13
Con caratteri analoghi, l’aria entrò nel melodramma, ma qui, in un
primo momento, condizionata dalle esigenze dell’azione, dovette
rinunciare all’andamento strofico e perdere i connotati di forma
chiusa.
Ma ben presto, già nell’Euridice di Jacopo Peri (1561-1633) e in quella
del Caccini (entrambe del 1600), si vedeva la distinzione fra il “recitar
cantando”, che poi si evolverà nel declamato e nel recitativo, e la
necessità di periodi musicali strofici.
In Orfeo (1607) di Claudio Monteverdi (1567-1643) compare il primo
nucleo dello schema tripartito (“Possente spirito” aria del Prologo),
che diverrà poi tipico dell’aria italiana.
Attestazioni tanto precoci dimostrano quanto fosse sentita la
necessità di separare le fasi narrative dell’opera da quelle di più
intenso abbandono lirico ed affettivo, queste ultime diventano
proprie dell’aria.
Nel corso del 1600 incontriamo due tipi di schema di aria, il primo è
di tipo A-A, con la prima parte che si ripete invariata, oppure A-B
con la seconda parte differente dalla prima.
Successivamente, soprattutto con Alessandro Scarlatti (1660-1725), si
afferma lo schema tripartito A-B-A
1
, la cosiddetta aria col da capo,
dove l’ultima parte, di solito, veniva liberamente variata
dall’interprete, anche per dare sfoggio delle sue abilità vocali.
Questa tipologia fu usata con grande effetto da Georg Friedrich
Handel (1685-1759); già pratica comune ai tempi dei libretti di
Apostolo Zeno (1668-1750), dal punto di vista poetico, strutturale e
funzionale venne portata al massimo livello artistico da Metastasio
(1698-1782).
La stretta applicazione delle regole da lui formulate fece sì che
nessun cantante potesse avere due arie di seguito, che ciascun
personaggio primario potesse arrivare ad averne cinque (ognuna di
genere diverso).
Con il sempre maggior peso che assunsero i virtuosismi dei cantanti,
dalla fine del 1600, il recitativo perse importanza e le opere liriche si
ridussero ad essere una mera successione di arie.
La riforma metastasiana ridefinì l’equilibrio fra momento narrativo
ed abbandono lirico, ma lasciò inalterato il modello di aria, pezzo
chiuso, avulso dall’azione ed occasione di canto.
Furono messi in atto diversi tentativi per cercare di ovviare alla
convenzionalità dello schema, fino a che, a poco a poco, si giunse al
modello costituito da recitativo - aria – cabaletta, che, solo abbozzato
nel 1770, fu comunemente impiegato da Mozart (1756-1791) e giunse
14
al trionfo con Bellini (1801-1835), Donizetti (1797-1848) e con il Verdi
(1813-1901) della prima maturità.
Con l’opera e la riforma di Wagner (1813-1883), il melodramma si
affranca dall’aria e da qualsiasi altro pezzo chiuso, in nome della
fluidità dell’azione e dell’unità del dramma.
Anche se non mancano numerose “riesumazioni” dei vecchi modelli
di aria, persino nello stesso Wagner (“Il canto della Primavera” di
Siegmund), che dimostrano la perenne funzionalità, sia
drammaturgia che espressiva del pezzo vocale “chiuso”.
Prime attestazioni
Il termine ha per lungo tempo definizione vaga; viene impiegato per
indicare sia il testo di una composizione poetica posta in musica, sia
la melodia, sia entrambi gli elementi considerati nel loro insieme.
Con l’affermarsi del melodramma, si pone l’accento sull’elemento
vocale dell’aria e si usa la parola per indicare un “pezzo chiuso”
dell’opera lirica, in cui solitamente si ha slancio lirico ed affettivo.
Baldassare Castiglione (1478-1529) “Il Cortegiano” (composto fra il
1513 e il 1518, pubblicato nel 1528):
“…è il cantar alla viola, perché tutta la dolcezza, consiste in uno solo,
e con molta maggiore attenzione si nota e intende il bel modo e
l’ARIA.”
In questo caso con “aria” si intende l’andamento musicale della
composizione poetica.
Analogamente il termine è presente in Vincenzo Galilei, 1581:
“Il Dithyrambo era una forma di canzone in lode di Bacco, di che fu
autore Arione (…); l’ARIA della quale (…) che rappresentava i così
fatti, si costumavano per ciò tutte di fare (per quant’io mi stimo) in
Tuono concitato.” (pag. 78).
Alessandro Guidotti (XVI - XVII), Prefazione alla rappresentazione di
Anima e Corpo, di Emilio de’Cavalieri, in particolare la parte A’ Lettori,
1600:
“(…) e che l’ARIE e le musiche non siino simili, ma variate con molte
proporzioni, cioè triple, sestuple, e di binario, et adorne di echi e di
invenzioni più che si può.” (Solerti 1903, pag. 6).
Qui l’autore allude al testo dell’aria che verrà cantata; a conferma di
ciò, in precedenza, aveva distinto fra aria cantata e aria sonata.
15
Jacopo Peri (1561-1633) Dedicatoria e prefazione a Euridice, in
particolare la parte Ai lettori, 1600:
“(…) Giulio Caccini (detto Romano) il cui sommo valore è noto al
mondo, fece l’ARIE d’Euridice et alcune del Pastore e Ninfe del Coro.
(…) e questo perchè dovevano essere cantate da persone dependenti
da lui” (in Solerti 1903, pag. 48).
Anche qui il riferimento è alle musiche delle arie.
Martello 1714:
“E visto primieramente dove la forza, dove la tenerezza, dove i
recitativi, dove l’ARIE più convenissero; dove il soprano, dove il
basso, dove il contralto e il tenore per la legatura ed intrecciamento
di una perfetta armonia dovessero fare maggior figura.” (pag. 278-9).
Qui, invece, l’autore si riferisce all’aria come elemento fondamentale
del melodramma.
Gian Vincenzo Gravina (1664-1718) Della Tragedia 1715:
“Nei ridicoli drammi del presente, infimo teatro distinguiamo il
recitativo da quello che chiamiamo ARIE.” (PM 1994, pag. 9).
Ancor più evidentemente, qui si tratta dell’aria del melodramma,
contrapposta, “classicamente”al recitativo; la dicotomia fra le due
forme è molto antica; come detto l’aria sanciva un momento di stallo
dell’azione e di approfondimento psicologico e sentimentale, mentre
al recitativo erano legati lo svolgersi degli avvenimenti e la loro
coerenza logica.
Marcello 1720:
“Se i metri dell’ARIE non piacessero al maestro di musica, gli
cambierà subito, introducendo ancora nell’ARIE a capriccio del
medesimo: venti, tempeste, nebbie, Sirocchi, Greco Levante,
Tramontana, etc. Molte delle ARIE dovranno essere lunghe a segno
che alla metà di esse non si ricordi più del principio.” (pag. 28).
Anche qui la parola è considerata relativamente al melodramma;
l’autore polemizza con la tendenza ad allungare a dismisura le arie
musicali e gli slanci lirici fino a generare fastidio ed insofferenza.
Raniero Calzabigi (1714-1795) “Dissertazione sulle poesie drammatiche
del signor Abate Pietro Metastasio”, 1755:
“… ne avvien che i recitativi francesi odorano molto delle loro ARIE,
e le loro ARIE de’loro recitativi.” (Bonomi 1998, pag. 233).
16
Raniero Calzabigi (1714-1795), Lulliade o i buffi italiani scacciati di
Parigi (1753-89):
“Per far maggior rumore, anche nella tragedia lirica italiana, in vece
di finirsi gli atti co’ duetti, o con ARIE, come altre volte, si è introdotto
l’uso di terminarli con quartetti, quintetti, e pur anche finali, come
alle opere buffe.” (PM 1994, pag. 166).
Antonio Planelli (1747-1803) Dell’opera in musica, 1772:
“L’ARIA nasce dal recitativo, come il germoglio dalla radice.” (TB
1861-1879).
Saverio Mattei (1742-1795) Elogio dello Jommelli, o sia il progresso della
poesia e della musica teatrale, 1775:
“L’altro insegnamento si fu quello di non trasportare con repliche i
versi delle ARIE, prima di riferirli tutti (…)”. (PM 1994, pag. 153n.).
Mancini 1777:
“Le ARIE semplici, alcune diremo escite, altre ingressi, altre medie.”
(PM 1994, pag. 129).
Saverio Bettinelli (1718-1808) Discorso sopra la poesia, 1781:
“[La poesia] là scorre libera variando il passo e le pause dello sciolto,
leggera e cantabile in ARIE e canzoni.” (Bonomi 1998, pag. 185).
Giuseppe Baretti (1719-1789) An account of the manners and costums of
Italy”, 1765:
“His AIRS, duo’s and chorusses run into music with surprising
facility…” (Bonomi 1998, pag. 193).
Giambattista Velo (1752-1819), Del carattere nazionale del gusto italiano,
e di quello di certo gusto dominante in letteratura straniera, 1786:
“Tali cadenze, ed intervalli di voce (…) sono in lui [nell’Italiano] per
modo marcati, e distinti, che presso niun’altra nazione nell’ARIE, e
nei Recitativi dell’Opera la Musica così può accostarsi ai tuoni della
declamazione naturale.” (Bonomi 1998 pag. 254).
Saverio Bettinelli (1718-1808) Dialoghi d’Amore Dialogo XIII, 1796:
“Tra le ARIE che meritano questo suggello di immortalità…” (Bonomi
1998, pag. 243).
17
Dizionari
Il lemma è presente in Brossard 1703, che si limita a sottolineare la
scansione ritmica ben marcata dell’aria:
“ARIA: veut dire AIR, ou CHANSON. C’est a dire un chant dont le
mouvements sont justes & egaux, & les temps, sur tout le premiers
de chaque mesure, bien marques; & cela presque toujuors un peu
vite & gaiement, puorveu qu’il n’ait pas quelque term comme aria
larga, ou affettuosa, ecc; qui le demande autrement.”
Villanuova 1797-1805 continua a riferire “aria” sia alla musica, sia al
testo cantato della composizione, senza accennare al melodramma:
“Aria: Termine musicale. Canzonetta in musica, o messa in musica.
Arietta. Aria allegra, dolce, armoniosa, sonora, riposata, dolente, ecc.
Dicesi anche della musica medesima, sulla quale si cantano le arie.”
Tramater 1829-1840, sottolinea il fatto che l’aria venga eseguita da
una “voce sola”:
"Aria: (mus.) Pezzo di musica a voce sola composto di un certo
numero di frasi legate singolarmente, e simmetricamente,
terminando per lo più nello stesso tuono in cui si ha cominciato.”
Successivamente riprende l’accezione di musica che accompagna le
arie:
“In generale la musica medesima sulla quale si cantano l’arie.”
La citazione di Francesco Redi (1626-1698), Bacco in Toscana, 1666,
chiaramente si riferisce a quest’ultima accezione di aria:
“I poeti provenzali doveano comporsi l’arie sulle quali cantavano le
loro rime.”
TB 1861-1879, come prima definizione riprende quella di Villanuova
1797-1805.
La successiva citazione di Benedetto Varchi (1503-1565), “Ercolano”
1570, si riferisce ad “aria” intesa come la musica che accompagna un
testo cantato:
“Non si ricordava delle proprie parole di quei versi, ma aveva nel
capo il suon di esse, cioè l’ARIA e quello che noi diciamo l’andare.”
Più oltre lo stesso Tommaseo si riferisce esplicitamente al
melodramma:
“[T]: La parte cantabile del dramma musicale, o della Cantata; per
una voce sola, o con tramezzo di cori, o senza, e si distingue dal così
18
detto Recitativo. In questo senso comprende la musica e le parole.”
Broglio 1897 definisce il lemma in relazione al melodramma:
“Aria: (Term. mus.) pezzo cantato da uno solo. - Aria della donna,
del baritono, del tenore.”
I dizionari novecenteschi consultati, riportano tutti il lemma nella
sua accezione musicale e contemplano il suo carattere sia vocale, sia
strumentale.
Garzanti 1965, Zingarelli 1984, Palazzi-Folena 1992 e GRADIT si
riferiscono esplicitamente al melodramma; vengono inoltre definite
alcune locuzioni quali aria di baule, di sorbetto (Palazzi-Folena 1992), di
bravura (Garzanti 1965, GRADIT).
Locuzioni:
- AD ARIA
Significa “ad orecchio”, vale a dire, cioè, cantare o comporre senza
assoggettarsi alla musica scritta.
Giulio Caccini (1550-1618), Dedicatoria e Prefazione alle Nuove
musiche 1601:
“Il perché dovendo io per una certa mia esperienza dell’arte,
pubblicare alcuni pochi miei Madrigali et canzonette composte AD
ARIA, le raccomando…” (Solerti 1903, pag. 54).
Locuzione presente in Villanuova 1797-1805, Tramater 1829-1840, TB
1861-1879 e Crusca 1863, in quest’ultimo:
Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (1503-1584), Rime, 1741-2:
“Cantano A ARIA come disperati, e della zolfa non intendon cica.”
Fagiuoli 1729 – 1734:
“Che talora qualche arietta, la più grata, più acclamata, ei l’impara, e
poi spedita la ricanta così A ARIA. “
- ARIA BIPARTITA
Si compone di due movimenti, ed aveva lo scopo di opporre due
sentimenti fra loro contrastanti. Era il genere di aria prediletto da
Metastasio.
19
- ARIA TRIPARTITA
Evolve da quella bipartita, e si articola su uno schema recitativo –
aria - cabaletta: il recitativo è il tempo d’attacco e prepara
l’ambientazione, segue l’aria, in cui abbiamo lo slancio lirico o
contemplativo, ed infine la cabaletta, dal ritmo vivace, e
caratterizzata da canto brillante.
Questo tipo di schema è tipico di Bellini, Donizetti e della prima
produzione di Verdi.
Ulteriore evoluzione è l’introduzione di un breve recitativo fra l’aria
e la cabaletta: in esso viene introdotto o un nuovo personaggio, o una
perplessità del protagonista in scena, che, comunque, inseriscono un
elemento nuovo, la reazione al quale è affidata alla cabaletta finale.
- ARIA CANTABILE: si tratta dell’aria d’opera.
Lettera di Metastasio (1698-1782) a T. Filipponi del 6 dicembre 1751:
“Il Re Pastore cantato da dame e cavalieri, senza la maggior parte
delle noiose superfluità rammentate, con una sola ARIA CANTABILE,
con duetto.” ( PM 1994, pag. 160).
- ARIA CAVATA
La locuzione, presente in Giuseppe Gaetano Salvadori Della poetica
toscana dell’uso, 1691, indica un’aria “Ricavata dal musicista entro il
flusso del recitativo.” (PM 1994, pag. 38).
Potrebbe anticipare quella che sarà, in seguito, la cavatina (v.)
- ARIA COL DA CAPO
Si tratta di un’aria composta da due parti, in cui la seconda riprende
la prima; è stata il momento centrale dell’opera lirica europea per
tutto il XVIII, e dava al cantante la possibilità di dare sfoggio dei suoi
virtuosismi, secondo la convenzione che gli permetteva di variare a
suo piacimento la ripresa (cioè la seconda parte, il “da capo”).
- ARIA DA CONCERTO
Nel XVIII secolo, questo tipo di aria veniva inserito in una data opera
da un compositore diverso fa quello dell’opera stessa, allo scopo di
adattare un ruolo alle qualità particolari dell’interprete che si aveva
disposizione, o per ampliare una parte dando così risalto a qualche
celebre cantante ingaggiato.
Spesso queste arie “isolate” sono diventate assai più celebri delle
opere che le contenevano, perché scritte da compositori più noti, e
perché, essendo concepite per mettere in risalto le qualità del
cantante, sono, di solito, particolarmente brillanti.
20
Fra le più note, quelle scritte da Mozart: “Popoli di Tessaglia”, “Mia
speranza adorata”, “Vorrei spiegarvi”.
- ARIA DI SOSTITUZIONE
Analoga all’aria da concerto, ma composta dallo stesso autore
dell’opera, sia per adattarla ad un interprete, sia per variare la trama
drammatica (ad esempio, cambiando un finale tragico con uno lieto).
-ARIA DI BAULE (anche “pezzo di baule”)
Si tratta di arie adattabili ad un certo numero di situazioni
operistiche tipo, che i cantanti amavano portare con sé per utilizzarle
a proprio piacimento, specialmente in riprese di opere alle quali non
fossero presenti i compositori.
Precisa definizione di questo costume in Martello 1714:
“Fatti ben animo a cangiar l’arie non cattive in cattive: se un musico o
se una musica vorranno al piè di un tuo recitativo conficcarne una
che abbia guadagnato loro l’applauso in Milano, in Vinegia, in
Genova o altrove, e sia pur lontana dal sentimento, lo quale
dovrebbe ivi esprimersi, che importa?” (pag. 291).
Stendhal 1824:
“De là vient l’usage si commun en Italie pour les chenteurs du
second ordre (et bien souvent du primier) de voyager avec des AIRS
appelés DI BAULE (de bagage, qu’on porte avec soi comme un
vetement).
Quelque musique qu’un maestro compose et donne à chanter à ses
artistes du second ordre, ils trouvent toujours le secret d’y placer, en
tout ou en partie, leurs airs de BAULE, ce qui fait un sujet éternel de
plaisanterie dans les théatres d’Italie.” (pag. 381).
Il curatore dell’edizione, Professor Pierre Brunel, aggiunge,
relativamente a ciò, in nota:
“Usage ancien dont H. Prunières trouve déjà la trace en 1702 dans le
Parallèle de la musique italienne et de la musique française de l’abbé
Raguenet: <<Quand l’entrepreneur d’un opéra a rassemblé sa troupe
dans quelque ville, il choisit pour sujet de son opéra la pièce qui lui
plait comme Camille, Thémistocle, Xerxès, etc. Mais cette pièce n’est
(…) qu’un canevas qu’il stoffe des plus beaux airs que savent les
musiciens de sa troupe: car ces beaux airs sont des selles à tous
chevaux.>>” (pag. 562).
21
Vincenzo Bellini (1801-1835), lettera a Francesco Florimo (1800-1888),
del 5 aprile 1828:
“Provò la cavatina con l’orchestra, ed avendola cantata da cane (…)
ne voleva un’altra (…) e che se io non gliela cambiavo ella avrebbe
posto de’ suoi PEZZI DA BAULE.” (Budden 1973, volume I, pag. 561n).
ARIA DI BRAVURA, SPOLVERO, e simili.
Aria che il cantante canta con gran smalto, per mettere in luce le sue
doti vocali.
Algarotti 1755:
“Ariette chiamatasi nello scorso secolo le vere ARIE, anco DI BRAVURA
composte sulle due strofette, che si veggono ne’ drammi di
Metastasio in fin di scena.” (Tramater 1829-1840, e TB 1861-1879).
Vincenzo Manfredini (1737-1799) Difesa della musica moderna e dei suoi
celebri esecutori, 1788:
“Arie chiamate ARIE DI BRAVURA.” (PM 1994, pag. 128).
Presente anche in diverse epistole di Metastasio.
Broglio 1897 riporta ARIA DI SPOLVERO:
“Quella in cui il cantante mostra la sua abilità, e gli procura molti
applausi.”
ARIA DI FURORE
All’origine la locuzione (che esiste anche in francese come air de
fureur, e in tedesco, Rache aria) indicava un’aria in cui venivano
espressi sentimenti di ira e sdegno, allo stesso modo in cui si hanno
arie “di sonno”, “di lamento” e simili.
In seguito, grazie alla popolarità ottenuta, questo tipo di aria divenne
il luogo scelto dai cantanti, per sfoggiare la propria abilità vocale.
In quest’ultima accezione, la locuzione è presente in Crusca 1863:
Aria di furore: “Aria che cantasi sul teatro con gran forza, e nella
quale il cantante può dare sfoggio della sua voce, e come dicesi far
furore.”
Pananti 1808:
“Quei l’aria a solo vuol, questi coi cori,/ quei l’ARIA DI FURORE a
orchestra piena.” (Crusca 1863).
E:
“ Aria che un cantante può cantare con la massima foga, per dare
sfoggio della propria voce.” (GDLI).
22
- ARIA DI SORTITA
Aria che canta il personaggio al suo primo apparire sulla scena.
- ARIA DEI SORBETTI
Si intende un’aria di scarsa importanza, cantata da un personaggio
secondario, che si può quindi ascoltare distrattamente, magari
mangiando un gelato.
La locuzione presente in TB 1861-1879 , Crusca 1863, GDLI.
TB 1861-1879: “aria teatrale di niuna importanza, cantata per lo più
da una seconda parte; era così detta perché durante la sua esecuzione
gli spettatori distraevansi passando nella bottega del caffè , o
facendosi portare sorbetto od altro simile nei palchi.”
Crusca 1863: “Si disse [aria dei sorbetti] l’aria che era cantata in teatro
da qualche cantante secondario, perché era invalso il costume che gli
astanti, mente questi cantava, si refrigerassero coi sorbetti, stimando
tempo perduto l’ascoltare.”
Pananti 1808:
“E l’altra non vuol l’ARIA DEI SORBETTI.”
GDLI: “aria di poco interesse, cantata da un cantante di
second’ordine. (Che si può quindi ascoltare distrattamente, anche
gustando un sorbetto).”
Oltre al già visto Pananti, anche Ugo Ojetti (1871-1946) Alla scoperta
dei letterati, 1895:
“Quelle arie e ariette dei virtuosi, che nel settecento e nel primo
ottocento gli auditori chiamavano ARIA DEL SORBETTO perché
segnavano il momento d’andare in fondo al palco a sorbirsi tranquilli
un gelato.”
Anche: aria di paccottiglia, con significato analogo.
- ARIA DI CATALOGO
È un’aria tipica dell’opera buffa, che ha origine nella commedia
dell’arte, e consiste in un elenco, di solito molto rapido,
comprendente una serie di cose, varie e strane; l’esempio più famoso,
una parodia vera e propria di questa convenzione, è l’aria in cui
Leporello fornisce il catalogo delle conquiste del suo padrone
(“Madamina il catalogo è questo”), nel Don Giovanni, di Mozart del
1787.
23
- ARIA DOPPIA
Genere di aria ideato per rispondere all’esigenza dei cantanti di
sfoggiare la loro versatilità: questa consisteva in due arie di genere
contrastante (per esempio lirica e drammatica) apparentemente
distinte, ma in realtà, saldate fra loro.
- ARIA FREDDA
La locuzione, presente in Martello 1714, vuole indicare le arie che,
diversamente a quelle “d’ingresso” e “di escita” non riescono a
trasmettere calore ed emozione al pubblico. (PM 1994, pag. 43n).
MEZZ’ARIA
La locuzione si trova nell’appendice di La Catena di Adone, 1626 di
Virgilio Mazzocchi (1597-1646), ed indica un arioso, posto alla fine di
un lungo recitativo. (PM 1994, pag. 37).
Presente anche in Marcello 1720:
“(…) e non baderanno all’opera ne pure alla prima sera, toltone che a
qualche MEZZ’ARIA della prima donna, alla scena dell’Orso, ai Lampi,
alle Saette etc.” (pag. 90). Qui, anche alla luce del tono ironico che
viene usato dall’autore, probabilmente “mezz’aria” indica solo un
frammento della composizione.
GRAND AIR e PETIT AIR si tratta delle due specie di arie d’opera che
identifica Jean Jacques Rousseau (1712-1778) nel suo Dictionnaire de la
musique (1767):
La forms des airs est de deux espèces. Les petits airs sont
ordinairement composés de deux reprises, qu’on chante deux fois;
mais les grands airs d’opéra sont le plus souvent rondeau.”
(PM 1994, pag. 100n).
24
Arietta
Pezzo vocale di andamento strofico e ballabile, simile all’aria, ma di
minori proporzioni, dapprima cameristica, fu introdotta nell’opera
italiana da Giovanni Bononcini (1670-1747) e nell’operà comique
francese da Pierre-Alexandre Monsigny (1729-1817) e André-Ernest-
Modeste Grétry (1741-1813).
Nelle prime opere francesi l’arietta era un brano ricco di coloriture su
testi in italiano, poi, dopo il 1750, divenne un genere di canzone
francese contenuta nella Comédie melée d’ariettes, mentre l’air aveva
forma diversa.
La definizione del lemma, storicamente, rileva le stesse
problematiche viste per “aria”; il termine si trova ad indicare sia il
componimento poetico, che la melodia che accompagna il medesimo,
e non mancano autori che si limitano a considerarlo un mero
diminutivo di aria.
Molto precocemente al lemma si associa un’idea di vacuità e
leggerezza rilevata, con fastidio, da diversi scrittori.
Prime attestazioni
Buonarroti il Giovane 1618:
“ ‘Ntonando un’ARIETTA all’improvviso/ che le ‘nviti alla Fiera.”
(GDLI).
Qui il termine è inteso in maniera vaga, vuole alludere ad una
canzonetta, ad un motivetto improvvisato.
Doni 1640-1647:
“Alcuni pastori... sogliono d’un subito cantare d’accordo un’ARIETTA
o canzone, senza usare prima fra loro qualche preambolo o invito.”
(GDLI)
Anche qui la definizione non è precisa e specifica, ed arietta viene
considerato un mero sinonimo di canzonetta.
E:
“Siccome la melodia de’ canti scenici ha degenerato per la maggior
parte in ARIETTE, o canzonette, così quella de’ cori si vede esser
tramutata in balletti”. (TB 1861-1879).
Qui l’autore sembra già riferirsi al melodramma, ma non ancora ad
una forma di arietta con canoni propri.
25
Doni 1640-1647, capitolo IX:
“Conviene però sapere che quelle melodie sono molto differenti
dalle odierne che si fanno in istile comunemente detto recitativo ,
non essendo quelle altro che ARIETTE con molti artifizi e ripetizioni,
echi e simili….” (Solerti 1903, pag. 209).
Nonostante l’accenno al recitativo, Doni, non intende ancora parlare
dell’arietta come elemento del melodramma; seguitando la lettura si
comprende come le ariette a cui si riferisce siano semplici canzonette.
All’arietta come elemento codificato del melodramma si riferiscono,
invece:
La prefazione all’edizione napoletana di Rosmene
1
, 1709:
“Il mutar delle ARIETTE era inevitabile a cagione del metro, privo
dell’intercalare, che va usato oggidì da’ compositori di musica.” (PM
1994, pag. 21).
Martello 1714:
“Dirò solo, ma in confidenza, di aver veduto rallegrarsi molto questi
Franzesi al sentire nel mezzo de’ loro recitamenti cantare un’ARIETTA
di poesia e moda italiana (…) Raccolta stampata delle più scelte
ARIETTE franzesi” (pag. 275-6).
Marcello 1720:
“Tutto il rimanente dunque sarà un’invenzione a capriccio,
avvertendo sopra ogni cosa, che i versi non siano che mille doicento
in circa, comprese le ARIETTE.” (pag. 24).
Lettera di Metastasio (1698-1782), a Carlo Broschi (1705-1782) del 19
giugno 1749 :
“Oh che superba ARIETTA è quella che mi avete mandata! Se non me
ne aveste confidato l’autore, io l’avrei riconosciuto in quei
portamenti di voce che presentemente non sono più alla moda fra i
nuovi guasta mestieri.” (PM 1994 pag. 151n.).
Iacopo Angelo Nelli (1673-1767) La dottoressa preziosa, Siena 1751:
“Chi sa se mi fosse riuscito, prima che venga qualcuno, aver tempo
di riveder questa ARIETTA pel mio dramma.” (Crusca 1863).
1
Rosmene, opera di Alessandro Scarlatti (1660-1725), del 1686.
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Algarotti 1755:
“ARIETTE chiamatasi nello scorso secolo le vere arie, anco di bravura
composte sulle due strofette, che si veggono ne’ drammi di
Metastasio in fin di scena.” (Tramater 1829-1840, e TB 1861-1879).
E:
“La vera arte prescrive, che uffizio de’ cantori sia cantare, non
gorgheggiare ed arpeggiare ARIETTE.” (TB 1861-1879).
Viene esplicitamente citato Metastasio, che era solito articolare
l’azione dei suoi melodrammi in lunghi recitativi e collocare
l’effusione lirica nelle “ariette” poste al termine delle scene; proprio
queste parti, caratterizzate da metro breve e da grande orecchiabilità,
venivano facilmente ricordate e ripetute a memoria.
Così riporta Saverio Bettinelli (1718-1808), Dialoghi d’Amore, Dialogo
XIII, 1796:
“Le ARIETTE principalmente van per le bocche di tutti …” Riferendosi
proprio al Metastasio (Bonomi 1998, pag. 243).
Il medesimo autore nel Discorso sopra il teatro italiano (lettera scritta,
in francese, al duca di Parma Filippo di Borbone) 1782:
“Nulla dirò delle ARIETTE ancor più mal composte e scritte per
ordinario, perché più schiave del musico e più soggette al lusso de’
suoi gorgheggi.” (Bonomi 1998, pag. 242).
Denina Carlo (1731-1813) Sur le caractère des langues et particulièrement
des modernes 1785 : “Je lui demanderois (…) s’il n’a jamais lu, ni
entendu chanter des operas italiens. S’il les a lus, ou entendus, quel
désordre trouve-t-il dans cette ARIETTE de l’opéra de Demofoonte qui a
charmé tant de monde (…) ”.[ Trad.: io gli chiederei (…) se non ha
mai letto, o sentito cantare opere italiane. Se le ha lette, o sentite,
quale disordine trova in quell’ARIETTA dell’opera Demofoonte che ha
affascinato tanta gente…] (Bonomi 1998, pag. 214).
Vittorio Alfieri (1749-1803) Vita scritta da esso, composta dal 1790 al
1803:
“Di nessun altro de’ poeti nostri aveva io cognizione, se non di
alcune opere del Metastasio... e queste mi dilettavano sommamente,
fuorché al venir dell’ARIETTA interrompitrice dello sviluppo
degli affetti.” (GDLI).