collegamenti non sempre immediati, con letture che sono state abbandonate e poi riprese e
che negli ultimi anni sono sfociate in analisi di tipo ideologico-religioso. Pertanto, in questa
sede, si è provato a dare una sistemazione all'intricato percorso che la critica psicanalitica ha
seguito nello studio della narrativa di Tozzi, ricorrendo a una suddivisione in capitoli che
segue la successione cronologica per decadi; scelta che sebbene a prima vista può risultare
eccessivamente schematica, tuttavia è stata necessaria per focalizzare meglio l’evoluzione e
gli sviluppi delle principali questioni.
Gli anni Sessanta sono dominati dall’innovativa lettura debenedettiana in chiave
freudiana ed espressionista, incentrata sul rinvenimento di un trauma edipico dell’autore che
si riflette sui personaggi, mentre per tutti gli anni Settanta si è registrato principalmente un
proseguimento degli studi già avviati nel decennio precedente, con un approfondimento del
discorso sull'europeismo dello scrittore e dei concetti di alterità e animalità che ne
caratterizzano gli ‘inetti’. A partire dagli anni Ottanta la lettura edipica viene contrastata,
soprattutto per via della scoperta di alcuni testi di psicologia rinvenuti nella libreria dello
scrittore e che dimostrano come alla base del proprio scavo interiore vi fosse non un
complesso edipico e una personale esigenza di chiarezza, bensì un preciso bagaglio di
conoscenze scientifiche (soprattutto dei positivisti francesi e americani). Sono anche questi
gli anni in cui alcuni studiosi propongono con più decisione un’indagine in chiave
ideologico-cristiana dell'arte dello scrittore, il cui interesse per l'interiorità deriverebbe non
dalle sue letture scientifiche, ma da quelle dei mistici senesi, stimolate anche dalla
frequentazione di una rivista cattolico-reazionaria come «La Torre». Da questo momento, e
proseguendo per tutti gli anni Novanta fino a oggi, il dibattito sul sostrato scientifico o
ideologico delle narrativa tozziana andrà ancora avanti. Pertanto la critica non dibatte più
sull'antinaturalismo e sulla modernità di Tozzi (nozioni ormai indiscusse), ma si interroga
tutt’oggi per scoprire se l'attenzione all'interiorità, alle zone recondite dell'animo umano sia
il risultato di un’inclinazione scientifica o di una religiosa.
Scambiandosi opinioni diverse, rileggendo l’intero corpus tozziano, ricercando le
firme applicate per i prestiti bibliotecari e i testi presenti nella sua biblioteca personale, gli
studiosi cercano ancora di capire dove si situi in Tozzi il punto, ammesso che un punto vi
sia, in cui finisce la psicologia e comincia la religione o viceversa.
CAPITOLO I
LA SVOLTA CRITICA DEGLI ANNI SESSANTA
1.1 Uno sguardo retrospettivo
Dal punto di vista critico, Federigo Tozzi rappresenta un autore controverso, più volte
riletto anche con valutazioni opposte e si può parlare di un vero risveglio dell'interesse
critico per la sua opera solo dopo la morte. Se la prima vera scoperta dell'autore viene
attribuita a Giuseppe Antonio Borgese, che lo considera come il nuovo edificatore del
romanzo tradizionale, si dovranno attendere gli anni Sessanta perché si possa parlare di una
riscoperta. Spetta a Debenedetti il merito di una nuova lettura dell'opera tozziana in chiave
psicanalitica che darà avvio a quella che, in più di un'occasione, Baldacci ha definito come
una vera «rivoluzione copernicana» degli studi sull'autore senese. Da quel momento Tozzi
sarà valutato alla luce delle novità apportate nel panorama letterario italiano e inserito tra gli
autori che hanno contribuito alla costruzione del nuovo romanzo moderno e all'abbandono
delle logore strutture naturaliste. Negli anni Sessanta si delineano anche questioni critiche
importanti come quella filologica, successiva alla pubblicazione dell'edizione integrale dei
Ricordi di un impiegato, e quella autobiografica, per valutare esattamente il peso della
biografia dello scrittore sulla sua opera. Ma prima di individuare gli sviluppi delle indagini
critico-psicanalitiche, a cominciare dalla svolta degli anni Sessanta, bisogna tracciare un
quadro generale delle posizioni precedenti, a cominciare da quelle immediatamente
successive la morte dell'autore.
Quando Tozzi è ancora in vita non si registrano consistenti contributi e, tranne nel caso
di qualche articolo sparso in rivista, essa passa per lo più sotto silenzio. Pubblicata
nell’ottobre 1917 presso i fratelli Treves, la raccolta di prose liriche Bestie non suscita
l'interesse dei critici del periodo, fatta eccezione per qualche breve recensione su rivista
contenente un generale profilo dell’autore. Si dovrà attendere l'uscita di Con gli occhi chiusi
perché Tozzi diventi noto al pubblico e perché venga pubblicata la prima importante
recensione che porta la firma di Luigi Pirandello.
1
L’articolo pirandelliano si concentra sul
distacco del senese dalla lezione verista e sulla centralità del soggetto nella narrazione:
1 Si ricorda che Tozzi e Pirandello collaborano alla redazione del «Messaggero della Domenica» e che Tozzi gli
dedicherà il saggio Luigi Pirandello («Rassegna Italiana», 15 gennaio 1919) e il romanzo Tre croci.
Si direbbe naturalismo; ma non è neanche questo; perché qui tutto, invece, è atto e movimento lirico. Quel
che pare naturalismo è invece scrupolosa lealtà da parte dello scrittore, il suo bisogno ansioso e urgente
d’una controllata aderenza dell’espressione al sentimento suscitato in lui dalle cose vedute o immaginate in
questo o in quel luogo, in questa o in quell’ora, nella tale stagione, e così e così; tutto per essere poi mosso
con intera padronanza, come l’animo dei personaggi, e anzi, nell’animo stesso dei personaggi, allo stesso
modo, con la più naturale variabilità di luci e di colori, cosicché nulla posi descritto, ma viva e respiri e varii
con tutte le sue mutevoli precisioni anche il paesaggio.
2
Tuttavia sarà solo dopo la morte dell'autore che il dibattito critico prenderà avvio. Fino
agli anni Sessanta la critica tozziana può essere suddivisa in tre blocchi: gli interventi degli
anni Venti, dovuti alla pubblicazione postuma delle opere dell’autore scomparso in quel
periodo, dove la benevola posizione del Borgese si scontra con la linea più intransigente
rappresentata da Russo e poi da Gargiulo; la riscoperta solariana e gli interventi più meditati
degli anni Trenta; il lungo periodo di silenzio che coprirà gli anni Quaranta e Cinquanta,
segnati solo da sporadici interventi su quotidiani e riviste. Solo con gli anni Sessanta il
saggio mursiano di Ferruccio Ulivi e le illuminanti analisi di Giacomo Debenedetti daranno
l’impulso per indagini più innovative e per un massiccio ‘ritorno’ di studi.
Tra gli interventi più significativi del primo periodo si segnalano quelli di Borgese,
Pancrazi e Cecchi. Il primo, in un articolo pubblicato su «Lettura» del 1° maggio 1920,
ricostruisce le principali tappe della vita dell’amico Tozzi, sottolineando quelle esperienze
che ne avrebbero segnato la pagina narrativa (un’adolescenza tutt’altro che felice, il
carattere ribelle, i continui scontri con il padre, la perdita della madre, la vocazione poetica
contrastata e tormentata, l’amore rasserenante per Emma).
Pancrazi
chiarisce che la tendenza principale della poetica tozziana sia l'ispirazione
lirico-autobiografica e ritiene che i momenti migliori siano quelli in cui lo scrittore, invece
di parlare di sé attraverso la narrazione di fatti personali, si proietta sugli uomini, sugli
animali e le cose del mondo, come avviene in Bestie.
3
Al contrario Cecchi sottolinea la capacità del senese di costruire personaggi autonomi
da se stesso, come nel caso di Ghìsola (a suo parere uno degli esempi femminili più alti
della letteratura italiana) e dei fratelli Gambi. Tuttavia egli non ritrova in Tozzi i segni
evidenti di una lezione verista e specifica che anche nel caso in cui lo scrittore se ne fosse
2 L. PIRANDELLO, Con gli occhi chiusi, «Il Messaggero della Domenica», 13 aprile 1919; poi in Saggi, poesie e scritti
vari, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1960, p. 1011.
3 Cfr. F. PANCRAZI, Federigo Tozzi, «Il Resto del Carlino», 24 marzo 1920; poi in Ragguagli di Parnaso, a cura di C.
Galimberti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1967, pp. 137-145.
servito, lo avrebbe fatto in maniera del tutto personale, regalandoci uno stupendo romanzo
come Con gli occhi chiusi.
4
Una parte importante della storia di questa prima critica tozziana spetta anche alla
cosiddetta parte d’opposizione rappresentata da Luigi Russo. Egli limita il valore del senese
e si oppone all'abitudine, a suo parere comune tra molti critici, di elogiare gli scrittori
appena scomparsi; così dichiara che l’accostamento con Verga risulta improponibile perché
in Tozzi il contesto narrativo pecca di staticità drammatica e i personaggi non sono dei vinti,
ma degli inetti. Al contrario lo studioso ritrova le prove migliori in Con gli occhi chiusi e
Ricordi di un impiegato, romanzi in cui l’autore non dissimula influenze veriste, ma esprime
liberamente quel che di patologico vi è nel proprio carattere: «Una morbosità contadinesca,
violenta, carnale che gli dava il gusto mistico dello strano, del vizio, della carne,
dell’accidia».
5
Intanto, nel 1923, esce il celebre saggio borgesiano su Tozzi in Tempo di edificare, in
cui il critico siciliano si oppone alla limitante interpretazione di Russo e rinviene in Tre
croci un esempio di romanzo ben costruito ed ‘edificato’ contro il frammentismo e
l’autobiografismo vociano. Borgese predilige quest’ultimo romanzo perché lo ritiene il più
impersonale tra quelli tozziani, nonché quello in cui lo scrittore si sgancia in modo più
deciso dalle proprie vicende personali, al contrario di Con gli occhi chiusi, Il Podere e
Ricordi di un impiegato che il critico riconduce all’intimo diarismo allora in voga. Pertanto
lo studioso distingue le opere del periodo giovanile (in cui Tozzi stava maturando un’arte
ancora autobiografica) da Tre croci, opera che, a suo parere, segna il passaggio a nuova
direzione narrativa che, se la morte non avesse colto prematuramente lo scrittore, sarebbe
potuta approdare a una maggiore spersonalizzazione e costruttività.
6
Questa concezione,
diciamo, evolutiva dal diario al romanzo sarà sostenuta in seguito anche dalla critica 'a
favore' di Tozzi, la quale però non terrà conto de Gli egoisti (stampato postumo nel 1923 e
per parecchio tempo considerato una sorta di ricaduta negli schemi diaristici e intimistici
giovanili). Gli oppositori, invece, continueranno a insistere sul carattere patologico e sulle
sfaccettature più morbose della personalità dell’autore, fino a giungere a posizioni estreme,
come quelle di Pellizzi, che giudicheranno Tozzi uno scrittore del tutto privo di
4 Cfr. E. CECCHI, L’ultimo romanzo di Federigo Tozzi, «La Tribuna», 27 marzo 1920; poi in Letteratura italiana del
Novecento, vol. II, a cura di P. Citati, Milano, Mondadori, 1972, pp. 848-852.
5 L. RUSSO, Federigo Tozzi, in I narratori, Roma, Fondazione Leonardo, 1923, pp. 198-200.
6 Cfr. G.A. BORGESE, Tozzi, in Tempo di edificare, Milano, Treves, 1923, pp. 23-63.
immaginazione e originalità, in grado solo di fare dell’autobiografia.
7
Negli anni Trenta gli interventi degli scrittori di «Solaria» aprono una nuova stagione
critica che libera l’autore dagli angusti confini provinciali e ne inseriscono l’opera in un più
ampio contesto europeo per la presenza del tema della memoria e di alcuni richiami a un
primo psicologismo. La rivista gli dedica il numero speciale del maggio-giugno 1930
(Decimo anniversario della morte di Tozzi) in cui si distinguono gli articoli di Capasso,
Consiglio e Franchi. Il primo sostiene che il senso di immobilità che si avverte nelle opere
del senese non è un aspetto negativo (come aveva dichiarato Russo), bensì una caratteristica
della sua scrittura. Secondo lo studioso infatti i personaggi inetti popolano un cosmo statico
e pietrificato, senza speranze di evoluzione e processi interni e, attraverso la descrizione di
particolari apparentemente insignificanti eppure alla base di condizioni di vita drammatiche,
si dipinge un ritratto tragico dell’umanità e dell’esistenza. Consiglio invece, esaminando
l’approfondimento psicologico dei moti dei personaggi, mette in rilievo la primitività dello
scrittore e lo accosta persino a Svevo; mentre Franchi ritiene Con gli occhi chiusi il
capolavoro tozziano per la storia d’amore tra Pietro e Ghìsola che egli ricollega
all’acclamato genere della letteratura come fatto personale, pur avvertendo che la narrazione
tozziana non scade mai nel semplice autobiografismo.
Quantunque «Solaria» abbia tentato di riscattare l'autore, molti problemi rimangono
aperti per via degli aspetti morbosi e patologici dell'uomo Tozzi che ne offuscano la
focalizzazione sull'artista. Così, tra gli studiosi 'contro', il giudizio di Gargiulo risulta uno
dei più aspri. Dopo un’articolata e ben motivata analisi egli ne stronca tutta l’opera,
insistendo innanzitutto sulla morbosità della scrittura, troppo intrisa di fatti personali, di
elementi patologici e di violenza, però poco creativa. Tuttavia anche questa interpretazione
non è neutrale perché, esasperando l'aspetto patologico, limita il valore di Tozzi alle sole
opere bozzettiste e memorialiste.
8
Sempre degli anni Trenta è un saggio di Rosina che rimarca le possibili influenze
dell’autore (D’Annunzio, Verga e i vociani) e ne accentua il carattere lirico.
9
Su
quest'ultimo aspetto insiste anche la Silvi la quale, preferendo Con gli occhi chiusi a Tre
croci, ritiene che le prove migliori siano quelle in cui lo scrittore approfondisce i moti
interiori dei personaggi; mentre, al contrario, i risultati peggiori li abbia ottenuti cercando di
7 Cfr. C. PELLIZZI, Tozzi, in Le lettere italiane del nostro secolo, Milano, Libreria d’Italia, 1929, pp. 343-350.
8 Cfr. A. GARGIULO, Federigo Tozzi, «Italia Letteraria», 12 luglio 1930; poi in Letteratura italiana del Novecento,
Firenze, Le Monnier, 1943², pp. 81-88.
9 Cfr. T. ROSINA, Federigo Tozzi, Genova, Degli Orfini, 1935.
deviare la propria originaria vocazione attraverso la creazione personaggi autonomi.
10
Un ulteriore contributo di questi anni è quello di De Michelis. Egli accetta l’idea di
una parabola tozziana che va dalle prime prove liriche e frammentiste a un successivo
racconto autobiografico e psicologico fino alla conclusiva fase di maturità espressa con un
romanzo ben costruito, ma non concorda con la tesi di una scrittura patologica e riconosce
piuttosto la capacità di esplorazione psicologica dell'autore e la sua originale elaborazione
della materia nell’ambito di un contesto italiano intento a superare il frammentismo in
direzione del romanzo.
11
Intanto tra il settembre e l’ottobre del 1938 escono delle pagine speciali dedicate a
Tozzi su «Campo di Marte» e tra i vari articoli merita attenzione quello di Bigongiari.
Attraverso una lettura in chiave psicologica il critico individua che gli scompensi interiori
dell'autore si riflettono in narrazioni aspre e percorse da un continuo ricordo di sé e di quel
tempo adolescenziale dal quale cerca di distaccarsi.
12
Per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta si registra un periodo di silenzio, tagliato solo
da sporadiche apparizioni di articoli e recensioni su quotidiani e periodici. Nonostante
Vallecchi abbia iniziato nel 1943 la stampa delle Opere complete di Federigo Tozzi, la
critica non effettua una lettura più attenta dello scrittore e il dibattito continua a concentrarsi
sugli aspetti formali e biografici, per lo più riprendendo posizioni già sostenute. Unica
eccezione è costituita dal saggio di Ferruccio Ulivi del 1946,
13
notevole per le aperture allo
studio degli elementi psicologici e stilistici, ma rivisto e ripubblicato nel 1963.
Degli esigui interventi negli anni Cinquanta si ricordano soprattutto le Lettere a mio
padre edite dal figlio Glauco sul numero dedicato a Tozzi della «Fiera Letteraria» (aprile
1950), vari articoli di Verdone, Ulivi, Fracassi, Dell’Era e una Bibliografia generale curata
da Frattarolo che nello stesso anno pubblica uno studio sul problema del dualismo nell’arte
di Tozzi tra narrativa e confessione.
14
Risalgono agli stessi anni anche gli interventi di
Cecchi e di Bo: il primo punta sulla natura solitaria e sulle dolorose vicende biografiche
dello scrittore come elementi forgianti la sua triste visione del mondo;
15
il secondo
10 Cfr. V. SILVI, Su Federigo Tozzi, «La Nuova Italia», gennaio-febbraio, 1935.
11 Cfr. E. DE MICHELIS, Saggio su Tozzi. Dal frammento al romanzo, Firenze, La Nuova Italia, 1936.
12 Cfr. P. BIGONGIARI, Promemoria per Tozzi, «Campo di Marte», 1° ottobre, 1938.
13 F. ULIVI, Federigo Tozzi, Brescia, Morcelliana, 1946; poi ripreso e ampliato in Federigo Tozzi. Seconda
edizione, Milano, Mursia 1963.
14 Cfr. R. FRATTAROLO, Ritratto di Federigo Tozzi, «Idea», 21 maggio 1950.
15 Cfr. E. CECCHI, Leggere Tozzi, «L’Europeo», 30 aprile 1950; poi in Di giorno in giorno, Milano, Garzanti,
1954.
riconduce i romanzi di Tozzi a quelli di Svevo e Pirandello.
16
Nel 1960, con la pubblicazione dei Nuovi Racconti a opera di Vallecchi, si assiste a
una vera ripresa dell’interesse critico per l’opera di Tozzi. Su «L’Italia che scrive»
dell’ottobre 1960 De Michelis ne focalizza l’attenzione sulla parabola evolutiva dal
racconto al romanzo, facendo riferimento anche all’edizione integrale dei Ricordi di un
impiegato pubblicata per la prima volta nell’edizione vallecchiana. Al contrario Falqui,
rifacendosi alla stessa edizione dei Ricordi, nega
17
che all’interno dell’arte tozziana vi sia
un’evoluzione di tal genere. Nel 1961 Pullini analizza attentamente le lettere di Novale e lo
definisce il libro più interessante di Tozzi perché quello in cui l’autore si dimostra più
autentico e perché ne fornisce una chiave interpretativa dell’arte. Analizzando
singolarmente le opere, il critico mette in evidenza il passaggio da un «impressionismo
lirico» a un «espressionismo narrativo», in una concezione dell’arte come elemento
risanatore della vita che guarisce e sana gli scompensi esistenziali.
18
Ma il contributo più innovativo degli anni Sessanta è senza dubbio il saggio Con gli
occhi chiusi
19
di Giacomo Debenedetti e il suo ciclo di lezioni tenute all'Università di Roma
e in seguito confluito nel volume Il romanzo del Novecento. Attraverso una lettura
psicanalitica in chiave edipica lo studioso non solo getta luce sull'interpretazione delle opere
maggiori, ma rilascia anche nuovi spunti per la questione autobiografica, per quella sul
ruolo della memoria e per l’attestazione di un percorso artistico svoltosi non dal frammento
al romanzo, ma sempre volto all’espressione dei moti interiori e ai risvolti psicologici dei
personaggi, proiezioni dello stesso autore.
1.2 Debenedetti e la svolta
Il contributo di Debenedetti risulta decisivo per una lettura moderna delle opere di
Federigo Tozzi. A dispetto degli accostamenti con Verga operati da Borghese, egli avvicina
l'arte del senese a quella di Pirandello e dichiara che entrambi hanno «contribuito a
raffigurare il nuovo personaggio “uomo” dell’arte moderna: animato da certe sue ragioni
16 Cfr. C. BO, Alcuni caratteri del romanzo italiano, in Riflessioni critiche, Firenze, Sansoni, 1953.
17 Cfr. E. FALQUI, Un giudizio da capovolgere, «Il Tempo», 11 giugno 1960; poi in Novecento letterario. Serie Terza,
Firenze, Vallecchi, 1961.
18 Cfr. G. PULLINI, Espressionismo narrativo di Tozzi, «Le ragioni narrative», febbraio 1961; poi in Volti e risvolti del
romanzo italiano contemporaneo, Milano, Mursia, 1971.
19 G. DEBENEDETTI, Con gli occhi chiusi, «Aut-Aut», n. 78, novembre 1963; poi in appendice a F. TOZZI, Con
gli occhi chiusi - Ricordi di un impiegato, Roma, Editori Riuniti, 1980.
che la ragione brevettata e tradizionale [...] continua a ignorare»;
20
tuttavia il distacco dal
romanzo tradizionale avviene in modo diverso: Pirandello è più consapevole e «autocratico
nel manovrare il proprio materiale»,
21
mentre Tozzi agisce in modo più inconsapevole,
«travolto dalla propria materia verso esiti che non sospetta e forse non vorrebbe».
22
Anche se Debenedetti riconosce a Borgese il merito di aver liberato il nome di Tozzi
dall'ambito frammentista e vociano, tuttavia egli osserva che l’errore del critico siciliano
consista nell’aver interpretato tale rottura non come espediente per l'affermazione del
romanzo moderno, bensì per la riedificazione di una narrativa di matrice naturalista.
Debenedetti sostiene che il «fraintendimento»
23
maggiore sia dato dalla concezione di una
parabola poetica ascendente costituita da un primo periodo caratterizzato
dall’autobiografismo e da una narrazione espressionistica (Ricordi di un impiegato, Con gli
occhi chiusi, Il podere) e da un secondo periodo di maggiore maturità artistica che si
distingue per una narrazione più lineare e ben costruita (Tre croci). Così, a conferma
dell’equivoco borgesiano, egli addita le mutilazioni eseguite dallo stesso curatore alla prima
edizione dei Ricordi di un impiegato
24
le quali dimostrano che, anche durante gli anni
romani, lo scrittore trasferiva sulla pagina i passaggi oscuri e sconnessi della psiche, come
aveva fatto del resto nelle prime opere. Così Debenedetti sottolinea la presenza, in tutta la
narrativa del senese, delle cosiddette «apparizioni»,
25
cioè di quelle «memorie reincarnate,
che si affacciano alla rinfusa [...] collegate solo da un comune potere di assillo e
malefizio»
26
che si manifestano attraverso la paura dello sconosciuto;
27
egli riporta, ad
esempio, i passi dell'ortolano e del carraio per la presenza degli altri visti come insetti, come
esseri diversi con cui non si riesce a comunicare e come qualcosa di «molesto» e di
«infestante» che atterrisce il personaggio. Tuttavia il critico dichiara che non bisogna
spiegare la paura degli altri come una personale patologia dell’autore, ma come una
caratteristica dell’uomo del nuovo secolo, malato nella volontà e nello slancio alla vita,
20 G. DEBENEDETTI, Con gli occhi chiusi, cit., p. 165.
21 Ibid.
22 Ivi, p. 166.
23 Ivi, p. 168.
24 F. TOZZI, Ricordi di un impiegato, «La Rivista letteraria», s. I, vol. II, maggio 1920, con una Avvertenza di
G.A. Borgese.
25 G. DEBENEDETTI, Con gli occhi chiusi, cit., p. 168.
26 Ibid.
27 Come lo stesso protagonista dei Ricordi dichiara: «Tutte le volte che mi s’avvicina un uomo che io non
conosco, ne ho paura; qualche volta, anche se si tratta di un amico. Non ho paura proprio di lui, ma delle conseguenze
che ne posso derivare al mio spirito quand’egli cominci a parlare» (F. TOZZI, Ricordi di un impiegato, in Opere.
Romanzi, prose, novelle, saggi, Milano, Mondadori, 1987, pp. 419-420).
sopraffatto e atterrito dalla vita stessa, di cui non si sente altro che un subalterno, un
impiegato.
28
A proposito di impiegati Debenedetti si oppone all'accostamento di Tozzi a Svevo e
Kafka, sebbene anche questi, con Una vita e La metamorfosi, siano autori di romanzi che
hanno per protagonisti degli impiegati. A suo parere l’unico punto di contatto tra il
personaggio sveviano e quello tozziano è la concezione rispettivamente della letteratura e
dell’amore per la fidanzata come una forma di risarcimento per la propria inettitudine alla
vita; viceversa egli rimarca che, al contrario del protagonista di Una vita che «si genera una
vicenda, vive fino alle estreme conseguenze negative e al suicidio la propria natura di
individuo frustrato»,
29
quello dei Ricordi di un impiegato «vuole, senza un contenuto del
proprio volere»
30
essendo, allo stesso tempo, protagonista ed estraneo della propria stessa
esistenza.
31
Il critico ritiene improbabile anche il paragone con il protagonista de La
Metamorfosi
32
la cui trasformazione in millepiedi è la manifestazione della propria
consapevolezza di inferiorità e pertanto, al contrario dell’impiegato tozziano, egli non si
sente superiore ai propri colleghi. Per di più, a differenza delle storie di Svevo e Kafka che
si concludono con la morte dei due impiegati, quella di Tozzi è una vicenda che non si
risolve, perché il protagonista non è capace di reagire e preferisce la remissività
dell'impiegato della vita e la compiaciuta chiusura nel solipsismo narcisistico.
33
Procedendo nelle sue indagini Debenedetti coglie l'essenza e la modernità della
narrativa tozziana nei «misteriosi atti nostri»
34
che rivelano le verità profonde dell'intimo
umano e, rifacendosi al saggio tozziano Come leggo io, spiega che il personaggio tozziano è
un essere irrazionale che, mentre cammina per la strada, si ferma a raccogliere un sasso,
compie un'azione apparentemente priva di importanza ai fini logico-consequenziali della
28 Questi sono i termini con i quali Debenedetti ci descrive il personaggio di Leopoldo: «un impiegato della vita,
che a lui si presenta come un incessante scoccare di ordini, ordini non pronunciati ma inderogabili, ordini sempre e
minacce di sanzioni da parte di un principale che non è nessuno, ma è tutti e tutto, dovunque» (G. DEBENEDETTI, Con
gli occhi chiusi, cit., p. 170).
29 G. DEBENEDETTI, Il Romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, p. 99.
30 Ivi, p. 100.
31 Debenedetti dichiara che tutte le iniziative di Leopoldo sono «quasi del tutto ignare di una qualsiasi finalità
che non sia la voglia istintiva di vivere, anzi di sopravvivere per una vita che non si ama. È un condannato ai lavori
forzati del vivere» (G. DEBENEDETTI, Il Romanzo del Novecento, cit., p. 100).
32 Tuttavia nel successivo saggio del '63 il critico modererà questa posizione dichiarando che sia Gregorio che
Leopoldo sono l'emblema dell'uomo subordinato e umiliato nei confronti di un mondo che lo disprezza ma a cui deve
ubbidienza, un mondo che di continuo gli ricorda la propria inutilità.
33 Lo stesso protagonista afferma: «Essi [gli altri] non sanno che io amo e che non sarebbero capaci di farmi
lasciare da lei. Tutti i dispetti e tutte le insolenze mi possono fare, ma questa no! I suoi occhi, buoni e sereni, non si
cambieranno mai» (F. TOZZI, Ricordi di un impiegato, in ID., Opere. Romanzi, prose, novelle, saggi, cit., p. 413).
34 F. TOZZI, Come leggo io, in ID., Opere. Romanzi, prose, novelle, saggi, cit., p. 1325.
narrazione. Secondo lo studioso è proprio questa la vera novità della poetica tozziana, quella
cioè di essere fondata sugli atti inspiegabili dell'uomo, sui gesti irrazionali che tuttavia
interesseranno lo scrittore più di qualsiasi altro collaudato meccanismo narrativo:
non si tratterà più dunque di una narrazione di cause e di effetti, ma di comportamenti, di modi insindacabili
di apparire e di esistere. Di qui l'innato antinaturalismo di Tozzi. Il naturalismo narra in quanto spiega, Tozzi
narra in quanto non può spiegare.
35
Le pagine più importanti degli studi debenedettiani, quelle che produrranno la vera
svolta critica, sono dedicate a Con gli occhi chiusi di cui lo studioso mette in evidenza due
chiavi interpretative: quella dell'«animalizzazione» e quella del complesso edipico.
L'animalizzazione non consiste tanto nella deformazione fisica o nell'assunzione di tratti
zoomorfi dal parte del personaggio (sebbene non manchino in Tozzi esempi di questo tipo)
quanto piuttosto nella rappresentazione di un’umanità priva di razionalità, che si esprime
tramite azioni illogiche e gesti simili a quelli degli animali.
36
Pertanto il critico spiega la
cecità dei personaggi come un modo per non vedere la realtà che appare come qualcosa di
altro da sé, da cui bisogna ripararsi e con cui non si riesce a comunicare se non in modo
violento e irrazionale. Un esempio del modo animalizzato di esprimersi dei personaggi è
contenuto, secondo Debenedetti, nell'episodio del temperino
37
quando i due giovani,
incapaci di comunicare razionalmente, si attaccano reciprocamente con gesti che rasentano
l'animalità, senza alcuna manifestazione di sentimenti. Tuttavia egli ritiene che
l'animalizzazione possa essere anche una sorta di atto terapeutico con cui lo scrittore cerca
di superare le proprie paure, come facevano i cavernicoli quando dipingevano scene di
caccia sulle pareti delle grotte per vincere la paura dell'animale. Per quanto riguarda la
lettura edipica, invece, lo studioso sostiene che il personaggio tozziano sia vittima di una
mutilazione, di un trauma psichico rivelato, in modo simbolico, dalla scena della castrazione
35 G. DEBENEDETTI, Con gli occhi chiusi, cit., pp. 172.
36 Cfr. G. DEBENEDETTI, Il Romanzo del Novecento, cit., p. 223.
37 Di seguito si riporta l'episodio in questione:«Tra quegli stracci d'ogni colore, le matassine di capelli, le
scatolette sfondate, c'era una bambola fatta d'un pezzo di stoffa bianca intorno a un mestolo. Pietro ebbe voglia di
raccattarla, e s'alzò. Ma la vecchia, preso tempo, gettò la spazzatura fuori dell'uscio. E allora quella bambola, rimasta
supina, parve a Pietro che fosse viva. E non la toccò. Ghìsola, sopraggiunta dal campo, vistala tra la spazzatura, stette
zitta perché la nonna da tanto tempo le aveva detto di buttarla via, ma fece viso da piangere. Masa le gridò: “Pensi
sempre a queste cose?”. / Pietro, per burlarla, affondò la bambola a calcagnate, nella melma; e poi ci si mise con furore,
con il cuore palpitante, impaurito di vederla uscir fuori, pallido. / Ghìsola, guardandolo dall'uscio, borbottò: “Stupido!”.
/ Pietro sentì rimorso, e tentò tutti i mezzi di riconciliarsi; ma lei gli volse le spalle, mangiando un pezzo di pane trovato
nella madia. Allora egli aperse un temperino che aveva in tasca e le ferì una coscia» (F. TOZZI, Con gli occhi chiusi, in
ID., Opere. Romanzi, prose, novelle, saggi, cit., p. 21).
degli animali e riconducibile al senso di inferiorità che il protagonista nutre nei confronti del
padre che cerca di imporgli il proprio modello autoritario; il critico spiega che il giovane
punisce il genitore attraverso la propria cecità e inettitudine alla vita, cioè dimostrandosi
l'esatto contrario di quello che il padre avrebbe voluto e vendicandosi così della mutilazione
subita:
il giovane protagonista assiste allibito alla castrazione generale, quasi indiscriminata, di tutti gli animali del
podere, presente il padre che ha impartito l'ordine. [...] l'idea coatta di dover subire, per volontà del padre,
una mutilazione del genere è uno dei temi basilari del complesso di Edipo. [...] Edipo, l'eponimo del
complesso che porta il suo nome, quando vuole espiare l'uccisione del padre, quell'inconscia vendetta e
riconquista di un proprio destino personale, si accieca. Perpetra su di sé, con le proprie mani, la mutilazione
che il padre, avido di conservarsi la vita, la sposa e il regno, aveva tentato di infliggergli [...] costringendolo a
vivere propriamente con gli occhi chiusi, [...] destinato a crescere sconosciuto tra i pastori, ignaro di se stesso
e dei propri diritti dinastici.
38
Dall'analisi delle lettere di Novale Debenedetti ricava che l'inibizione subita dal
protagonista del romanzo è la stessa di quella che il giovane Federigo ha dovuto subire dal
padre Ghigo del Sasso e che pertanto «gli occhi chiusi» di Pietro sono anche quelli di Tozzi.
Così l’interpretazione edipica viene estesa anche agli altri romanzi tozziani in cui la roba,
simbolo della potenza paterna, viene dissipata: nei Ricordi, quando il padre del protagonista
lo costringe a subire la frustrazione di un concorso per un impiego statale, egli si vendica
portando le mezze maniche dell'uniforme come manifestazione di quella incapacità a cui lo
ha costretto il padre;
39
ne Il podere il figlio si invischia in inquietanti raggiri di avvoltoi e
lestofanti per liberarsi del podere ottenuto in eredità; in Tre croci i fratelli Gambi conducono
alla bancarotta la libreria antiquaria ereditata dal padre e incarnazione della sua potenza.
Inoltre, a differenza della critica passata che aveva concepito questi fratelli come personaggi
autonomi, Debenedetti vi scorge la proiezione di un unico personaggio emblema dell'uomo
mutilato dinanzi alla vita, che non riesce a «mordere nel pieno la realtà»
40
e la sostituisce
con l'esagerata ricerca di cibo.
38 G. DEBENEDETTI, Con gli occhi chiusi, cit., pp. 174-175.
39 Debenedetti aggiunge anche che, dopo la morte del padre, Leopoldo «decide subito di lasciare l'impiego e
dedicarsi all'amministrazione della roba paterna, perché il padre non è più lì a pretenderlo, dunque lui non ha più
bisogno di protestare con il rifiuto» (G. DEBENEDETTI, Con gli occhi chiusi, cit., p. 175).
40 Ivi, p. 177.
1.3 La questione filologica dei Ricordi di un impiegato
Nel volume dei Nuovi Racconti, pubblicati da Vallecchi nel 1960, viene inclusa, per la
prima volta, l’edizione integrale dei Ricordi di un impiegato,
41
curata da Glauco Tozzi e
contenente «numerosi brani che non era stato ritenuto opportuno di includere nelle
precedenti, anche esse purtroppo postume, edizioni».
42
Si tratta, come conferma Glauco,
della «copia integrale del manoscritto autografo, lasciato dall’Autore in forma completa e,
presumibilmente, definitiva»
43
ed essi possono essere considerati «nuovi» perché «ampliati
successivamente alla prima stesura».
44
Il curatore avverte che la redazione fornita nelle due
precedenti edizioni (la prima nel 1920 sulla «Rivista Letteraria» e la seconda nel 1927
presso Mondadori) corrisponde a una prima stesura del 1910, mentre quella della terza
edizione risale, come avverte lo stesso Glauco, a un’epoca successiva, forse al 1919-1920,
come dimostrerebbe «la carta intestata della Croce Rossa su cui furono scritti, alla quale
Federigo Tozzi appartenne dal 31 agosto 1915 al 3 febbraio 1919».
45
Ma, fatta eccezione per
i brani aggiunti, i due testi sono identici e, quindi, le due redazioni che Borgese analizzò
corrispondono alla seconda stesura del 1919-1920.
Nel 1925 la vedova Emma dà alle stampe Novale in cui si fissa la data di
composizione dei Ricordi al 1910 e si aggiunge che essi vengono pubblicati postumi dal
Borgese con una Avvertenza:
Questi Ricordi di un impiegato sono l’ultima opera di Tozzi. La concluse pochi giorni prima di ammalarsi, la
cedette egli stesso a questa Rivista, e non ebbe poi altro tempo che di scrivere un breve articolo di critica
(apparso sull’Idea Nazionale il giorno dopo la morte). / L’esperienza autobiografica a cui accenna nel primo
capitolo del Podere è qui interamente svolta. L’arte vi è spesso, come ognuno vedrà, all’altezza del Tozzi
migliore, sebbene egli rimanesse insoddisfatto di molte cose e si riproponesse di rimettere le mani nel
manoscritto e di travagliare, com’era suo costume, le bozze. / Non ho potuto, naturalmente, sostituirmi a lui
in questa revisione. Mi sono limitato a scegliere fra una prima redazione dei Ricordi ed una seconda
allungata con l’inserzione di pagine tolte da un libro inedito di Tozzi e che vi rimanevano estrinseche. Ho
adottato la prima, valendomi, a ragion veduta, dell’autorità che mi diede il Tozzi morente nell’indicarmi di
dirigere la pubblicazione dei suoi scritti. A questa decisione sono stato incoraggiato dal consiglio e dal
41 Essi includono anche Assunta (1908), In campagna (1909-10), La madre (1910), La marchesa (1916) e
Ricordi di un impiegato (1910).
42 G. TOZZI, Nota, in F. TOZZI, Nuovi racconti, Firenze, Vallecchi, 1960, p. 213.
43 Ibid.
44 Ibid.
45 G. TOZZI, Notizie sui romanzi di Federigo Tozzi, in F. TOZZI, I romanzi, «Opere», vol. I, a cura di G. Tozzi,
Firenze, Vallecchi, 1961, p. 589.
consenso della vedova, che era a parte di tutte le intenzioni artistiche dello scrittore.
46
Dunque, secondo l'attestazione della vedova, la loro stesura dovrebbe risalire al 1910
circa, mentre il Borgese aveva dichiarato che Tozzi l'avrebbe finita «pochi giorni prima
d'ammalarsi». Inoltre nell'Avvertenza egli aggiunge di aver dovuto scegliere fra una prima
redazione dell'opera e una seconda allungata tramite l'aggiunta di pagine tolte da un altro
libro inedito di Tozzi nel quale «vi rimanevano estrinseche», scegliendo poi di adottare la
prima stesura. Dunque il racconto allora stampato deve essere attribuito al primo periodo
giovanile. Inoltre, va ricordato che, nella Premessa a Novale, la vedova parla di un «ultimo
rimaneggiamento» che vi avrebbe conferito l'impronta del periodo del Tozzi maggiore.
Il figlio Glauco, dopo aver pubblicato il testo integrale dell'opera, comunica che la
stesura originaria ha ricevuto una rielaborazione consistente «esclusivamente o quasi, di
aggiunte»
47
e segnalando la presenza di alcune «inesattezze» nell'Avvertenza del Borgese:
Anzitutto la parola “concluse” riferita ai Ricordi, può far pensare che l’opera, precedentemente, fosse restata
in tronco. Invece, dall’originale è evidente che la rielaborazione avvenne sì, ma nel modo sopraddetto, cioè
nel senso di arricchimento di una stesura già “conclusa” come trama o vicenda
48
Inoltre, al contrario di quanto sostenuto da Borgese:
non risulta siano mai esistite due redazioni materialmente distinte; ma ci fu solo un originale via via
arricchito, come è evidentissimo dai diversi tipi di carta e degli inchiostri e dai brani dattiloscritti mescolati a
quelli manoscritti. Quindi il Borgese operò in modo meno semplice: non seguì cioè una prima stesura distinta
da una successiva; ma cercò di riconoscere, nell’originale finito, i brani aggiunti, per eliminarli
49
Infine Borgese afferma che tali aggiunte consisterebbero in «pagine tolte ad un altro
libro di Tozzi, e che vi rimanevano estrinseche», ma, secondo Glauco, non è sicuro che
queste aggiunte siano state tolte da un altro ‘libro inedito’ e se così fosse, il Borgese non
poteva che pensare a Persone o Cose e Persone.
Molta parte della critica (tra cui Falqui, Ulivi, Debenedetti, più tardi Marchi,
Castellana, ecc.) si è soffermata sull’analisi di quest’opera per l’interesse suscitato dal
ripristino degli ampliamenti che erano stati espunti. Tali ampliamenti sono divenuti così il
46 G.A. BORGESE, Avvertenza in ID., Ricordi di un impiegato, «La Rivista letteraria», s. I, vol. II, maggio 1920;
ma la citazione è tratta dalla Nota ai testi in ID., Opere. Romanzi, prose, novelle, saggi, cit., p. 1347.
47 G. TOZZI, Notizie sui romanzi di Federigo Tozzi, in ID., I romanzi, cit., p. 589.
48 Ibid.
49 Ibid.
perno di un’interessante questione filologica apertasi negli anni Sessanta e che avrebbe
allontanato ogni dubbio sul presunto verismo tozziano. Se nell’edizione del 1920 Borgese
elimina le pagine che a lui appaiono «estrinseche» in funzione di un preciso significato
estetico, la critica di questi anni, invece, considera i Ricordi come un punto di arrivo
dell'esperienza giovanile di Tozzi, non di partenza, opponendosi a quei critici sostenitori di
un itinerario artistico tozziano svolto dal frammento al romanzo, nella direzione di un
graduale superamento dell’autobiografismo in favore del realismo.
Ne Il romanzo del Novecento Debenedetti passa in rassegna l’insieme dei tagli
effettuati nella prima edizione dei Ricordi di un impiegato, sottolineando che i tratti espunti
sono quelli in cui le informazioni funzionali all’azione vengono meno, fatta eccezione per il
passo datato 11 marzo e per quello del 19 marzo che vengono eliminati nonostante
contengano informazioni concrete.
50
Il primo include le riflessioni del protagonista sulla
rosa regalatagli dalla fidanzata
51
e, secondo Debenedetti, viene eliminato, più che per
ragioni estetiche, per ragioni umane e sentimentali; infatti l’espressione «averti avuta»
contenuta nel brano avrebbe potuto comportare un’interpretazione in direzione del
«significato che comunemente si dà ad essa, nei rapporti tra un uomo e una donna»
52
e
quindi il suo impiego avrebbe ridotto quel senso di un amore casto suggerito da tutto il
racconto. Secondo Debenedetti, poiché Borgese operò i tagli anche assistito dal parere di
Emma, allora anche la moglie dello scrittore potrebbe aver influito sull'eliminazione dei
tratti in cui il platonismo tra Leopoldo-Tozzi e Attilia-Emma
53
veniva meno.
50 Di seguito si elencano i tagli effettuati da Borgese così come Debenedetti li ha individuati ed esposti ne Il
romanzo del Novecento (pp. 142-147). Innanzitutto l’intero diario del 9 marzo, ovvero il celebre passo relativo alla
paura dell’ortolano e più in generale dello sconosciuto. Dell'11 marzo viene eliminato il tratto che va dal capoverso «Il
cipresso dell’orto, a mezzogiorno» fino a «Oggi ho bisticciato col gestore». Del 17 marzo viene espunto l’intero pezzo
che a partire da «La voce d’Attilia» fino alla fine; il diario del 18 marzo è soppresso per intero. Il 19 marzo esordisce
con il capoverso «Un’operaia di una manifattura», saltando l’inizio del diario da «Il fratello di mio padre» fino a
«Bisognerebbe che fosse vivo e giovane, invece!». Del 29 marzo è stato eliminato tutto il pezzo che va da «Certe notti,
dopo aver guardato il cielo stellato» fino alla fine del diario di quella giornata. Del 30 marzo Borgese elimina da
«Perché non ho voglia di alzare gli occhi se c’è già la luna?» fino alla fine. Infine vengono scartati gli ultimi due
capoversi del 5 aprile, da «I boccioli di rosa» fino a «più voluttuosi dei raggi del sole». Dal 6 aprile in poi non vengono
effettuati altri tagli.
51 Il passo in questione è il seguente: «Povera rosa d’Attilia, siamo rimasti io e tu soli. Io e tu come in una realtà
deserta e in solitudine; e nessuno pensa a noi. Ma noi due non ci possiamo dimenticare. / Tu tra le pagine del libro, che
di quando in quando apro per rivederti, ti sforzi di conservare il tuo colore che adesso pare sangue raggrumato. / Ma non
bisogna raccontare a nessuno, né di noi né della nostra storia così semplice che la crederebbero idiota. La nostra storia
consiste del resto nell’averti avuta e nell’averti amata sempre di più» (F. TOZZI, Ricordi di un impiegato, in ID., Opere.
Romanzi, prose, novelle, saggi, cit., p. 424).
52 G. DEBENEDETTI, Il Romanzo del Novecento, cit., p. 143.
53 Inoltre quando Glauco fornirà la copia integrale dei Ricordi in occasione della stampa dei Nuovi Racconti,
provvederà anche, nelle Notizie sui romanzi di Federigo Tozzi poste a chiusura del primo volume de I romanzi
(Vallecchi, 1961), ad attenuare la corrispondenza fra Emma e Attilia, precisando che tale personaggio femminile si
ispira alla futura moglie di Tozzi, ma con qualche venatura dell’amore giovanile dell’autore, ovvero Isola.
Nel tratto del 19 marzo,
54
invece,
il critico afferma che l'ambiguità ha sede nella parte
finale, quando, in una sorta di delirio allucinato, il protagonista riduce lo zio a delle palpebre
e ne associa la morte alla propria paura della malattia perché lui, invece, vuole «essere
54 Di seguito il brano: «Il fratello di mio padre stava in Mugello, e veniva a trovarci ogni tre o quattro anni; per
qualche giorno e basta./A sentirlo parlare mi annoiavo subito e guardavo soltanto le sue palpebre arrossate da una
infiammazione cronica. Egli raccontava che andava a lavarsele a una sorgente distante parecchie miglia dal paese; sopra
l’asino. L’acqua gliele guariva, ma poi peggioravano lo stesso. Mio padre gli diceva che non se le lavava abbastanza. /
Oggi mi scrivono ch’è morto, ma io penso soltanto alle sue palpebre; come se fossero restate vive. / Io non volevo che
mia madre mi dicesse che ero stato tante volte malato. Voglio essere sano. E, perciò, ora che è morto, non l’amo più
mio zio! Bisognerebbe che fosse vivo e giovane, invece!» (F. TOZZI, Ricordi di un impiegato, in ID., Opere. Romanzi,
prose, novelle, saggi, cit., p. 433).