4
conseguenza, contro un re venuto meno al suo compito, sarà legittimo avvalersi del
diritto di resistenza attiva che, sotto determinate condizioni, permette di destituire il
tiranno o, in casi estremi, di ucciderlo. Come vedremo, questo è il momento in cui le
figure di tirannicidi storici, come Bruto, smettono di essere vituperati e diventano
simbolo di eroismo e lealtà.
Il volgere dell’era vide, fra i tanti altri barlumi di modernità, la dissoluzione dell’unità
cristiana, provocata da Martin Lutero e dalla Riforma, che nacque proprio
dall’allontanamento del monaco tedesco dalla Chiesa di Roma, un allontanamento non
previsto né voluto inizialmente, ma scaturito e diventato necessario solo in seguito,
quando ormai la disputa sulla pratica della vendita delle indulgenze si era ampliata fino
a raggiungere alcune delle questioni teologiche fondamentali del credo cristiano e si era
intrecciata con il conflitto politico. Le dottrine dei due grandi riformatori, Lutero e
Calvino, non lasciano quasi alcuno spazio al diritto di resistenza attiva, intrise come
sono di un violento pessimismo antropologico, che, almeno nelle prime elaborazioni
del loro pensiero, non solo vieta decisamente la rivolta contro il tiranno, ma, specie in
Lutero, spesso lo trasforma nella giusta punizione divina per la malvagità umana.
Ciononostante, i loro seguaci si trovarono alla fine impegnati in una strenua lotta per la
sopravvivenza e le persecuzioni cui andarono incontro diedero una nuova spinta alla
riflessione politica, - sebbene, in questo caso, a differenza di quanto era successo
nell’Italia del 1300-1500, intrisa di religione -, in cui torna alla ribalta il contratto di
governo. Né ci si limitò alla semplice elaborazione o rivisitazione del concetto, ma
Calvino ne offrì un esempio pratico nella costituzione della sua comunità religiosa a
Ginevra, e fu successivamente emulato, con la medesima procedura, dai calvinisti
scozzesi, dai puritani inglesi coinvolti nella rivoluzione del 1640 e da quelli emigrati in
America nel 1620 e nel 1630. Nella seconda parte del capitolo cercheremo, perciò, di
analizzare il portato politico del pensiero luterano e calvinista, riservando poi alle
ultime pagine il compito di richiamare succintamente gli avvenimenti intercorsi in
Francia fra il 1540 e il 1590, un periodo denso di conseguenze per la storia del
calvinismo e del contratto sociale, in cui furono dati alla stampa numerosi trattati su
questo argomento, fra cui, appunto, le Vindiciae contra Tyrannos.
5
La riscoperta medievale di Aristotele
L’incertezza delle fonti giuridiche e, dunque della legittimità del potere, in epoche in cui
nulla garantiva ai sudditi il minimo margine di sicurezza, fece spesso e spontaneamente
sorgere il desiderio, se non la necessità, di definire con chiarezza i limiti del potere
stesso, di giustificare il diritto che autorizzava l’imposizione di questi stessi limiti, di
indicare chi fosse preposto alla supervisione, al controllo del rispetto dei confini e
soprattutto chi fosse autorizzato a ribellarsi al sovrano trasformatosi in tiranno
La letteratura sul tirannicidio nasce su questo sfondo e in breve i temi portanti cui
abbiamo accennato sopra cominciano a strutturarsi in una serie di argomenti-chiave
che, nell’evolversi della questione, saranno più volte rielaborati, riadattati, reinterpretati,
ma rimarranno in ogni caso costanti e saranno i cavalli di battaglia dell’intero pensiero
monarcomaco. È comunque necessario sottolineare che le radici più profonde di tali
dottrine sono da ricercarsi nella speculazione filosofico–giuridica del basso Medioevo e
che l’avvio non fu dato da propositi regicidi, bensì dal tentativo di ripensare la
questione della fondazione dell’apparato sociale e politico del periodo, con il
progressivo allontanarsi dall’interpretazione discendente del potere in favore di una
ascendente. Si può proporre come capostipite di tale fondazione San Tommaso
d’Aquino, riscopritore di Aristotele.
2
Le assonanze fra i due sono numerose e
l’influenza esercitata dall’uno sull’altro uno dei capisaldi dello studio della filosofia
medievale. Se, infatti, gran parte del pensiero politico di Tommaso non è che una
rivisitazione di quello di Aristotele, è altresì vero che la rivisitazione stessa apportò
sostanziali modifiche di non poco conto, specialmente per le conseguenze che si
avranno nell’interpretazione della società. Aristotele aveva strettamente legato le Idee e
la Physis, la Natura, e aveva posto il compimento della propria natura come il fine di
ogni ente, attribuendo così a questo itinerario un portato assiologico sul quale basare il
giudizio sull’esistenza condotta dagli enti. L’uomo non è estraneo a tale impostazione
teleologica, ed essendo la sua natura quella di animale sociale, la sua finalità è quella di
far parte di una polis. La Natura è presente nell’uomo con le proprie leggi, che gli
permettono di contraddistinguersi dagli altri enti, come unico ente in grado di
2
Cfr. W. Ullmann, “Principi di governo e politica nel Medioevo”, pp.322-344
6
trasformare i propri impulsi naturali da istinti a ragione, scopi di volontà. E attraverso
la ragione l’uomo può cercare di comprendere la vera giustizia e lo Stato sarà il luogo
adibito alla sua realizzazione pratica, perché lo stato è preposto al raggiungimento del
sommo bene, l’eudaimonia e l’eudaimonia non può esserci lì dove non è giustizia. “Lo
strumento per giungere a questa realizzazione è la legge: cioè la volontà espressa della
natura, adattata allo stato e manifestata dai cittadini”
3
In un certo modo, quindi è la legge
naturale a fondare la potestas del popolo, il modo in cui poi il singolo gruppo stabilirà
dover essere amministrata la giustizia definirà il tipo di governo. É un processo
evolutivo senza scosse quello che porta dall’individuo allo Stato, e viene descritto da
Aristotele con un procedimento induttivo, di scomposizione della situazione presente:
se la polis è formata da cittadini, i quali, prima di tutto, sono aggregati in piccoli nuclei,
a loro volta risultato della riunione delle famiglie, create dall’uomo per soddisfare le sue
esigenze di animale sociale, è più che probabile, se non evidente, che il cammino
inverso ha portato al costituirsi dei primi Stati. L’unico presupposto strettamente
teoretico è la natura umana, per il resto si vede come la teoria aristotelica dello Stato sia
la semplice conseguenza di un’osservazione empirica.
Le basi sono le stesse per San Tommaso
4
, il quale, nel ridonare con chiarezza la
preminenza alla ragione sulla volontà – rispetto all’accentuazione contraria operata da
Sant’Agostino - , affida alla prima la custodia della legge. Questa viene tripartita,
secondo uno schema classico derivante dallo stoicismo, per cui si ha la lex aeterna, la
legge divina che imprime la sua ragione nel mondo affinché ogni ente diventi ciò che
dev’essere per natura finché “ens et bonum convertuntur”; la lex naturalis, ossia il modo
in cui l’ente razionale, l’uomo, partecipa di quella eterna, giacché la legge naturale altro
non è se non lo specifico, la particolarizzazione della prima nell’ambito di ciò che
riguarda l’uomo, ed è l’unica ad avere propriamente un valore normativo. Infine la lex
humana seu positiva, con la quale l’uomo ha tentato e tenta sempre più di
particolareggiare i comandamenti della legge eterna: ovviamente deve essere quanto più
vicina possibile a quella naturale e perde ogni forza di legge se le sue affermazioni sono
in contrasto con la precedente. La legge naturale, proprio perché deve condurre l’uomo
3
Cfr. W. Ullmann, “Principi di governo e politica nel Medioevo”, p.308, corsivo mio
4
Per la teoria politica di S. Tommaso, cfr. ad esempio H. Welzel, “Diritto naturale e giustizia materiale”, pp. 83-99
7
verso la piena realizzazione della propria natura gli impone di agire razionalmente, o, in
termini che tomisticamente equivalgono a questo, fare il bene ed evitare il male; di
conseguenza, come già in Aristotele, le tendenze naturali dell’uomo alla vita in società,
alla procreazione, alla conservazione sono beni da realizzare. E da realizzare
comunitariamente: infatti, poiché un uomo “da sé stesso non può procurarsi una
sufficienza di vita, si capisce come sia naturale che egli debba vivere in compagnia […] in
modo che l’uno venga aiutato dall’altro”
5
, nel raggiungimento di quel fine comune che
è la vita giusta. Ma dal momento che le vie per raggiungere uno stesso fine possono
essere molte e non necessariamente tutte legittime, è necessario che ci sia qualcuno a
dirigere e ordinare equamente il movimento della comunità. In altre parole, il fine ultimo
dell’uomo è vivere secondo virtù perché possa meritare il premio eterno, ma non
potendo un governo meramente umano condurlo a questo, ed essendo sempre
necessario l’intervento della grazia divina, è indispensabile la mediazione dei sacerdoti e
del Papa, ai quali dunque il re deve essere sottomesso. Cionondimeno il suo compito
non è meno importante, né gravoso, egli infatti deve aiutare il suo popolo a trovarsi
nelle condizioni adatte per raggiungere questo fine, “così per creare il ben vivere di una
moltitudine si richiedon tre condizioni: primo che essa sia costituita in unità di pace;
secondo che, unita dai vincoli di pace, sia indirizzata al bene operare. […] In terzo
luogo occorre che, per industria del reggente, sian sufficientemente le cose necessarie al
ben vivere”
6
. L’idea dell’unità è centrale in San Tommaso, il quale rimane persuaso che
solo dall’unità possa scaturire il bene, così come dall’armonia di tutte le parti scaturisce
il bello, mentre la molteplicità è solo foriera di male. Di questo assioma è permeata
anche la visione e il giudizio che ha delle varie forme di governo. Aristotelicamente egli
ne elenca tre, e affianca loro i tre rovesci: vi è infatti la monarchia, il governo che, pur
essendo in mano a uno solo, persegue il bene di tutti, e al suo contrario c’è la tirannide,
in cui viene perseguito il bene di uno solo. Quando al potere sono in più d’uno, ma
non tutti, si ha l’aristocrazia, il governo degli ottimati, il cui contrario è l’oligarchia, che
cerca solo il bene di quei pochi. Infine c’è il terzo caso, il più complesso da sintetizzare
e valutare, quello del governo di tutti, la politia, che, quando perde di vista il proprio
5
S. Tommaso, “De Regimine Principum”, p. 89
6
Ibid., pp. 147-148, corsivo mio. Alla terza parte del compito del sovrano è dedicata la seconda parte dell’opera, più
strettamente tecnica e pratica.
8
compito, si trasforma in democrazia. Il problema, però, è che in linea di massima, il
governo di tutti anche quando va in rovina trasformandosi in democrazia continua pur
sempre a perseguire il bene collettivo, seppure non nella forma corretta, per questo
Tommaso sostiene comunque di preferire i mali che possono venire dalla democrazia a
quelli originati dalla tirannide: “conviene adunque che il governo giusto sia nelle mani
di uno solo affinché sia più forte, e che se degenera nell’ingiustizia sia nelle mani di
molti, affinché sia più debole, impedendosi l’un l’altro (nel fare il male)”
7
. Anche
perché sarebbe falso non riconoscere che spesso il governo di tutti ha portato gran
bene agli stati in cui veniva attuato “perché gli uomini che vivono sotto un re, con
minor zelo tendon al ben comune, perché credono che quello che essi fanno non torni
a loro vantaggio ma a vantaggio di colui cui sono soggetti”
8
, e Roma, del potere della
politia, è l’esempio più significativo. Tuttavia, Tommaso rimane fermamente
monarchico, e una monarchia illuminata, incarnata per lui da Luigi IX il Santo, rimane
il suo ideale. Il suo principe è d’origine umana, solo la regalità è stata creata da Dio, ma
ciò non impedisce al “rapporto” fra il sovrano e Dio di essere dei più diretti: da Dio
verrà infatti la vera ricompensa a un re giusto: verso il primo gradino di un
avvicinamento a Dio il re deve portare il suo popolo, e molto più del popolo stesso un
re giusto sarà gradito a Dio, perché è sicuramente più facile seguire chi conduce sulla
retta via, anziché essere colui che conduce.
Si vede dunque che, nonostante rimanga ferma l’idea di un duplex ordo in rerum, san
Tommaso cerca, anche nell’elaborare il suo pensiero politico, di fondere fra loro
elementi di varia origine e valore: di Aristotele viene mantenuto il concetto di uomo-
ζω̃όν πολιτικόν
9
e quindi di Stato come perfettamente naturale, in antitesi con la
concezione medievale di un momento di frattura fra il vero stato di natura e quello che
gli è poi subentrato
10
; del suo tempo mantiene la subordinazione del fine temporale a
7
Ibid., p. 98, inciso del curatore
8
Ibid., p. 102
9
Aristotele, “Politica”, 1253 a.
10
L’idea derivava tanto dai Sofisti quanto da Agostino: i primi la giustificavano sostenendo che non essendo l’uomo
perfettamente completo, gli dei gli hanno inviato la capacità e il desiderio di vivere in comunità; Agostino invece
riteneva necessario un contratto perché l’uomo, con il peccato originale, aveva perso la possibilità di vivere in
pieno accordo con la propria natura, la quale era stata distrutta e corrotta.
9
quello religioso, nonché quella della legge positiva alla naturale. L’argomento che
interessa a noi, ovvero l’idea di un patto fra sovrano e popolo e le sue conseguenze,
non viene mai analizzato nei dettagli, e rimane spesso solo accennato (forse anche
perché il testo è rimasto incompiuto). Gough reputa che Tommaso si riconosca
“apertamente nella posizione secondo cui il potere reale aveva un’origine popolare (si
ad ius multitudinis alicuius pertineat providere sibi de rege), e il popolo aveva diritto, in caso di
abuso del potere da parte del re, di restringere o abolire del tutto il potere del re”
11
, ma
in realtà l’Aquinate tiene presente anche l’ipotesi di un’autorità superiore che dia un
sovrano a una città, senza nessun intervento da parte di quest’ultima, e ad ogni modo,
lo ripetiamo, non ci sono passi specifici dedicati all’argomento. Rimane da stabilire
quale posizione egli assuma nei confronti della degenerazione della monarchia. Lo
vedremo fra breve.
Il Medioevo e il contratto
L’idea di un patto che leghi fra loro gli uomini a livello sociale e politico è
antichissima, d’origine orientale, e attraversa tutta la storia dell’Occidente dalla Grecia
in poi, raggiungendo l’apogeo pratico nel Medioevo e quello teorico fra il 1500 e il
1700. Già in Grecia il patto veniva visto come il passaggio dal mero individuo al
membro della società; a Roma era il fondamento oggettivante dell’intero diritto; in
Israele per la prima volta si parla di un patto con Dio, un Dio personale, massimo
referente e massima autorità alla quale legarsi.
12
Queste forme si fondono e si
amalgamano nel mondo occidentale medievale dando vita a un modo di concepire i
rapporti umani politici che, nonostante il sincretismo operato in questi secoli,
influenzeranno l’intero pensiero politico fino al 1600, data in cui la riflessione subirà
uno slittamento del punto d’osservazione. Finora noi abbiamo parlato solo della
concezione naturalistico-evolutiva di San Tommaso, che è però collocabile già nel Basso
Medioevo: rimane dunque esclusa la riflessione dei primi secoli, dell’Alto Medioevo. E
al di là della questione cronologica, come appena detto, in San Tommaso lo Stato non
è dissonante con la natura dell’uomo, non c’è stato un momento o una ragione per cui
11
J.W. Gough “Il contratto sociale. Storia critica di una teoria”, p. 60
12
Cfr. P. Prodi, “Il Sacramento del potere”, pp. 27-39
10
da uno stato in perfetta armonia con l’essenza dell’uomo si è passati ad una vita sociale
sovrastata da una costruzione del tutto artificiale, lo Stato in Tommaso è “naturale”. Al
contrario la dottrina comune a tutto il Medioevo, e specialmente all’Alto, consisteva nel
ritenere necessario un governo come quello costituitosi solo in virtù di una lacerazione
creatasi nel passato fra come l’uomo è stato creato e come invece è diventato. Le idee
politiche medievali infatti “derivavano da due principali fonti. Una era costituita dal
diritto romano incarnato nel Corpus di Giustiniano ed influenzato dall’eredità della
filosofia stoica; l’altra era rappresentata dall’insegnamento della Chiesa”
13
. La Chiesa era
allora permeata dell’eredità patristica e, in special modo, agostiniana, nella quale il
peccato originale fungeva da spartiacque fra lo stato di natura e lo Stato politico. Persa
l’innocenza dell’Eden si rese necessario per gli uomini aggregarsi in comunità e darsi un
governo
14
. Questo, e qui le due fonti vengono fatte convergere, deriverà da una
decisione popolare e sarà elettivo, così come si legge nella lex regia del diritto romano: il
popolo di Roma ha dato il suo potere al re. Il problema, che rimarrà fondamentale in
tutte le trattazioni sul contratto sociale, è la forma in cui va inteso il verbo “dare” della
legge: quell’affidamento è solo condizionale, temporaneo, revocabile, oppure si è
trattato di un’alienazione totale e completa? Secondo quel che dice Gough per tutto
l’Alto MedioEvo la tendenza interpretativa si volgeva alla prima possibilità e, specie nel
mondo barbaro-germanico, tale idea si rafforzava ad ogni cerimonia d’incoronazione.
La monarchia non fu mai ereditaria e i sudditi avevano sempre il diritto di scegliere il
proprio re, la fedeltà al quale “dipendeva dal suo riconoscimento dei loro diritti”
15
,
tanto più che il peso del loro potere non si esauriva con la cerimonia, ma si riversava
nel consiglio dei saggi al quale il monarca doveva rispondere e chiedere approvazione
ogni volta che stabiliva di emanare nuove leggi. Il ruolo della legge è per tutto il
Medioevo assolutamente preponderante e primario: il re, lo Stato stesso, nascevano
13
J.W. Gough, op. cit., p. 41
14
Anche le Vindiciae Contra tyrannos presentano un uomo non più animale sociale, ma rimangono ugualmente
ferme nell’evidenziare la consonanza della deliberazione umana con i disegni divini. Cfr. Introduzione, op. cit.,
p.XXI. D’altra parte per i greci era impossibile teorizzare uno stacco così netto, quale quello rappresentato dal
contratto, fra due diversi stadi della vita dell’uomo, non avendo il concetto di uno stato di natura primordiale nel
quale fosse poi intervenuto qualcosa a smuovere l’equilibrio, e che invece è connaturato alla religione cristiana,
avendo ereditato dall’ebraismo l’idea dell’Eden e della caduta.
15
J. W. Gough, op. cit., p.44
11
dopo di essa e ad essa dovevano sottomettersi. Ancora una volta si sente l’eredità
stoica, già prima di San Tommaso si aveva ben presente la triplice ripartizione cui
abbiamo fatto cenno sopra, e la lex naturalis, di cui il diritto romano era la miglior
espressione, era il referente unico di tutto il pensiero politico. “Non solo la legge
positiva era considerata inferiore e tenuta a conformarsi ai dettami della legge di natura
(o divina), ma, innanzitutto, comunque, a malapena vi era affatto un concetto di lex
positiva nel senso del comando di un sovrano esattamente come non vi era concetto di
potere sovrano stesso […]. La legge, a fatica distinguibile dal costume nei tempi remoti,
nel pensiero medievale era antecedente al governo piuttosto che prodotto di questo;
l’intero popolo, in un certo senso, ne era depositario, e benché spettasse al re
dichiararla, non era in suo potere produrla arbitrariamente. […] Gli energici re del
Medioevo imponevano spesso con successo la propria volontà ai sudditi, ma la
concezione moderna post-rinascimentale della monarchia assoluta e delle leggi intese
come la semplice espressione della volontà del monarca era estranea al pensiero
dell’Alto Medioevo”
16
. Quindi, il fondamento politico dell’Alto medioevo era un
contratto di governo ripetuto ad ogni elezione, implicante perciò un semplice
affidamento del potere popolare al sovrano e già in questo periodo si può leggere una
trattazione, ad opera di Manegoldo da Lautenbach, in cui dall’idea del contratto si
inferisce una dottrina dei diritti popolari, in cui viene giustificata teoreticamente la
deposizione di un re venuto meno al suo compito. Quella di Manegoldo, però, è
un’eccezione, perché la vera differenza con quanto seguirà in merito al contratto
sociale e al diritto delle genti è tutta nella “concretezza” con la quale si affrontava la
questione in questa fase: come già detto, la legge era in gran parte il costume, la pratica
veniva di gran lunga prima della teoria e questa era solitamente una riflessione sull’altra
e poco se ne discostava. Il rilievo del “costume” o, come fu comunemente definito, del
“diritto consuetudinario” è un altro degli elementi basilari per la concezione
contrattualistica medievale. Dicevamo infatti poc’anzi che tanto la lex regia, quanto
l’idea agostiniana del peccato originale come causa della necessità di un organismo
politico, si prestano a una duplice interpretazione: una, appena esposta, propensa a
reputare la trasmissione del potere dal popolo al re come temporanea e reversibile;
16
Id., p. 45
12
l’altra rivolta piuttosto all’alienazione perenne e al conseguente diritto divino del re.
Gough è incline a ritenere possibile la convivenza dell’uno e dell’altro, “nel Medio Evo,
che poteva considerare il governo come causato dal peccato, e tuttavia ordinato
secondo la volontà divina a fronteggiare le conseguenze del peccato, e la monarchia
come un ufficio prodotto di elezione, e tuttavia impresso di un sigillo divino attraverso
le cerimonie dell’unzione e dell’incoronazione, il contratto sociale e il diritto divino dei
re non erano incompatibili”
17
. Altri, invece, come Ullmann, interpretano tutto il
Medioevo, fino al 1200, come permeato solo ed esclusivamente del diritto divino.
Secondo Ullmann, infatti, nell’età di mezzo “il potere del re non derivava dal popolo o
dal regno o da singoli individui, ma dalla divinità […]. Gli individui in quanto
sottoposti non avevano diritti nella sfera pubblica. Tutto ciò che essi avevano, lo
avevano per grazia del sovrano, per concessione del sovrano. […] L’ideologia
concernente il potere regio nel Medioevo mostra […] che l’individuo era sotto la tutela
di coloro che erano stati scelti dalla divinità […] Un’immediata conseguenza teorica e
pratica di quest’ideologia era il dovere del re di occuparsi dei suoi sudditi […]. Si
trattava però di un obbligo puramente unilaterale, che i sudditi non potevano esigere
giuridicamente […]. Se egli non adempiva questo suo dovere, non c’era potere al
mondo che potesse obbligarlo a farlo. […] Come si poteva sostenere un diritto di
opposizione contro colui che la divinità aveva scelto in modo così evidente? […] Quale
individuo o quale corpo o gruppo di persone poteva per legge dichiarare tirannico il
governo del re?”
18
. La lettura proposta da Ullmann deriva direttamente
17
J.W. Gough, op.cit., p. 53. Lo stesso principio è sostenuto, forse meno apertamente, e in una diversa forma, da J.-J.
Chevallier in “Storia del pensiero politico”, vol I. Rielaborando la dottrina della distinzione fra il potere in abstracto
e il potere “concreto”, Chevallier dichiara che “in forza del suo stesso rango sociale, che è unico, e cioè in forza del
suo unico statuto nella comunità, il re non doveva ubbidienza alla Legge allo stesso modo dei suoi sudditi, quale
che fosse la loro condizione. Egli era singulis major, universis minor, e cioè inferiore alla comunità nel suo complesso,
inferiore cioè alla universitas ossia al populus, ma superiore nell’ambito del suo regno ad ognuno nella sua
particolarità, perché, per rango, non c’era alcuno che gli fosse pari. La sua carica, nel quadro generale della Legge,
gli attribuiva prerogative di cui egli era il detentore esclusivo. Quindi se era sottomesso alla forza direttiva (vis
directiva) della Legge, era sciolto, dispensato, libero dalla sua forza coercitiva o coattiva (vis coactiva). E accanto a
questo erano tanti altri i privilegi connessi alla condizione regia, anche se quello indicato era di tutti il
fondamentale. Era però difficile definirli bene quei privilegi, dato che l’età medievale non aveva in questo campo
raggiunto quelle precisazioni che saranno messe a punto solo nell’età moderna. […]. Indubbiamente il re nella
sfera che gli è propria è assoluto – legibus solutus – […]. Fuori di questa sfera, tuttavia, […] anche il re è limitato, anzi
limitato strettamente […] sia dalla Legge (sia essa intesa come consuetudine o come diritto naturale), dalla
vigilanza della Chiesa, dagli obblighi feudali.” (pp. 289-290)
18
W. Ullmann, “Individuo e società nel Medioevo”, pp. 15-23
13
dall’interpretazione “assolutista” offerta già dai legisti medievali
19
e tende infatti a
sottolineare l’aspetto onnicomprensivo della dottrina ecclesiastica, per cui l’uomo come
christianus era membro del Corpus cristiano, ma al di fuori di questo ruolo, del suo essere
una componente delle membra del corpo terreno di Cristo, la sua individualità come
tale non aveva alcun valore, né era praticamente concepita. E la stessa impalcatura
reggeva l’apparato politico. Entrambe le dottrine, però, convergono alla fine
nell’individuare nel feudalesimo uno degli elementi decisivi per lo sviluppo dell’idea di
contratto sociale. “Il feudalesimo è stato un elemento che ha potentemente quanto
inavvertitamente preparato la strada all’accettazione dei veri e propri modi di pensare
popolari”
20
, anche a livello pratico-esistenziale oltreché teoretico. Se ne vede un
esempio significativo nei legami che venivano a crearsi fra il vassallo e il proprio
signore: feudatari e vassalli stringevano chiari accordi su come gli uni dovevano servire
il padrone e l’altro offrire loro giuste retribuzioni, protezione ecc. Questo permetteva
ad entrambe le parti coinvolte di conoscere i propri diritti e quindi poterli reclamare se
non rispettati: in altre parole, se il signore non adempiva le clausole, il vassallo non era
costretto a rimanere al suo servizio, poteva disconoscerlo da padrone. Una situazione
da cui nemmeno il re era escluso, trovandosi a rivestire contemporaneamente il ruolo
di monarca e quello di massimo feudatario. Allo stesso tempo, quando l’ampliarsi dei
domini di un sovrano rese impossibile il mantenimento di un modello politico come
quello germanico e l’idea del sovrano assolutamente indipendente dal popolo e di
origine divina cominciò a prendere una forma concreta e attuata, il divario che si venne
a creare fra regnante e regno trasformò quest’ultimo in una società totalmente
contrattualistica, anche nelle piccole cose, non solo nei rapporti fra vassalli e feudatari.
Se alla visione germanica di un re apertamente accettato (e, di conseguenza, posto in
discussione a priori), interamente rimesso al giudizio del proprio popolo, in una forma
di governo “ascendente”, si era venuta sostituendo, almeno nelle alte sfere, un’idea di
monarca assoluto ante-litteram, da cui tutto dipendeva, e perciò una forma di governo
“discendente”, fra i semplici sudditi le cose procedevano in maniera molto diversa, e la
19
Cfr. O. Von Gierke “Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle dottrine politiche giusnaturalistiche”: “La
giurisprudenza era ormai concorde nel ritenere, sulla base delle sue fonti, che l’autorità imperiale, erede
dell’«imperium» dei Cesari romani, riposasse in ultima analisi sulla trasmissione effettuata una volta per sempre dal
popolo mediante la «lex regia», p. 81
20
W. Ullmann, “Principi di governo e politica nel Medioevo”, p. 283
14
vita andava assumendo un aspetto decisamente più egualitario. Si erano pertanto venuti
a creare piccoli organi preposti alla protezione degli appartenenti, in cui i responsabili
erano eletti dai membri stessi. Così, nel tempo, le associazioni popolari e le città
avevano raggiunto un’autonomia (spesso non riconosciuta né accetta tanto dal sovrano
quanto dal Papa) che applicava nuovamente una forma di politica ascendente, sebbene
negli strati più modesti della popolazione non se ne fosse pienamente coscienti.
Tuttavia il costume si era così radicato che in un certo senso sarà proprio questo, e il
desiderio di non perdere la libertà e l’autonomia, nonché il riconoscimento della
persona come individuo, a far nascere l’opposizione rinascimentale allo Stato nazionale
e al re assoluto. Il feudalesimo e il contratto, così come erano comunemente intesi nel
Medioevo, saranno due capisaldi di tutte le trattazioni successive, diventando i referenti
e i fondamenti legali di molte delle guerre antimonarchiche che verranno combattute in
seguito, non ultime quelle di religione francesi nel 1500. Chevallier, per esempio,
sostiene apertamente, a questo riguardo, che “contro la monarchia, tutta intesa ad
un’opera di unificazione e di centralizzazione, l’efficace difesa della «vera» religione
mirava a risuscitare, dietro lo schermo del lessico medievale (popolo, contratto sanior
pars), le aspirazioni feudali, particolariste, federali, nel senso lato del termine, e anti-
assolutiste”
21
. La prospettiva cambierà soltanto nel 1600, con le dottrine contrattualiste
di Hobbes, Rousseau, Locke, Pufendorf ecc…, giacché l’analisi verrà costruita non più
a partire dal pactum subiectionis, bensì dal pactum unionis vero e proprio.
Abbiamo pertanto visto che, in tutto il Medioevo, la pratica di codificare senza
possibilità d’equivoco i legami fra due parti attraverso un patto che ne chiarisse
obblighi e diritti, era diffusissima, in varie forme: il patto che legava re e popolo
nell’interpretazione moderata della lex regia e nell’attuazione che ne veniva fatta nel
mondo germanico; un patto originario in cui il popolo aveva alienato da sé ogni suo
potere di istituire o destituire il governo politico nell’interpretazione “assolutista”; i
patti fra signori e vassalli nel periodo feudale. Si è rilevato anche che esistevano due
diversi modi di concepire la nascita dello Stato: quello permeato dell’eredità
agostiniana, che lo voleva artificiale, innaturale, – o meglio, naturale rispetto a una
21
J.-J. Chevallier, op. cit., vol. II, p. 93
15
natura corrotta dal male – e di una necessità dipendente solo dalla caduta del peccato
originale, e l’altro, tomista di derivazione aristotelica, in cui non v’è frattura fra lo stato
di natura e lo stato politico, ma un semplice inizio del secondo in continuità evolutiva
con il primo. In tutti i casi, però, si riconosce un ruolo decisivo al popolo, sempre e
comunque origine del potere regio, al quale, tanto nello Stato “naturale” quanto in
quello contrattualistico di impostazione moderata, viene riservato un margine di
possibilità per la rescissione del contratto. Non si trovano però maggiori notazioni a
tale proposito, e che cosa sia effettivamente il popolo non viene specificato: il suo potere
può derivare dal fatto che è stata una libera decisione degli uomini quella di darsi un
governo, oppure può essere una forma indiretta del potere divino, ma l’idea di popolo
non è ancora emersa o, comunque, non sembra avere un ruolo di spicco nella
questione politica. Essa sarà invece fondamentale in una larga parte dell’età moderna,
specialmente per l’argomento da noi trattato, dunque ci interessa ora cercare di capire
in che modo e perché lo fosse.
Alcune posizioni nella trattazione sul diritto di resistenza attiva e sul tirannicidio.
Il passaggio dal Medioevo all’età moderna, che portò con sé la dissoluzione del mondo
feudale e i primi barlumi di Stato nazionale con a capo un re assoluto, non venne
accolto con grande favore fra i cittadini, specie fra i “rappresentanti dell’aristocrazia e
del ceto borghese-popolare, nei quali erano vivi gli ideali dell’etica civile classica di
ispirazione repubblicana”
22
. Fra la seconda metà del ‘300 e poi per tutto il ‘500
fiorirono decine di scritti volti alla difesa degli antichi diritti feudali, con un mutamento
però piuttosto significativo. Se nel Medioevo, fino a S. Tommaso e a Marsilio da
Padova, l’interesse era per come era stato configurato il governo politico alla sua
origine, e solo a cominciare da questo ci si preoccupava delle conseguenze che l’una o
l’altra teoria potevano avere, a partire dal 1300 il punto di partenza si sposta, e si
pensano le varie dottrine con lo scopo specifico di poter giustificare legalmente e
22
M. D’Addio, “Il Tirannicidio”, p. 547. A questo facciamo riferimento per tutti i dati in merito agli autori che
citeremo di seguito.
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razionalmente la resistenza attiva al sovrano trasformatosi in tiranno. Il pensiero di
Tommaso, l’abbiamo visto, prendeva le mosse dal presupposto che scopo dello Stato
era il suo bene vivere, irraggiungibile senza la pace nella regione, la quale a sua volta
dipendeva in quasi totale misura dal tipo di governo ivi creato. E il governo migliore a
questo scopo era quello monarchico. L’opposto della monarchia, che è il giusto
governo di uno solo, è la tirannia nella quale l’unico interesse è il tornaconto del solo al
potere: in tal modo il tiranno viene meno al suo compito, stabilito da Dio e desiderato
dagli uomini, ma in che modo Tommaso reputa legittimo impedire che lo Stato venga
portato alla rovina? L’Aquinate distingue due tipi di tirannia, quella, per così dire,
“normale”, e l’”eccesso di tirannia”, il peggiore dei mali, e solo in questo caso giustifica
la resistenza da parte del popolo. “Vale a dire: se non ci sono proprio eccessi
intollerabili, è meglio per un certo tempo sopportare una tirannide moderata che
esporsi, con un contrasto aperto e dichiarato nei confronti del tiranno, a molteplici
pericoli, più gravi forse della stessa tirannide (per es. alla repressione brutale e
indiscriminata in caso che la ribellione non abbia esito felice oppure al fatto che
durante la ribellione o dopo di essa insorgano dissensi e fazioni)”
23
. La resistenza da lui
accettata è quella che si limita alla destituzione del re, quando il popolo abbia avuto un
diritto originario di eleggerlo
24
, e quella di appellarsi all’autorità suprema che l’ha dato a
una certa regione, nel caso di un popolo senza tale diritto. Ma mai accetta l’idea del
tirannicidio, né una qualunque azione dettata dalla privata praesumptione aliquorum. Tanto
più che, in un certo qual modo, egli sembra piuttosto tollerante nei confronti di una
tirannia effettiva: se sul piano teorico essa è la massima abiezione del potere politico,
23
J.-J. Chevallier, vol. I, pp.302-303. La dottrina della resistenza in Tommaso si inserisce soprattutto nel quadro della
triplice distinzione della Legge, permettendo di utilizzare la divisione come mezzo di riconoscimento del grado di
tirannia. Le leggi positive “possono essere ingiuste sia in relazione al bene proprio dell’uomo sia in relazione al
bene divino. In relazione al bene umano si rivelano ingiuste le leggi che mirano più a soddisfare la cupidigia o la
gloria personale del principe che non l’utile comune oppure quelle che eccedono la competenza di chi le fa valere
o, infine, quelle che ripartiscono in modo iniquo gli obblighi imposti ai sudditi, anche se di per sé si trattasse di
leggi miranti al conseguimento del bene comune. Ebbene, tutte queste leggi ingiuste o inique, che dir si voglia, non
obbligano in coscienza, perché sono «più che delle leggi, delle violenze». Uno le osserva ed ubbidisce solo per
evitare lo scandalo e il disordine, nel quale caso è cosa retta sacrificare anche il proprio diritto. Se però si tratta di
leggi ingiuste perché contrarie al bene divino (vale a dire: esse attentano direttamente ai diritti di Dio) come, ad
esempio, sarebbero le leggi di un tiranno che vuole obbligare i sudditi all’idolatria, allora tali leggi non possono
mai, in nessun caso, essere osservate.” (Ibid., pp. 301-302)
24
“Vero è che afferma che mancare di fede al tiranno non nemmeno delitto; poiché egli non ha mirato al suo fine
che è il comun bene; il che parrebbe accennare a una specie di rescindibilità del patto sociale; ma sono queste
affermazioni subito distrutte da altre ugualmente recise ed opposte”, A. Meozzi, Introduzione al “De regimine”, p.
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sul piano pratico Tommaso è certo che “nessuna tirannide è stata duratura”, perché
nessun tiranno ha mai potuto contare sulla fedeltà e amicizia dei suoi sudditi come
invece era possibile a Cesare con i suoi soldati e a Ottaviano con i Romani.
Al contrario, in Italia, nei primi secoli del Mille, tale diritto, che permette a qualcuno,
nella fattispecie i magistrati, di deporre un sovrano trasformatosi in tiranno, diventa il
centro focale di tutta la riflessione politica. Si tratta di una rilettura del modello politico
diffuso nella Grecia classica, ove in alcune città era stato creato un organo di controllo
fortemente autorevole, come gli Efori spartani
25
, ma che viene perfezionata in vari
punti, come nella definizione più puntuale di tiranno e le conseguenti differenze nella
possibilità di reazione. Ad un tyrannus ex parte exercitii
26
, o, in altre parole, un legittimo
sovrano che non ha saputo porre freno all’avidità delle sue ambizioni e alla crudeltà del
suo agire, debbono reagire le autorità regolari, siano queste magistrati inferiori o
superiori, ma mai, per alcuna ragione, i singoli individui o i piccoli gruppi di sudditi,
altrimenti si scivola in un male ancora peggiore, il caos anarchico. Invece, contro un
tyrannus ex defectu tituli, cioè chi s’insedia al trono senza averne il diritto, possono
opporsi tutti, (in alcuni casi solo per un breve periodo dopo l’usurpazione o la passività
diventerà tacito consenso, come in Coluccio Salutati; in altri a tempo indeterminato e
anche contro il volere del resto del popolo, come in Teodoro Beza). Ma soprattutto, in
questa prima fase di teorizzazione e di delimitazione terminologica da applicare poi
alla realtà, ad emergere sono le trattazioni di Mario Salamonio nel suo “De Principatu”
e l’affermazione fondamentale in merito all’esistenza di due patti costitutivi della
società. Salamonio è forse il primo a far riferimento a un patto precedente quello di
governo, che leghi fra loro gli uomini e li renda cives , ed è sicuramente il primo a
enunciare “in modo sistematico una concezione contrattualistica della società e del
potere politico, distinguendo nettamente il pactum societatis dal pactum subiectionis: il primo
intercorre fra tutti gli individui e costituisce la città e ne diventa la legge fondamentale;
il secondo spiega la natura squisitamente giuridica del potere del governo, il rapporto
che si istituisce fra il principe e il popolo, per cui quest’ultimo rimane sempre titolare
25
E proprio agli Efori spartani si richiamano molti dei teorici successivi, tra cui Stephanus Junius Brutus. Cfr. anche
Saffo Testoni Binetti, “Immagini di Sparta nel dibattito politico francese durante le guerre di religione”.
26
Per la distinzione fra le due origini della tirannide, cfr. M. D’Addio, “Il Tirannicidio”.