“virtualmente” diretta del vertice dell’esecutivo; il concretizzarsi dell’alternanza; la
legittimazione di tutte le forze politiche a far parte dei governi. Una nuova o rinnovata
legge elettorale non dovrebbe in alcun modo mettere a repentaglio tutti i progressi
finora raggiunti e il bipolarismo, seppur incompiuto, che si è a caro prezzo raggiunto
2
.
Un’ampia prima sezione del presente studio è dedicata in particolare alla
stagione referendaria dei primi anni Novanta e all’analisi della previgente normativa
maggioritaria. Le ragioni di tale scelta sono sostanzialmente due: in primis per
chiarezza espositiva e per un’utile analisi in prospettiva comparata ed evolutiva; in
secondo luogo perché quel sistema di voto ha segnato per oltre un decennio la vita
istituzionale del Paese e tra le proposte attualmente sul tavolo del dibattito sulla
riforma elettorale è di recente emersa l’ipotesi di reintrodurlo per mezzo di un
referendum abrogativo totale della legislazione vigente.
2
C. FUSARO, Per il bipolarismo, contro la frammentazione difficile avere di più di ciò che può fare il
referendum. Ma la priorità è eliminare il doppio rapporto fiduciario, Dossier, sul sito di Astrid, 25-03-
2007.
4
CAPITOLO I
La transizione dal proporzionale al maggioritario
1.1- Il sistema elettorale proporzionale
Il sistema elettorale italiano è stato dal 1945 all’aprile del 1992 un sistema
proporzionale, pur prevedendo differenti procedure per l’elezione di Camera dei
Deputati e Senato
3
. Per la Camera dei Deputati vigeva lo scrutinio di lista, sulla base
del voto al partito correlato da un’eventuale preferenza per il candidato (fino a 3 o 4),
mentre al Senato le circoscrizioni erano uninominali, su base regionale e il voto da
destinarsi al singolo candidato. Il riparto dei seggi, in entrambi i casi, avveniva con
ricorso al metodo proporzionale, ma attraverso “formule tecniche” differenti: il
Quoziente Imperiali con i resti più alti alla Camera e il metodo d’Hondt, per ogni
circoscrizione regionale al Senato
4
.
Per la Camera dei Deputati, il territorio nazionale era diviso in trentadue
circoscrizioni ed erano previste due soglie di rappresentanza piuttosto basse: il partito
doveva cumulare almeno 65 mila voti in una delle circoscrizioni nazionali e
raggiungere un quorum di almeno trecentomila voti su scala nazionale. I resti, ovvero i
voti ottenuti dai partiti, ma non utilizzati ai fini dell’elezione circoscrizionale dei
3
Legge 20 gennaio 1948, n. 6, Norme per l’elezione della Camera dei deputati; legge 6 febbraio 1948,
n. 29, Norme per l’elezione del Senato della Repubblica.
4
Il Quoziente Imperiali è detto anche “formula dei resti più alti”. Nel caso italiano, in ogni circoscrizione
il Quoziente veniva determinato in base alla seguente formula: quoziente = Voti espressi / numero dei
seggi + 2. Il totale dei voti ottenuti da ciascun partito in quella circoscrizione veniva diviso per il
quoziente e dava il numero dei seggi conquistati dal partito. I voti non utilizzati dai partiti, detti resti,
venivano sommati e utilizzati per l’attribuzione dei seggi al Collegio Unico Nazionale. Accedevano a
tale distribuzione solo i partiti che avevano ottenuto almeno un quoziente pieno in una circoscrizione e
avevano ricevuto almeno trecentomila voti su scala nazionale.
5
singoli candidati, venivano utilizzati per la ripartizione di un decimo dei seggi nel
Collegio Unico Nazionale (che avveniva con la formula Imperiali dei resti più alti).
Al Senato, invece, erano direttamente eletti quei candidati che, nel rispettivo
collegio, ottenevano un numero di voti validi non inferiore al 65 per cento dei votanti.
A causa del quorum elevato, nella maggior parte dei casi nessun candidato era eletto
col metodo uninominale, si applicava dunque il secondo criterio previsto dalla legge,
quello perfettamente proporzionale con metodo d’Hondt
5
. Esso si basava sul
collegamento preventivo in gruppi dei candidati nei singoli collegi, a livello regionale.
A questo punto, i voti riportati da ciascun candidato nel suo collegio venivano sommati
a quelli degli altri candidati del suo gruppo, in modo da determinare la cifra elettorale
di ogni gruppo di candidati in quella regione. I seggi disponibili nella regione erano
quindi ripartiti fra i diversi gruppi di candidati in proporzione ai voti conseguiti da
ciascun gruppo. Per stabilire a quali, fra i candidati di quel gruppo, spettassero tali
seggi si determinava la "graduatoria" dei singoli candidati all'interno del gruppo,
calcolando la percentuale dei voti validi ottenuti da ciascun candidato nel singolo
collegio
6
.
Quel tipo di sistema proporzionale permetteva, quando non favoriva,
l’esistenza di un numero elevato di partiti, nessuno in grado di ottenere la maggioranza
parlamentare richiesta per formare un governo monocolore, e ha dato vita alle
eterogenee quanto instabili coalizioni di governo, tendenti ad escludere i partiti
antisistema e guidate dalla Democrazia Cristiana. Il principale problema era
rappresentato dall’instabilità dei governi di coalizione. La frammentazione del sistema
5
La formula D’Hondt è anche detta della media più alta in quanto la “media” fa riferimento al rapporto
fra voti validamente espressi e seggi per qualsiasi partito. Poiché in partenza nessun partito ha seggi, il
primo denominatore per cui va divisa la cifra elettorale è 1, poi sale a 2, 3 e così via, fino alla
concorrenza del numero dei seggi da coprire. Quindi si scelgono fra i quozienti così ottenuti più alti in
numero eguale a quello dei deputati da eleggere, e si collocano in una graduatoria decrescente. Ad ogni
lista sono attribuiti tanti seggi quanti sono i quozienti della stessa nella suddetta graduatoria. Nella
variante Sainte-Lagüe invece il primo denominatore è invece 1,4.
6
Questo sistema permetteva così di ovviare alla diversa ampiezza dei vari collegi, rispettando dapprima
la proporzionalità rispetto al collegio e poi a livello nazionale. Cosicché, la quasi totalità dei seggi
veniva assegnata con un sistema di tipo proporzionale, nel quale la percentuale di seggi conquistati da
ciascun partito rispetto al totale tendeva a rispecchiare la percentuale dei voti ottenuti da quel partito
rispetto al totale.
6
partitico si proiettava, attraverso il sistema proporzionale sulla composizione delle
Camere
7
.
Il tema della riforma della forma di governo divenne attuale agli inizi degli anni
Ottanta, quando le forze politiche hanno iniziato a predisporre una “grande riforma”
che rendesse possibili governi più stabili e forti. Ma nonostante l’iniziale clima di
buoni propositi di cambiamento, le riforme istituzionali, volute da tutti i principali
partiti, sarebbero naufragate nei veti reciproci
8
.
Il primo significativo tentativo “endo-parlamentare” di porre in essere una
strategia di riforme si ebbe con l’istituzione, nel novembre 1983, della prima
Commissione parlamentare per le riforme istituzionali
9
; i lavori della Commissione
durarono 14 mesi e la relazione conclusiva venne presentata alle Camere nel gennaio
1985, approvata con limitati consensi, segno di un difficile dialogo tra i principali
partiti e di un clima di reciproca sfiducia
10
.
D’altronde una serie di temi delicati e cruciali non vennero trattati o
approfonditi in sede di dibattito ed in particolare ogni ipotesi di riforma elettorale
11
, tra
le tante proposte in Commissione venne accantonata. In definitiva, mancò un tanto
atteso disegno organico e la relazione finale del 1985, nonostante prevedesse la
modifica di una decina di articoli della parte prima della Costituzione, si limitò
7
Inoltre né gli stessi regolamenti interni delle Camere, riguardo la formazione dei gruppi parlamentari,
né le leggi sul finanziamento della politica contenevano norme volte a favore di una semplificazione del
quadro politico.
8
R. D’ALIMONTE e STEFANO BARTOLINI, (a cura di), Maggioritario finalmente? La transizione elettorale
1994-2001, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 18-27.
9
Nel corso della IX legislatura, durante il governo Craxi (1983-1986), preso atto delle richieste di
riforme istituzionali provenienti dai diversi gruppi parlamentari, le Commissioni affari costituzionali di
Camera e Senato deliberarono l’istituzione della “prima bicamerale”, nota come “Commissione Bozzi”,
dal nome del presidente, il cui compito doveva essere quello di vagliare tutte le varie proposte e
presentare alle Camere una relazione conclusiva.
10
G. AMATO e A. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, Il Mulino, 1997, pp.
384-386.
11
Sostanzialmente l’attività della prima bicamerale non produsse gli effetti sperati perché mancava
obiettivamente un consenso comune minimo per operare innovazioni significative. In merito alla
legislazione elettorale, si indicarono almeno i punti generali su cui si sarebbe potuta trovare un’intesa,
delimitando un’area di convergenza e il comune accordo si coagulò nei seguenti punti: il rifiuto di
clausole di sbarramento superiori a quelle esistenti; l’ancoraggio al sistema proporzionale per la
ripartizione dei seggi; una revisione del meccanismo delle preferenze; la limitazione delle spese
elettorali e l’introduzione di meccanismi atti a migliorare la selezione della classe politica, per consentire
il tanto atteso ricambio, ad esempio tramite elezioni primarie.
7
semplicemente a registrare ed esporre al Parlamento le posizioni dei rappresentanti
delle varie forze politiche
12
.
Soltanto agli inizi degli anni Novanta si sono create le condizioni politiche per
riprendere costruttivamente il cammino delle riforme
13
. In particolare due eventi
influenzarono in modo dirompente il sistema politico e partitico: innanzitutto le
inchieste giudiziarie del biennio 1992-3
14
, in secondo luogo la nascita di un movimento
popolare che si proponeva di attuare il cambiamento attraverso lo strumento
referendario
15
.
Il movimento referendario, patrocinato da Mario Segni, proponeva tre quesiti:
per la modifica delle norme di elezione della Camera dei Deputati con l’abolizione
della preferenza multipla
16
, per modificare in senso uninominale maggioritario la legge
elettorale del Senato e per l’estensione a tutti i comuni del sistema maggioritario,
12
F. TERESI, La strategia delle riforme, Torino, Giappichelli, 1998, pp. 46 ss.
13
La crisi dei regimi comunisti e la fine della Guerra Fredda determinarono la perdita sostanziale del
ruolo antagonista dei due principali protagonisti della “democrazia bloccata”. Il Pci, oggetto di un
ripensamento ideologico già dai primi anni ’80, realizzò una vera trasformazione dopo la caduta del
Muro di Berlino. Il 3 febbraio 1991, al XX congresso, fu ufficialmente approvata la trasformazione del
Pci in Pds e si verificò la scissione dell’ala sinistra più radicale: nasceva il Partito della Rifondazione
comunista. La DC, invece, perse il suo ruolo di alfiere dell’ideologia occidentale e anticomunista.
14
Sul processo degenerativo dei partiti politici, già in corso da tempo, si innestò il “fenomeno
Tangentopoli”: una serie di inchieste condotte su scala nazionale portò alla luce una realtà di corruzione,
concussione e finanziamento illecito dei partiti, che vedeva coinvolti centinaia di esponenti politici e
imprenditori. Nell’arco di un biennio di indagini avvenne lo scioglimento della DC e del PSI, i pilastri
di tante coalizioni di governo.
15
Si tratta del il COREL (Comitato per le riforme elettorali) costituito da parlamentari da altre
associazioni, presieduto dall’onorevole democristiano Mario Segni. Dopo aver raccolto nella primavera-
estate del 1990 ben 608.000 firme, depositò i tre quesiti presso la Corte di Cassazione; un ruolo
importante lo ebbero anche il Partito radicale e il CORID (Comitato per le riforme democratiche), detto
“Comitato Giannini”.
16
La riduzione delle preferenze esprimibili dall’elettore in sede di voto alla Camera fu discussa anche
durante i lavori della Bicamerale Bozzi e l’obiettivo dei referendari, con l’introduzione della preferenza
unica e nominale, doveva essere in questo caso quello di rendere molto più difficili eventuali
manipolazioni delle schede elettorali (aggiunta di preferenze su schede bianche, manipolazione dei
numeri di lista); inoltre, tale innovazione, dal punto di vista prettamente politico, teoricamente avrebbe
potuto ridurre competizione interpartitica e ricompattare le forze politiche, scongiurando il fenomeno
delle c.d. “cordate” di corrente: candidati della stessa lista che si alleavano, aiutandosi a vicenda e
scambiandosi le preferenze. Di solito il candidato organizzava la campagna elettorale nella sua provincia
indicando il suo numero di preferenza assieme a quello di colleghi candidati di altre province, che
facevano lo stesso nel loro ambito territoriale. Questo sistema, certamente discutibile per tanti aspetti,
era peraltro conveniente dal punto di vista economico, poiché limitava di molto le spese che venivano
suddivise fra i candidati della cordata, ognuno dei quali "presidiava" la sua fetta di territorio. La
preferenza unica rivoluzionò tutto il sistema, costringendo ogni candidato a misurarsi con gli altri in
circoscrizioni ben più ampie.
8
vigente per le amministrative in comuni con popolazione inferiore ai cinquemila
abitanti. Riguardo al Senato lo scopo dei riformatori era quello di ottenere l’abolizione
del quorum del 65% richiesto per l’elezione ai collegi senatoriali, favorendo in tal
modo l’estensione della componente maggioritaria già prevista per legge
17
.
La Corte costituzionale dichiarò ammissibile, tra i tre, soltanto il quesito sulla
preferenza unica, respingendo quello sulle norme per l’elezione del Senato e quello per
gli enti locali, poiché non rispondenti in modo esaustivo ai criteri di “chiarezza,
univocità e omogeneità” richiesti
18.
Le tre proposte vagliate dalla Corte erano
caratterizzate da un cospicuo grado di manipolatività essendo “operazioni di chirurgia
normativa effettuate su testi di legge”
19
e non semplicemente abrogazioni parziali.
D’altronde, questa può essere considerata una caratteristica tipica dei referendum
elettorali, poiché devono assolvere la delicata funzione di modificare una normativa
vigente, ma al contempo garantire la sopravvivenza di una normativa di risulta
autosufficiente e immediatamente applicabile.
Il referendum elettorale sulla preferenza unica si svolse il 9 giugno 1991 e,
seppure osteggiato dai socialisti, da parte della DC e dalla Lega Lombarda che
invitavano il proprio elettorato all’astensionismo, registrò una significativa affluenza
alle urne pari al 62,5% dell’elettorato, e oltre il 90% dei cittadini votò per il “sì”
20
. Il
17
237 collegi uninominali maggioritari, 77 seggi attribuiti proporzionalmente su base regionale.
18
Corte cost., sent., gennaio 1991, n. 47 “Sono assoggettabili a referendum popolare anche le leggi
elettorali relative ad organi costituzionali o di rilevanza costituzionale, alla duplice condizione che i
quesiti siano omogenei e riconducibili ad una matrice razionalmente unitaria, e ne risulti una coerente
normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell'eventualità di inerzia
legislativa, la costante operatività dell'organo. Quando siano rispettate tali condizioni, è di per sé
irrilevante il modo di formulazione del quesito, che può anche includere singole parole o singole frasi
della legge prive di autonomo significato normativo, se l'uso di questa tecnica è imposto dall'esigenza di
"chiarezza, univocità e omogeneità del quesito " e di " una parallela lineare evidenza delle conseguenze
abrogative ", sì da consentire agli elettori l'espressione di un voto consapevole”. Inoltre non era
sufficientemente chiaro l’obiettivo di introdurre al Senato il sistema maggioritario al posto del
proporzionale, col rischio di disorientare l’elettore, che dovrebbe invece avere sempre di fronte due
alternative nette. Nella fattispecie l’intento dei riformatori avrebbe condotto ad un profondo mutamento
della stessa forma di governo, attraverso radicali trasformazioni del sistema elettorale vigente.
17
A. CHIMENTI , Storia dei referendum, Bari, Laterza , 1993, p. 137.
18
L’esito del referendum segnò una tappa cruciale nel processo avviato, di transizione verso il
maggioritario; in un certo senso si può sostenere che i referendum popolari abbiano svolto la funzione di
catalizzatore imprimendo un’accelerazione al dibattito in sede parlamentare sull’urgenza di una “Grande
Riforma”.
9
significato del voto era eminentemente politico: esprimeva la volontà di cambiamento
degli elettori. Il Parlamento cercò di assecondare l’istanza di cambiamento attraverso
l’istituzione di un’apposita Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali
21
.
In questa fase il processo di revisione intrapreso seguì due vie differenti: in
ambito parlamentare si fece affidamento agli studi della Commissione bicamerale
22
,
mentre al di fuori delle aule parlamentari si continuò a percorrere una strada già
collaudata con il referendum sulla preferenza unica
23
. Già a partire dall’ottobre del
1991, sull’onda del recente successo, i referendari avevano rilanciato la raccolta di
firme per riproporre i quesiti per la riforma dei sistemi elettorali del Senato e dei
Comuni, rigettati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 47 del gennaio 1991,
debitamente riformulati.
Il referendum sostanzialmente "ritagliava" il testo della legge del 1948,
cancellando le parole concernenti l'alta percentuale (il 65% dei voti) prevista per
conseguire direttamente il seggio nel collegio, ma lasciando intatto il meccanismo
maggioritario. Inoltre, in caso di vittoria del “sì” alle urne, la legge vigente sarebbe
stata modificata, ma sarebbe rimasta comunque in vigore, consentendo la piena
operatività del Senato e allontanando eventuali riserve circa i rischi di una paralisi
istituzionale.
Sull’altro versante delle riforme istituzionali (in ambito parlamentare), i lavori
procedevano con lentezza e difficoltà, sostanzialmente non fu possibile approdare ad
21
La Commissione era composta da trenta deputati e da trenta senatori, rappresentativi di tutte le forze
politiche e si insediò il 9 settembre 1992, presieduta da Ciriaco De Mita e in seguito da Nilde Iotti.
Venne istituita dapprima con semplici atti di indirizzo, poi, con apposita legge costituzionale (legge cost.
n. 1/1993), le furono conferiti poteri referenti nei confronti di entrambe le Camere.
22
Vi sono alcune differenze importanti da rilevare rispetto alla prima bicamerale: in primo luogo i poteri
della De Mita-Iotti si esercitavano nel quadro di un procedimento ad hoc in deroga a quello previsto
dall’art. 138 Cost., pur rispettandone le fondamentali procedure da esso previste, compresa la doppia
lettura e prevedendo inoltre nella fattispecie un referendum obbligatorio (non facoltativo) sull’esito della
revisione. Un secondo aspetto riguarda invece le materie di competenza delle due Commissioni: come si
è visto, nel 1983 non si vollero porre limiti all’oggetto di revisione costituzionale, probabilmente anche
perché si confidava in una maggiore fiducia reciproca tra le classi politiche, in questo caso invece si
ritenne opportuno limitare il tentativo di revisione organica alla sola parte seconda del dettato
costituzionale (artt. 138 e 139 esclusi). Inoltre, l’obiettivo della Bicamerale era espressamente quello di
elaborare e presentare in Parlamento un progetto per una nuova legge elettorale, evitando il ricorso al
referendum.
23
A. CHIMENTI , Storia dei referendum, Bari, Laterza ,1993, pp. 130-135.
10
un progetto unitario in tempi brevi
24
. Il progetto parziale della De Mita-Iotti venne
presentato alle Camere nel gennaio del 1994, quando ormai lo scioglimento delle
medesime era già stato decretato e la nuova legge elettorale avrebbe presto mostrato i
suoi effetti. Con la sentenza n. 32 del 1993, la Corte costituzionale decretò
l’ammissibilità
25
del referendum, che si tenne il 18 aprile del 1993 con un’affluenza
pari al 77% e ben l’ 83% dei votanti si espresse per il “si”.
24
La Commissione dovette confrontarsi con almeno una dozzina di differenti progetti ed esaminarne altri
esterni Tra le molte proposte bocciate, fu respinta con fermezza qualunque ipotesi di soluzione in senso
presidenzialista, tesa a ridurre il decentramento regionale o mirante al monocameralismo. I no più
incisivi furono per le due formule di maggioritario puro sul modello inglese e per il mantenimento del
proporzionale puro.
25
Corte cost., sent., gennaio 1993, n. 32,“ Il fine intrinseco dell'atto abrogativo proposto e le
conseguenze dell'abrogazione sono apprensibili con chiarezza e compiutezza dal primo quesito,
concernente l'art. 17 co. 2, legge n. 29 del 1948, nel testo modificato dalla legge n. 33 del 1992. Fine
intrinseco è l'eliminazione del quorum del 65% dei voti validi prescritto nell'inciso finale per la
proclamazione dell'eletto nel Collegio, che finora ha reso di fatto inoperante, tranne in uno o due casi
isolati, il criterio maggioritario enunciato nella prima parte del comma; conseguenza dell'abrogazione è
la sostituzione del sistema attuale con un sistema misto prevalentemente maggioritario, e precisamente
maggioritario con unico turno per i 238 seggi da assegnare nei Collegi, proporzionale per i restanti 77
seggi aggiuntivi (pari a circa il 25% del totale di 315)”.
11