In un mondo tanto piccolo in un universo tanto grande quali sono i nostri,
esistono migliaia di lingue e migliaia e migliaia ne sono esistite.
Questa è una tesi sul come possono e come non possono che comunicare queste
lingue tra loro, ed attraverso loro noi, che siamo i mezzi per loro d’essere, e
viceversa.
E non solo.
Non soltanto sul linguaggio del verbo, ma circa ogni linguaggio possibile. Ed
anche circa quello impossibile, ma a cui bisogna che tutti tendiamo, ovvero ad un
linguaggio unico che non si trova all’origine [che l’origine non esiste, è un anello
staccato dal resto della catena, è un attimo che è andato, tornato all’origine
appunto e che dunque più non è, è un qualcosa a cui non più volgersi, ma
volgersi al suo diametrale contrario: all’allontanarvisi, all’avanti] bensì si potrà
trovare solo alla fine, alla fine della costruzione della Torre di Babele che per
definizione è infinita, oltrepassa il cielo, lo attraversa, e che per sfida, per tensione
vitale (di movimento e mantenimento, della vita) non possiam far altro che
continuare a costruire, sempre più in alto, sempre più caotica, sempre più
impossibile e proprio per questo possibile, sempre più vite, sempre più vita.
Poiché l’unico stato che ci governa è il caos, l’unico linguaggio che possiamo
parlare nell’universo sono i linguaggi tutti dell’universo, l’unica evoluzione che
possiamo perpetrare è la rivoluzione e l’unico limite che non ci può oltrepassare è
il cielo, e ogni altro limite lo stesso.
Rivoluzione, si.
Questa tesi si fonda sulle riflessioni d’una vita e sui riflessi di due libri:
“After Babel” di George Steiner e “The Translingual Imagination” di Steven G.
Kellman
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, polieuropeo il primo strettostatunitense il secondo, due punti di vista
differenti su due punti diversi, ovvero sempre in ordine la traduzione e il
translinguismo.
I due punti poi si incrociano, si intrecciano, si mescolano e migrano l’uno
nell’altro, come da codice genetico e linguistico di questo elaborato, e generano
punti che non necessariamente appaiono nei tempi, luoghi e soprattutto modi
previsti, con le cicatrici dell’origine, del background qui polieuropeo e lì
strettostatunitense, ma vanno molto oltre.
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Tutti i riferimenti a questi due autori nel testo sono tratti da questi due volumi. Ulteriori
citazioni da altri autori privi di nota sono rincontrabili & riconducibili e ai medesimi due volumi.
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Oltre ad arrivare e ad essere traslati, tradotti, recepiti e rielaborati, ricevuti e
ritrasmessi, strozzati e fatti rinascere da me in questa tesi.
Da essi traggo punti, spunti, che estraggo e astraggo, attratti a tratti e ad altri
respinti. Riformulati. Accolti, Riformulati ancora. Ed ancora.
A questi due e a me s’aggiungono altre rivoluzioni, di rivoluzionari veri di cui la
tesi è piena e il mondo un po’ meno, ma ne ha più bisogno d’essa.
C’è dialogo, tra tutti, ed io parlo e mi faccio parlare da tutti, tutti passano
attraverso me e viceversa, cosicché riscrivo (traduco) verso chiunque altro sia in
ascolto, sia sintonizzato, e cioè potenzialmente tutti, lembi di mare, terra, vita,
pensiero di questi rivoluzionari e ne faccio humus, DNA del testo, che è vivente,
vivo; dialogo totale che poi è l’obbiettivo, l’ursprache all’interno d’un tunnel pur
luminoso allontanatesi dall’origine, dal buio della non diversificazione, della non
vita; che è la benedizione di Babele, che squarcia il velo dell’unica lingua
originaria ad omologare e dunque appiattire, schiacciare, annichilire, cancellare
tutte le differenze di tutti gli esseri umani e inverte la rotta, dallo sprofondare
nella finitudine dura e meno dura della terra al tendere verso l’infinito meno e
meno palpabile del cielo, verso la diversificazione, verso la comunanza delle
diversità, e alla sua vitale forza.
E’ questo un testo che tende sino ad oltre gli uomini stessi, oltre a dio dunque,
che dagli uomini è stato creato e dunque è meno potente, è in effetti degli uomini
debolezza. Tende oltre il linguaggio stesso dell’uomo, la sua espressione e la sua
affermazione.
Tende, questo testo, a qualcosa di più importante dell’uomo in sé per sé e ovvero
all’affermazione dell’esistere dell’uomo, e del suo esprimere, ovvero al comunicare
questo all’altra, alla donna. E viceversa. E quella donna a un altro uomo, e poi ad
un’altra donna ancora, ciascuno nel suo linguaggio e ciascun ponte tra due (o
più) una traduzione (e più), una traslazione, un attraversamento. Il linguaggio,
proprio come vita, fatto per essere attraversato, per essere tradotto, per essere
trasmesso. Questa tesi è questo. Questa tesi è Babele.
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II. Βαβέλ , Βαβυλών
Errore.
Ho pensato a spostare subito il centro, il baricentro del mio punto fisso, di vista,
di fuga, e di smuovermi, di muovermi, di muovere dal punto di partenza ed
avanzare, andare avanti.
Essendo romano, ed essendo legato (almeno alla mia origine, almeno nei primi
momenti quanto a concepimento, - suppongo - e venuta al mondo - so - e allo
stato in luogo attuale e a cui più volte faccio ritorno, o meglio, preferisco dire, a
cui vado, che il ribattere su un passo battuto è un altro errore, oltre che
un’impossibilità, come “già” Eraclito da Efeso) a Roma ne vedo l’importanza
fondamentale, più nell’accezione riferentesi alle fondamenta nello sviluppo della
moderna civiltà euroccidentale tutta e a tratti, a tracce, non solo, con meno o più
permeazione là e qui nelle arti, nelle scienze, nei popoli, nei linguaggi.
Eppure.
Ho scartato a destra.
Non sorpassato, non un’infrazione, un errore sul codice stradale, ma un errore
sul codice genetico, o almeno sul mio stato in luogo, o almeno del mio stato in
luogo originario.
Ho spostato il puntatore, il punto, il centro un po’ più a destra, di lato.
E ponte immaginario su lembo di mare, o ancor meglio a nuoto, ma senza affanno
che il passo è breve, un unico passo a destra, sono arrivato in Grecia.
Ho pensato alla stessa come vera origine, vero centro dell’euroccidentalità che è
permeata poi un po’ tutta da questa diffusamente riconosciuto punto di partenza
dell’Europa e dei suoi figli bastardi nell’accezione positiva ma soprattutto negativa
del termine (dalla colonia più piccola agli Stati Uniti d’America. Ma anche
dall’inglese all’India. I passi sono eccezionalmente brevi e le ferite estremamente
profonde), per cominciare.
Ho provato a decentrarmi, decolonizzarmi dal mio essere in origine e dal mio stato
in luogo.
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D’altra parte se tutte le strade portano a Roma tutte le strade porteranno via da
essa, ed ovunque (essendo esse tutte), e d’altrancora parte dovevo cominciare con
un passo senza il quale non poteva essercene un altro, e senza il quale non può
esserci un primo, dunque passo alcuno, dunque morte che è staticità che è
morte…. l’alterità, questa sconosciuta (d’ennesima parte siamo all’inizio, tu ed io
che siam altri l’un l’altra in questa tesi), ed essendo transitivamente io
sconosciuto ad essa voglio conoscerla. Questa è la comunicazione: voglia di
conoscenza. E questa è vita.
E dunque ho usato il greco, per dar primo titolo a questo primo capitolo di due
parole non originariamente (niente è originario, tutto è tendere a, come vedremo)
elleniche.
Babele, Babilonia.
Errore.
Non è l’inizio di niente.
Atene. Come non lo è Roma.
In nessun senso. Neppure della tesi, che si apre prima ancora con una citazione
dall’Antico Testamento circa la Torre di Babele ed è un errore - voluto - anch’esso,
in quanto ho eretto la torre, intesa come tesi, con la citazione eretta in cima ad
essa [o alle fondamenta, secondo l’alterità, la diasistemicità che è alla base di ogni
torre, Babele e tesi comprese] non per erigere ed onorare una citazione biblica di
tanta autorevolezza. Ma proprio per il suo contrario, come ribaltamento della
torre.
Le origini del nostro euroccidente, del cristianesimo, dell’anno zero di me, della
tesi, di te [probabilmente] che la stai leggendo poste come ultimo problema,
ultimo punto, ultimo punto all’orizzonte.
Annichilite. Anticristo. Antizero. Antitutto.
E adesso il solco è più grande d’un lembo di mediterraneo, il passo è più grande.
D’altra parte Cristo era tutt’altro.
Cristo era nero, fermandoci per un attimo ed andando indietro [non tornando, e
su questo non torno], non bianco e biondo come la società euroccidentale
infettata e infestata dalla santa romana chiesa ci ha spinto, venduto; così come
nera era Atena, a seguire la teoria dello studioso dello studioso angloirlandese
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Martin Bernal esposta nei tre volumi “Black Athena”, che ci porta piuttosto
ulteriormente sulla retta via, proponendo uno spostamento della nostra
(euroccidentale, mia, tua &c.) visione d’orizzonte, baricentro, verso una proposta
afroasiatica dell’origine di Atena & di Atene.
Atene & Roma.
Nel passaggio della sfera - d’influenza - e dunque di consegne del ruolo di centro
dell’euroccidente da Atene a Roma, cosa poteva garantire che l’uomo non fosse
privato della saggezza e del profitto culturale maturato ad Atene, e venuto da
oriente, ora che il passo verso occidente e contrario a quello fatto da me da Roma
ad Atene veniva fatto?
Come traghettare Atene a Roma, oltre che per mare? Quale Caronte?
Alle seconde domande la risposta è: il linguaggio.
Alla prima: la traduzione:
Roma divenne un immenso e inesausto polo a raccogliere migliaia di traduttori
delle opere delle arti e delle scienze delle polis. Qui e ora c’è forse a ben vedere un
gioco di parole, lì a quel tempo certamente si faceva sul serio.
Quello fu il primo passo sistematico, come della sistematicità di costruzione d’una
torre, di babelizzare ovverosia di affrontare un processo di traslazione, trapasso
(in accezione del tutto vitale piuttosto che il contrario!), di traduzione dell’humus,
del DNA, del background, delle fondamenta da una torre a un’altra, da una civiltà
a un’altra, da un alfabeto a un altro, da una lingua a un’altra, da un’altra ad una
sponda diversa di unico, medesimo mare.
Etemenanki.
Che si potrebbe essere da me o di per sé indotti, ve lo leggo negli occhi di voi che
leggete, a pensare come ‘Errore’ in un’altra lingua.
Errore.
Etemenanki non è errore, come in principio di capitolo.
Etemenanki è in principio.
In principio era Etemenanki.
E – temen – an – ki
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