso
della trattazione. Nel contesto delle società plurali verrà affrontato il modello
consociativo illustrato in particolar modo da Arend Lijphart e le sue successive
evoluzioni e critiche poste da altri autori.
Il secondo capitolo si incentra sulla descrizione del sistema libanese della Prima
Repubblica (dall‟indipendenza agli anni Sessanta del secolo scorso) nei suoi aspetti
politico, economico e sociale. Dunque non verrà analizzato solo l‟impianto politico-
istituzionale costruito attraverso l‟accordo comunitario (Patto Nazionale del 1943) e le
dinamiche elettorali che hanno caratterizzato l‟esperienza democratica del Libano prima
della guerra civile, ma anche le sue variabili culturali, in primis il confessionalismo, la
sua struttura sociale legata alle comunità e ai leader locali, gli aspetti clientelari che
hanno sempre permeato la vita del paese e la situazione economica che ha influito sulle
condizioni di vita dei cittadini e più in generale del paese stesso. A conclusione del
capitolo verrà esposta una considerazione sull‟applicabilità del modello consociativo al
caso libanese in base a quanto detto fino a quel momento e le eventuali deviazioni
dall‟approccio lijphartiano.
Il terzo capitolo affronterà invece la crisi del sistema politico libanese. Si tratta di una
parte fondamentale per capire quali siano state le cause interne ed esterne che hanno
portato al punto di rottura la fragile democrazia libanese e che hanno condotto il paese
in una guerra civile durata quindici anni. Nello studio dei motivi che hanno portato al
conflitto aperto tra le comunità e all‟intervento di diversi attori regionali (Siria e Israele)
non sono stati trascurati i fattori socio-economici e le dinamiche legate all‟emergere di
gruppi che hanno modificato per sempre il quadro demografico libanese.
Il quarto capitolo ha invece una duplice funzione. Una prima parte è dedicata alla
situazione politica del Libano successiva alla guerra civile, con l‟analisi del sistema
8
scaturito dagli accordi comunitari di Ta‟if, le elezioni che hanno interessato il paese
negli ultimi vent‟anni e gli eventi che hanno visto la ricostruzione e una relativa stabilità
alternarsi a periodi di tensione e in certi casi anche di conflitto vero e proprio. La
seconda parte del capitolo è invece incentrata sull‟analisi oggettiva della democrazia
libanese e si cercherà di rispondere alla domanda se il Libano possa essere considerato
una democrazia o un diverso tipo di regime. Per farlo vengono considerate le
indicizzazioni fornite sulla democrazia da parte di diversi organismi o centri di ricerca
internazionali. Analogo esame è stato compiuto riguardo al tema della fragilità statale
anche essa oggetto di misurazione da parte di alcuni istituti di ricerca.
Lo scopo di questo lavoro è dunque quello di esaminare il percorso democratico che ha
interessato il Libano in tutti questi anni, in particolar modo analizzandolo sotto la lente
di ingrandimento del modello consociativo cercando di spiegarne le caratteristiche e le
imperfezioni. Proprio queste ultime verranno alla luce per fornire delle risposte ai
motivi che hanno condotto alla crisi di questo modello e ad illustrare come esso sia
cambiato. Si proverà quindi a definire attraverso una serie di dati empirici lo status del
regime politico che caratterizza la Repubblica libanese allo stato attuale e quali possano
essere le sue evoluzioni future.
9
CAPITOLO I
CONFESSIONALISMO E
DEMOCRAZIA
1.1 Crisi della democrazia e fragilità statale
Il fallimento di un processo di democratizzazione può essere attribuibile a diversi
fattori, ma non conduce necessariamente ad un cambio di rotta verso regimi autoritari.
Molto spesso infatti, il risultato è più indefinito e ci si trova di fronte a paesi in cui le
norme democratiche, pur presenti, non si sono sviluppate pienamente e in cui debolezze
interne si vanno a sommare a condizionamenti esterni. Naturalmente anche questi paesi,
che potremmo considerare protagonisti di un percorso di evoluzione democratica che
presenta più regressioni che avanzamenti, hanno visto emergere entro i loro confini una
crisi a livello democratico.
Per crisi della democrazia si intende quell‟insieme di fenomeni attraverso i quali emerge
l‟alterazione nel funzionamento dei meccanismi tipici del regime democratico. Come
afferma Morlino (2003, pp. 84-85), bisogna distinguere tra crisi della democrazia e crisi
nella democrazia. In questo secondo caso il deficit democratico è meno evidente, e non
irreversibile, nel senso che può essere recuperabile, ma può anche sfociare nel crollo
della democrazia. In particolare, quando si parla di crisi nella democrazia, ci si può
10
riferire a due tipologie. Una prima, in cui si verifica “l‟arresto del funzionamento o
cattivo funzionamento, sulla base delle norme esistenti, di alcune strutture, meccanismi
o processi cruciali del regime (ad esempio, crisi governative), così come dei rapporti
legislativo/esecutivo o di altre strutture proprie di ciascun tipo di regime, burocrazia o
magistratura” (Morlino ivi, p. 85). Il secondo tipo di crisi nella democrazia implica
invece il “distacco o cattivo funzionamento dei rapporti tra società e partiti o tra gruppi,
partiti e strutture del regime democratico, che si manifestano in forma di domande
espresse dalla società civile che non si traducono o non possono tradursi, per motivi
diversi, in decisioni assunte dal regime” (Morlino, ibidem).
In entrambi i casi la crisi si manifesta attraverso una crescita della radicalizzazione,
della frammentazione tra i partiti e nella società, dell‟instabilità governativa e di una
crescita della partecipazione che aggravano numerosi problemi che possono essere già
presenti, come l‟immobilismo e l‟inefficacia decisionali oltre alla perdita di legittimità
percepita da alcuni attori nei confronti del regime democratico. Si tratta di un processo
che può facilmente degenerare in un contesto ancora più radicalizzato che può sfociare
in un‟aperta crisi della democrazia e in un suo crollo, a meno che non ci sia da parte
delle élite un impegno e un successo nel giungere ad un accordo che possa ricomporre
la crisi.
A seconda dei casi, la crisi di un regime democratico può esser stata provocata dal
mancato consolidamento della democrazia, oppure a causa di profonde trasformazioni
socio-economiche o di una crisi economica particolarmente rilevante. In alternativa, la
crisi democratica può essere provocata anche dalla persistente difficoltà a risolvere
problemi sostantivi ai quali particolari attori attribuiscono grande rilievo che possono
condurre verso una mobilitazione politica a livello di massa e in mutamenti negli
atteggiamenti e nelle preferenze politiche di coloro che sostengono il regime (Morlino
ivi, p. 86).
L‟emergere di una crisi democratica appare però molto probabile anche in paesi che
presentano caratteristiche di vulnerabilità per la loro struttura interna o per il contesto
geopolitico in cui si trovano. Da questo punto di vista si può parlare di un altro elemento
che sembra essere fondamentale per il mantenimento di una solida democrazia: la
sovranità statale. Un elemento che si lega al tema della legittimità, perché se lo Stato è
debole, se l‟autorità statale non riesce a garantire un pieno controllo sul territorio e se
11
questo territorio è abitato da identità diverse che ne aumentano la frammentazione,
anche il processo di democratizzazione subirà dei ritardi o delle brusche interruzioni
(Grilli di Cortona 2009, p. 73).
Così come è fondamentale l‟importanza di un‟unità territoriale o nazionale come
prerequisito alla formazione di un regime democratico (e in questo senso le democrazie
europee possono esserne un esempio), allo stesso modo, la sovranità statale è
importante per quei paesi che storicamente non presentano un profilo unitario e che
sono sorti a seguito della decolonizzazione. Si tratta di paesi i cui confini sono spesso
stati decisi da altri e che anche per questo motivo presentano al loro interno realtà
variegate e non sempre facilmente adattabili a determinati contesti. Queste realtà,
denominate Fragile States
2
(termine associato a quello di Failed State), negli anni sono
state sempre più analizzate da studiosi e politologi (Mata e Ziaja 2009), anche per gli
effetti che producono per la sicurezza del sistema internazionale.
Il concetto di “Stati fragili” o “Stati deboli” è stato spiegato da vari organismi
internazionali. Secondo la Banca Mondiale, gli Stati fragili “condividono una comune
fragilità nelle politiche di stato particolarmente debole e delle istituzioni e un rischio di
instabilità e di conflitto politico”. Per l‟Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo
Internazionale (USAID), la nozione di Stato fragile è riservata agli Stati che sono
vulnerabili e agli stati che sono in crisi. Gli Stati che sono vulnerabili sono definiti come
“incapaci di assicurare adeguatamente la tutela della sicurezza e servizi di base (...) e in
cui la legittimità del governo è in discussione”, mentre gli stati sono in crisi “dove il
governo centrale non esercita controllo effettivo sul proprio territorio”. Secondo il
Dipartimento del Regno Unito per lo Sviluppo Internazionale (UKDFID), gli Stati
fragili sono quelli in cui “il governo non può o non potrà fornire risorse fondamentali
per la maggior parte della sua gente, compresi i poveri” (Zweiri, Tekin, Johnson 2008,
p. 6). Anche l‟Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica (OECD) ha
fornito una sua definizione: “Gli Stati sono fragili quando le strutture statali mancano di
volontà politica e/o capacità per provvedere alla funzioni basilari necessarie alla
riduzione della povertà, allo sviluppo e alla tutela della sicurezza e dei diritti umani
delle propria popolazione” (OECD 2007, p. 2).
2
E‟ presente anche una misurazione dell‟indice di fragilità statale, lo State Fragility Index, elaborato dal
Center for Systemic Peace (www.systemicpeace.org).
12
Dunque questa tipologia di paesi si caratterizza generalmente per la loro vulnerabilità in
termini strutturali e per il loro essere soggetti a crisi dovute a influenze esterne,
divergenze politiche interne, mancato sviluppo delle sue strutture istituzionali e conflitti
civili. Come risultato, i governi di questi stati hanno un alto rischio di perdere il
controllo effettivo su parti del loro territorio e sui cittadini, creando situazioni che
possono essere facilmente sfruttate da movimenti anti-regime o determinate fazioni
politiche, per non parlare di reti criminali e terroristiche, che minacciano ulteriormente
la stabilità dello Stato (Zweiri, Tekin, Johnson 2008, p. 5).
Naturalmente non tutte queste caratteristiche si presentano necessariamente, inoltre la
fragilità non è un indicatore fisso, ma ha delle gradazioni che attribuiscono una
maggiore o una minore intensità del fenomeno stesso a seconda dei casi. Sono state
elaborate così delle dimensioni di fragilità, alcune più critiche, altre meno. Proprio per
questo, la fragilità non è una proprietà esclusiva dei paesi in via di sviluppo, ma può
anche essere trovata in varie forme e gradi anche nei paesi sviluppati.
Le dimensioni della fragilità devono considerare tre caratteristiche attribuibili ad uno
Stato (Mata e Ziaja 2009, pp. 5-6):
- effectiveness (come vengono svolte le funzioni dello Stato)
- authority (esercizio del monopolio legittimo dell‟uso della forza)
- legitimacy (grado di accettazione non coercitiva dello Stato)
I conflitti violenti possono essere una causa, un sintomo o una conseguenza della
fragilità. Il fallimento dello Stato può portare a disordini civili, violenza comune e
conflitti armati. Quando lo Stato non eroga i servizi di base, quando la sua autorità è
limitata o esercitata in modo arbitrario, o la sua legittimità sistematicamente messa in
discussione, il contratto sociale e la fiducia del pubblico sono indebolite a tal punto che
il malcontento pubblico si trasforma facilmente in contestazioni violente da parte di vari
settori della società. Nel tentativo di ristabilire l'ordine, lo Stato risponde spesso con la
violenza ad una violenza causata dai suoi stessi fallimenti (Mata e Ziaja 2009, p. 7).
Conflitti violenti e fragilità, dunque vanno di pari passo. L‟efficacia dello Stato, la sua
autorità e legittimità sono indeboliti dagli effetti dei conflitti violenti e in situazioni
estreme la fragilità si manifesterà o contribuirà ai conflitti stessi. Inoltre, la probabilità
di conflitti armati è più alta quando essi si sono già verificati in precedenza in uno
stesso territorio.
13
Di queste definizioni relative alla fragilità statale - che spesso coincidono con le analisi
che evidenziano i pericoli relativi alla sicurezza regionale o internazionale in
determinate aree considerate a rischio come il Medio Oriente - si può certamente tenere
conto per studiare la crisi della democratizzazione in particolari contesti
3
.
1.2 Democrazie in società plurali e frammentate
La situazione del Libano non è la più critica dal punto di vista della fragilità statale
4
, ma
il paese mediorientale può essere considerato come esempio di mancata conclusione del
processo di democratizzazione o di crisi democratica dovute soprattutto alla sua
particolare natura di Stato frammentato dal punto di vista interno, oltre che alle
influenze da esso subite da parte di altri paesi nel corso della sua storia.
Per alcuni decenni (quelli precedenti il conflitto civile che si è trascinato per quindici
anni), a più studiosi
5
il Paese dei cedri, pur presentando numerosi difetti, era apparso
come una democrazia relativamente stabile grazie al modello politico di stampo
consociativo da esso adottato, che per un certo periodo ne ha mitigato i conflitti interni
ma che alla prova dei fatti non ha retto le numerose contraddizioni e contingenze interne
ed esterne che non ne hanno permesso il completamento del processo di
democratizzazione.
Proprio per questo motivo, prima ancora di andare a vedere quali sono state le cause che
hanno provocato la crisi della democrazia libanese e quali sono state le conseguenze per
3
Il fenomeno della fragilità statale, insieme alla misurazione della sua intensità attraverso l‟uso di
determinati indici, verrà approfondita in riferimento al caso libanese nel capitolo IV.
4
Secondo il Global Report 2010 del Center for Systemic Peace, lo State Fragility Index del Libano è
relativamente basso avendo un punteggio di 7 (il valore massimo è 25). Il punteggio relativo all‟efficacia
risulta essere 3 (su un valore massimo di 13) mentre quello relativo alla legittimità è 4 (il massimo è 12).
Secondo il Failed State Index, redatto dal Fund for Peace (www.fundforpeace.org) sempre nel 2010, il
Libano si troverebbe invece in una situazione più critica, avendo un punteggio di 90.9 su 120.
5
Arend Lijphart (1969, p. 216) ponendo il Libano accanto ad esempi come Belgio, Paesi Bassi e
Svizzera, scriveva: “La stabilità del Libano è in parte dovuta alla sua economia produttiva e al suo
equilibrio sociale che si è mantenuto per lungo tempo, ma potrebbe non essere più capace di continuare
con successo la sua politica consociativa se dovessero crescere gli oneri per il sistema”. Michael Hudson
(1969, p. 247) nello stesso periodo, spiegando il caso libanese, sosteneva che “le procedure democratiche
possono essere uno strumento nello sviluppo di una vita politica adeguata e stabile in condizioni di
frammentarietà politica”.
14
il suo sistema politico, si rende necessaria un‟analisi del modello politico che ha
caratterizzato e caratterizza tutt‟ora il Libano.
L‟esigenza di spiegare l‟esistenza di paesi che, pur presentando una cultura politica
caratterizzata da aspetti sfavorevoli alla nascita e al mantenimento di una democrazia,
sono giunti ad una democrazia stabile (o come nel caso libanese hanno dato questa
impressione per un certo periodo), ha portato la scienza politica ad elaborare teorie che
da un lato potessero spiegare questi fenomeni e dall‟altro potessero essere utilizzate
come modelli per casi analoghi.
Uno degli esempi più evidenti in tal senso è quello relativo alle democrazie che sono
caratterizzate da società particolarmente segmentate. Come ha scritto Robert Dahl
(1966, p. 358) “la possibilità di violenza e di una guerra civile si nasconde sempre come
un pericolo nei paesi caratterizzati da sub-culture ostili; e questo pericolo senza dubbio
stimola la ricerca di risposte alternative”.
Nei casi più estremi queste realtà sono caratterizzate da un sistema politico composto da
due o più gruppi (o sub-culture) chiusi che non comunicano tra loro se non per mezzo
dei leader dei due gruppi (Verba 1965; Lijphart 1968, p. 17). Si tratta infatti di società
profondamente divise da etnie, religioni, lingue e culture diverse, quindi da un
pluralismo culturale tale da necessitare di sistemi di governo di tipo consensuale, e non
maggioritario, volendo usare una distinzione adottata dal politologo olandese Arend
Lijphart (2001). In queste società plurali, in cui le varie tipologie di fratture determinano
sottogruppi praticamente separati, organizzati attraverso partiti, gruppi di interesse e
mezzi di comunicazione, manca la flessibilità necessaria per la democrazia
maggioritaria, che anzi, a quel punto può diventare pericolosa, poiché le minoranze alle
quali si nega l‟accesso al potere si sentiranno escluse e discriminate, e perderanno la
loro fedeltà al regime (Lijphart ivi, p. 52). Quindi, se il modello maggioritario può
funzionare nel caso di democrazie stabili e consolidate, nelle società post conflittuali o
fortemente frammentate, la probabilità di scontro o di situazioni vicine allo scontro tra
le diverse componenti della società, cresce notevolmente.
15
Più specificatamente, lo studio di determinate realtà politiche fin dal secolo scorso ha
portato molti studiosi ad utilizzare il termine consociativismo
6
per descrivere la forma
di governo che caratterizza le società plurali o frammentate. Un tipo di regime in cui
appunto viene enfatizzato il consenso e non il contrasto, che sia inclusivo e non
esclusivo.
Già nel 1959 J. P. Kruyt anticipò le teorie sul consociativismo politico utilizzando il
termine pillarisation
7
per descrivere la realtà politica olandese e belga. Sostanzialmente
si trattava di un modo per descrivere l'organizzazione dei cittadini secondo appartenenze
religiose e politiche. Nei Paesi Bassi e in Belgio si è verificato un processo di
segmentazione verticale, dove i singoli segmenti, o “pilastri” (pillars) sono le varie
religioni e ideologie politiche (cattolici, protestanti, liberali, socialisti). Ognuno di
questi pilastri ha creato le proprie istituzioni sociali creando quasi una sorta di
“apartheid” tra le persone appartenenti a diversi pilastri. Nelle società “pillarizzate”,
infatti, la popolazione è divisa, mentre le élite cooperano a livello nazionale.
1.3 Il modello della democrazia consociativa
Negli anni Sessanta, prima con Apter (1961) e poi soprattutto con Lijphart (1968; 1969;
1977; 2004) il ruolo delle élite nelle società frammentate è stato affrontato attraverso il
modello della democrazia consociativa. Nata per spiegare i casi di alcuni paesi europei
(Austria, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera) caratterizzati da società frammentate, il modello
è stato poi adottato anche per casi extra-europei come il Sudafrica, l‟Uruguay, la
Colombia o appunto, il Libano.
Il modello consociativo prende le mosse dalle ipotesi più accreditate che riguardino lo
studio delle società pluraliste, ovvero, secondo cui le fratture sociali tendono ad
equilibrarsi quando sono trasversali tra loro, mentre tendono a generare conflitto se si
rafforzano reciprocamente. In tale contesto, il ruolo delle élite politiche è cruciale nel
moderare o esacerbare il conflitto (Lijphart 1969, p. 212; Daalder 1974, p. 606).
6
Il termine consociatio venne adottato per primo dal filosofo e giurista tedesco Johannes Althusius nel
suo Politica Methodice Digesta, Atque Exemplis Sacris et Profanis Illustrata del 1603 (Dekmejian 1978;
Di Peri 2010).
7
Il termine originale olandese è verzuiling.
16
Secondo Lijphart (1968, pp. 37-38), in una democrazia la cultura politica di un paese va
presa in considerazione analizzando il comportamento delle élite. Facendo riferimento a
questo modello (tab. 1.1), le tipologie di democrazia sarebbero quattro, a seconda di una
maggiore o minore omogeneità della cultura politica e di un comportamento più o meno
coesivo delle élite: quello della democrazia centripeta in cui la cultura politica è
omogenea e il comportamento delle élite è competitivo; quello della democrazia
consociativa in cui la cultura politica è frammentata e il comportamento delle élite è
coesivo; quello della democrazia centrifuga dove la cultura politica resta frammentata e
il comportamento delle élite è competitivo; quello della democrazia depoliticizzata in
cui il comportamento delle élite è coesivo, mentre la cultura politica diventa omogenea.
Tab. 1.1. Tipologia dei sistemi democratici secondo Lijphart.
Cultura politica
Omogenea Frammentata
Comportamento
delle élite
Coesivo
Democrazia
depoliticizzata
Democrazia
consociativa
Competitivo Democrazia centripeta Democrazia centrifuga
Fonte: Lijphart (1968, p. 38).
Nella democrazia consociativa, che fa riferimento al modello consensuale, il
meccanismo decisionale del sistema politico non verte principalmente sul principio di
maggioranza come nelle democrazie in cui il comportamento delle élite è competitivo
(ovvero nelle cosiddette democrazie competitive), bensì sulla ricerca di intese e di
soluzioni di compromesso. Tutti i principali partiti sono coinvolti in questo processo e
partecipano, proporzionalmente alla loro forza elettorale, alla distribuzione delle cariche
politiche e degli incarichi ai vertici dell‟amministrazione, dell‟esercito e della giustizia.
17
Due sono gli aspetti principali del sistema consociativo individuati da Lijphart: una
società plurale e frammentata e delle élite che cooperano attraverso strutture
consociative.
Ciò che caratterizza una democrazia consociativa può essere riassunto come segue
(Lijphart 1977, p. 25):
1. Presenza di una grande coalizione: le diverse élite si uniscono per governare
insieme negli interessi della società, in quanto riconoscono i pericoli della non
cooperazione. Un governo dunque, può includere più partiti in modo tale da
rappresentare il punto di vista di una fetta più ampia del popolo.
2. Meccanismi di veto con relativa delimitazione del potere dello stato: allo scopo
di garantire meglio le minoranze a livello decisionale permettendo anche ai
gruppi più piccoli e più deboli di avere voce nelle decisioni politiche di vitale
importanza per ogni comunità. Questo “diritto di veto reciproco” potrebbe
portare ad una immobilità politica, ma Lijphart tende ad escludere tale ipotesi,
perché ogni partito desidera mantenere la stabilità del sistema (in quanto esso
promuove la convivenza pacifica tra i diversi gruppi), e quindi è più probabile
che faccia concessioni di tanto in tanto per evitare cambiamenti costituzionali o
il conflitto.
3. Proporzionalità: L'idea è di spostare il processo decisionale a livelli più alti
possibili (cioè lontano dai cittadini). Infatti solo al più alto livello di élite si
svolgono i processi decisionali, spesso in trattative segrete, perché è a questo
livello che le élite sono in grado di riconoscere la necessità di operare oltre le
loro divisioni e di prendere buone decisioni. I compromessi hanno luogo quando
le élite (cioè i membri del governo) mediano dietro le quinte; il conflitto si
manifesta invece quando i membri del parlamento assecondano apertamente i
loro sostenitori. L‟obiettivo in questo senso è perciò quello di evitare il conflitto,
lasciando che siano le élite a prendere le decisioni. Tale principio deve essere
applicato in tutte le sedi rilevanti (a livello elettorale, amministrativo e per la
distribuzione di risorse pubbliche).
4. Autonomia nella gestione dei diversi segmenti della società: vengono adottate
norme diverse in base alle differenti culture delle singole comunità. Alle diverse
minoranze, ad esempio, viene riconosciuta autonomia in ambito religioso,
linguistico e relativo all‟istruzione.