IX
ingenerato nell’Autore. Innanzitutto, il primo interrogativo: ”ma che
prodotti sono?”. E’ la prima domanda dell’uomo della strada. Pur
osservando la marca dell’insegna, spesso ci si può chiedere chi
produce determinati beni e quale sia il contenuto standard qualitativo.
La seconda domanda è “perché un consumatore dovrebbe comprare
un prodotto di questo tipo invece di un prodotto di marca?”, ma ci si è
accorti che le cose iniziavano a quadrare quando, anche solo
manipolando fisicamente l’oggetto nell’attività d’acquisto, ci si rende
conto del prezzo inferiore. L’uomo della strada comincia ad essere
contento. Fatte le dovute considerazioni, l’uomo medio inizia a fare i
suoi confronti e a pensare al “valore effettivo” che può avere questo
prodotto rispetto al prezzo e rispetto ad altri prodotti concorrenti; si
pensa alla qualità e al value-for-money. Ad un certo punto, però,
all’uomo della strada si sostituisce l’uomo marketing, che inizia a fare i
suoi ragionamenti, speculando su rapporto marca-insegna-prodotto, le
dimensioni della qualità, sui rapporti da imprese produttrici e
distributori e tutte le tematiche che tanto sono amate e considerate da
chi si appassiona al marketing, ed in particolare all’accoppiata
marketing distributivo/trade marketing.
In questo lavoro, quindi, può essere riconosciuto il portato di tutti e
due gli aspetti. Si cercherà di seguire uno schema piuttosto logico e
lineare, che ricalchi un ragionamento che parta da premesse e arriva
delle finalità. In particolare, si cercherà di analizzare prima di tutto
cosa sono i prodotti “di marca” e come costruiscono la loro forza (il
vantaggio competitivo) nel settore in cui operano, osservare come il
consumatore orienti la propria scelta e introducendo cosi il tema dei
prodotti del distributore, che sono l’esatta antitesi (almeno
all’apparenza) di un prodotto di marca. In seguito la domanda che è
Xsorta è stata “visto che produttori e distributori, con le loro politiche di
prodotto, si trovano a competere negli stessi settori, è possibile
ipotizzare una sorta di “concorrenza verticale” tra distributori e
produttori? Oppure esistono delle aree di collaborazione?”. Una volta
individuati questi fattori, e che il distributore ha intrapreso
decisamente una politica di prodotto, l’interrogativo finale è “come si
gestisce strategicamente un prodotto con la marca del distributore?”.
Infine si è cercato di rendere meno astrattamente teorico il discorso,
esemplificando il ragionamento fatto (la logica è: prodotto di marca-
caratteristiche-differenziazione sui valori fondamentali-prodotti del
distributore-realizzazione deglistessi-loro gestione strategica e
operativa) con un caso di assoluta eccellenza nel panorama Italiano,
cioè quello di Coop Italia. Eccellenza si, ma anche assoluta
peculiarità, visto che alla rivoluzione commerciale, Coop ha affiancato
una contro rivoluzione: quella del passaggio della mission aziendale
dal profitto tout court ad un coinvolgimento ed un attenzione maggiore
per chi quel profitto permette di conseguirlo, cioè il consumatore.
Saranno poi tratte delle opportune conclusioni riguardo a tutte le
osservazioni date, cercando cosi di dare delle risposte a tutti i quesiti
che sia l’uomo della strada che l’uomo marketing hanno posto, e che
sono poi l’anima di questo lavoro.
Capitolo uno
1
Capitolo 1: Il ruolo della marca nel settore dei beni di largo
consumo e l’interazione tra industria, distribuzione e
consumatori
1.1 L’Industria e la marca.
Nella moderna economia orientata in modo prevalente ad un sistema
di mercato si è affermata, pressoché in tutti i settori, la tendenza ad
una sempre più elevata competitività che progressivamente porta alla
selezione delle imprese più efficienti. Tutti i soggetti che sono parte di
un mercato, si trovano quindi alternativamente nella condizione di
essere competitivi (e quindi operare la selezione) oppure di
mantenersi difensivi (di agire quindi una posizione di followers, e, in
sostanza, di mantenere delle posizioni di mercato) con l’obiettivo,
comunque, di perseguire almeno l’economicità della gestione.
Questa, ovviamente, è una rappresentazione abbastanza semplificata,
visto che prescinde dall’aspetto gestionale, cioè il perseguimento dei
fini dei portatori di interessi istituzionali e dagli indirizzi strategici, ma è
efficace per evidenziare come in ogni caso la presenza in un mercato
di tipo concorrenziale e competitivo comporti e necessiti il confronto
tra diversi soggetti. La posizione e l’atteggiamento in questa
competizione sono determinati dalla capacità dei soggetti di poter
svolgere processi di tipo produttivo in modo più efficace e più efficiente
di altri: questa situazione è quella che gli economisti individuano con la
locuzione “vantaggio competitivo”.
Capitolo uno
2
Il vantaggio competitivo
1
, che può essere indifferentemente una
terminologia riduttiva o talmente ampia da essere assolutamente
vuota di significato, cela dietro di sé una serie molto vasta di attributi
che sono parte del patrimonio dell’azienda e che la rendono produttiva
o che comunque le permettono di svolgere la propria attività in modo
migliore o in ogni caso diverso rispetto ai competitori. Un buon punto
di partenza per un’analisi - anche superficiale - del vantaggio
competitivo è la scomposizione di due profili, che permettono di
classificare le caratteristiche di un’azienda: il primo relativo ai
“intangible assetts” ed il secondo legato ai “tangible assets”. I primi
(intangible) sono tutti gli attributi e gli elementi immateriali che tendono
ad aggiungere valore economico (migliorano quindi la capacità di
perseguire i fini dell’azienda) al complesso aziendale: si parla di know-
how, marchi e brevetti, conoscenze in esclusiva, information
technology; i secondi sono invece tutte quelle dotazioni che si è
abituati ad immaginare parlando di “capitale” in senso tecnico, cioè
impianti, macchinari, fabbricati, strumenti finanziari attivi e così via,
utilizzati nell’attività tipica svolta dall’azienda.
Il mix tra i due tipi di “assets” è una scelta strategica di grandissima
rilevanza per le imprese, ma è spesso una scelta “condizionata”,
indotta cioè dalle caratteristiche strutturali e competitive del settore
d’appartenenza.
I moderni sistemi produttivi stanno palesando una tendenza sempre
più marcata a dare peso preminente alla presenza di beni immateriali
all’interno del patrimonio aziendale. Come può esser motivata tale
evidenza? Innanzitutto andrebbe forse parzialmente rivisto il concetto
1
Per una trattazione estensiva, si può cfr. l’opera che ha inaugurato il filone dell’approccio
strategico alle aziende cioè Porter,M.” Competitive advantage”.
Capitolo uno
3
di bene immateriale, legandolo se possibile più ad una componente di
“conoscenza” che ad una di attributo semplicemente non materiale,
concetto spinto anche all’evidenza di un peso specifico altissimo nelle
economie di tutti i cicli produttivi: si parla così di licenze, brevetti,
database, ma soprattutto esseri umani “evoluti”. Detto questo,
l’importanza fondamentale delle risorse immateriali (che poi ne
giustifica la preminenza) è visibile sotto almeno due aspetti: inducono
differenziazione e stimolano le innovazioni, fattori presenti di tutte le
catene del valore delle aziende e alla base del loro vantaggio
competitivo.
Innovazione e differenziazione sono, in fondo, due facce della stessa
medaglia, cioè quella della competitività: competere in un mercato può
voler dire farlo con prodotti di assoluta novità (quindi componente
innovativa) oppure creando nel pubblico la percezione di
differenziazione, agendo sulla qualità (componente di differenziazione).
Quest’ultimo tipo di atteggiamento consiste nel proporre al mercato un
prodotto, che sarà poi identificato dalla domanda per mezzo di una
serie di attributi che lo distinguono da altri prodotti concorrenti.
Tutte e due le tipologie di vantaggio competitivo sono comunque
riconducibili allo stesso obiettivo: abbassare il più possibile il grado di
competitività di un mercato e fare tendere l’azienda ad una situazione
in cui essa possa perseguire profitti monopolistici
2
o “quasi-
monopolistici” per il periodo più lungo possibile. Nel momento in cui un
prodotto viene reso riconoscibile ed identificabile, si compie un
passaggio importantissimo nell’atteggiamento dell’azienda verso il
mercato. Si passa cioè da una scenario in cui l’unico obiettivo
2
Il riferimento è ovviamente alla teoria marginalista, della quale si può trovare estesa
trattazione anche in Rosen,H. Katz,M. “Microeconomics”,1998, McGraw Hill
Capitolo uno
4
coerente è quello della massimizzazione del profitto - finalità
sostanzialmente di breve periodo - (per la quale il cliente/utente finale
è strumentale) ad una nuova situazione in cui il fine principale
dell’azienda è quello di stabilire una relazione col cliente tramite il
prodotto, pensando in modo più deciso ad una relazione di lungo
periodo.
Il cambiamento per l’azienda è quindi, in sostanza, copernicano: il
cliente da strumento diventa obiettivo/assett e il prodotto invece passa
da obiettivo a strumento. La motivazione di tale cambiamento risiede
essenzialmente in una mutazione delle caratteristiche strutturali della
domanda dei beni di largo consumo, in cui in pratica gli agenti sono
diventati più informati e possono avere una più ampia possibilità di
scelta su un’offerta spesso poco differenziata, in settori vicino alla
maturità e perciò ad un prezzo tendenzialmente vicino a quello di
concorrenza.
Proprio per tutti questi fattori per le imprese operanti nel settore del
largo consumo crescere in quota (cioè conquistare una percentuale
delle vendite del mercato di riferimento rilevante rispetto agli altri
attori) e in marginalità (profitto sul singolo prodotto) è diventato
estremamente difficile e costoso, soprattutto in un periodo di tempo
breve o medio. Un obiettivo perseguibile invece è quello di mantenere
la quota esistente e di crescere in essa sul volume (cioè sul “quanto” si
vende): per fare ciò è necessario costruire una relazione che porti il
consumatore ad esprimere una preferenza stabile e lo induca a non
cambiare prodotto/produttore, con una visione, quindi, di lungo
periodo.
Il passaggio ad un obiettivo di questo tipo implica la costruzione di un
rapporto con il consumatore che poggi necessariamente su una base
Capitolo uno
5
sicura, che non può essere – riduttivamente - identificata col solo
“prodotto” in senso fisico, ma che deve comprendere tutto il patrimonio
di fiducia, competenze, conoscenze e valori, che possono anche non
essere rilevanti rispetto alla produzione in senso “tecnico”. Nell’ambito
dei beni di largo e generale consumo, la “base” di cui si parlava poco
innanzi è la marca, intesa quindi, in prima approssimazione, come
collante delle relazioni tra impresa e consumatori.
La marca è un valore talmente importante per le imprese proprio
perché costituisce la sintesi estrema della capacità di differenziazione
e di innovazione delle stesse, ed in più ne ritrae e ne riassume il
vantaggio competitivo. Affinché la marca possa svolgere tale ruolo di
substrato alle relazioni tra azienda e consumatori devono verificarsi
due condizioni fondamentali
3
:
- La marca deve essere in grado di alimentare l’azienda e di
autoalimentarsi attraverso l’innovazione.
- La marca deve diventare una piattaforma di sviluppo per l’azienda.
La prima condizione trova soddisfazione rispondendo alla domanda
“Quale valore reale è possibile attribuire alla relazione che sussiste tra
il cliente/consumatore e l’azienda?”, mentre la seconda condizione si
verifica nel momento in cui si individuano le modalità più economiche
per supportare il capitale di fiducia e di conoscenza costruito con la
relazione e di sfruttare tale supporto per estendere il valore prodotto
dalla marca alle possibilità di diversificazione settoriale o di mercato
dell’azienda (“effetto alone”). Le aziende che sono passate ad una
prospettiva cosiddetta di marketing relazionale investono quindi su
3
Cfr. Zara,C. “La valutazione della marca”,ETAS,1997
Capitolo uno
6
tutti quelli attributi che possano comunicare i valori di competenza
qualità e fiducia di cui il brand image è solo l’aspetto esteriore.
La relazione su cui si basa la marca ha per le parti che si interfacciano
con l’industria un significato diverso. La marca è, infatti, una delle più
significative risorse di fiducia che alimenta e rende duratura
l’interazione tra i soggetti interessati e l’azienda.
La capacità di relazione della marca verso gli altri soggetti deriva dal
cosiddetto “discorso della marca”, cioè la capacità di aggregare attorno
ad essa un complesso di associazioni, di percezioni e di opinioni che
attribuiscano un valore (dimensione della qualità percepita) ad un
prodotto che superi quello legato alla performance tecnica funzionale
(dimensione della qualità intrinseca). In poche parole, il “discorso della
marca” per i soggetti che si relazionano con l’impresa, ma di
conseguenza per essa stessa, costituisce una componente
differenziale di valore, che per i soggetti di cui sopra è di tipo
immateriale (vedremo che può essere sociale, personale ecc.), mentre
per l’impresa è un vantaggio diretto di tipo economico e finanziario
derivante dal potere monopolistico conseguito attraverso la marca.
Capitolo uno
7
Una volta stabilito il ruolo della marca, si tratta di vedere ora “cosa”
effettivamente essa contenga.
1.2 Le componenti della marca.
Una volta chiarito il ruolo della marca a livello strategico, vediamo nel
dettaglio qual è il significato anche economico per l’industria e per il
consumatore.
1.2.1 La marca per l’impresa.
L’espressione (già citata) di “brand equity” fa riferimento al valore
generato dalla marca per l’impresa. La brand equity è la capacità
dell’impresa di utilizzare lo strumento marca per:
- Generare valore economico a livello di profitti e dividendi, ma
anche di opportunità di sviluppo (nuove risorse a partire da
quelle esistenti).
- Rafforzare e stabilizzare le relazioni con i soggetti che si
interfacciano all’azienda (consolidare e rilanciare le risorse
esistenti, dati i costi dell’acquisizione di nuove risorse).
La capacità di generare valore economico in termini di profitti e
dividendi è ormai un fatto mostrato anche da numerose evidenze
empiriche. Una di esse è quella presentata nella figura 1.2 che
riprende un’analisi svolta dalla McKinsey
4
sulle prime 100 compagnie
della classifica di Fortune, unite poi ad altre trenta compagnie di media
e piccola dimensione (per rendere i dati più applicabili anche ad una
4
Cfr. “Mckinsey Quarterly review, 1999 number 2
Capitolo uno
8
realtà economica che effettivamente è fatta soprattutto di piccole
imprese).
I risultati mostrano come nei quattro anni dal 1993 al 1997 le aziende
che hanno puntato decisamente sulla leva marca (oltre che su altri
intangible assets) hanno ottenuto risultati in termini di dividendi (e
quindi di utili) superiori alla media dell’1,9%; coloro i quali hanno
ridotto gli investimenti sulla marca hanno visto i risultati ridotti del
3,5%.
Tali risultati assumono ulteriore rilievo analizzando anche la seconda
parte dell’assunto, cioè quello di generazione di valore in termini di
opportunità.
L’utilizzo della marca in questa ottica si chiama brand leverage,
oppure, con una locuzione italiana cui si accennava prima, “effetto
alone”, intendendo così l’utilizzo della marca come base per cogliere
le opportunità eventualmente presenti in mercati diversi da quello di
partenza, con una strategia di diversificazione. La diversificazione,
oltre a ridurre significativamente il rischio aziendale, può risultare una
Capitolo uno
9
fonte importante di profitto per l’azienda: non è un caso che infatti che i
soggetti che hanno delle brand diversificate abbiano dei risultati
notevolmente superiori alla media (sempre riferendosi alla figura
precdente sono i soggetti identificati con un uso della leva “forte”, cioè
che utilizzano la marca come piattaforma per conquistare altri
mercati).
Il brand leverage è però solo una parte del potenziale generativo di
valore della marca. E’ possibile individuare almeno quattro dimensioni
in cui si sviluppa il brand equity per l’industria.
5
POTENZIALE DI ESTENSIONE: la possibilità di utilizzare la marca in
molteplici contesti, oltre a tradursi in vantaggi di natura reddituale,
come mostrato, aiuta anche a perseguire migliori economie di scopo e
di velocità nella penetrazione di nuovi segmenti o mercati. La marca in
5
Cfr. La classificazione proposta da Claudio Zara all’interno di “La valutazione della
marca”, ETAS Libri, 1997
Capitolo uno
10
poche parole riesce a dare un contributo decisivo alle strategie di
sviluppo delle imprese.
POTENZIALE DI DIFFERENZIAZIONE: La non semplice imitabilità
degli intangible assett inerenti la marca, aumenta decisamente la
capacità di differenziazione, finendo così per innalzare barriere di tipo
monopolistico di notevole efficacia, che costituiscono un vantaggio
competitivo in termini di pricing (un prodotto che non ha perfetti
sostituti può sostenere un prezzo più elevato di quello di concorrenza)
o di marginalità per singolo prodotto (maggiori margini a parità di
volumi). Il potenziale di differenziazione ha un fondamento nella
capacità dell’impresa di essere “di marca”.
Il sempre crescente numero dei prodotti di marca nel nostro paese
riporta a due implicazioni: da un lato l’industria vuole essere “di marca”
e dall’altro che il consumatore/cliente riconosce il valore di un prodotto
“di marca”. Il sostegno di una marca, proprio a causa del potenziale di
differenziazione, richiede tutta una realtà continua di ricerca,
aggiornamento, promozione che permettano di confermare le
aspettative indotte dal “discorso della marca”: è la “faccia nascosta”
della industria di marca.
6
Quello su cui è necessario porre l’accento analizzando il potenziale di
differenziazione della marca non è tanto il potenziale comunicativo
della stessa e la sua influenza sul comportamento di consumo e
d’acquisto, ma soprattutto sul valore aggiunto che è in grado di fornire,
questa volta l’utilizzatore finale. La creazione di valore aggiunto verso i
soggetti destinatari è una caratteristica imprescindibile e si basa su
6
Cfr. Kapferer, Laurent “La marca”, Guerini e Associati, 1991, ma anche Lugli,G.
“Economia delle aziende commerciali” - vol. 2 ,UTET,1998
Capitolo uno
11
miglioramenti continui, col solo limite del costo che si è costretti a
scaricare a valle sul cliente/consumatore rispetto al proprio
posizionamento (il posizionamento è, in parole semplici, il livello di
prezzo relativo proposto rispetto ai concorrenti nello stesso mercato e
sullo stesso target).
La ricerca in questo senso deve tendere in due direzioni: assecondare
il più possibile i bisogni attuali dei consumatori e cercare di prevederne
l’evoluzione futura. Una volta che l’immagine di differenziazione e di
soddisfazione del bisogno è stata costruita si crea quella che è detta la
“promise”, cioè la promessa di prestazioni: il produttore che sostiene la
marca come elemento di differenziazione è “obbligato” a mantenere
costantemente coerente con la promessa il livello qualitativo del
prodotto, anche a costo di sacrificare la produttività. Una volta che si
intraprende la strada della marca, dal punto di vista del prodotto in se
stesso, la missione dell’azienda, di qualunque tipo e dimensione, non
è più produrre, ma rispondere meglio di altri ad una aspettativa che da
altri non è soddisfatta. La marca, come dicono giustamente Kapferer e
Laurent
7
, “deve creare”.
POTENZIALE DI APPRENDIMENTO: il rapporto tra prodotto, marca e
utilizzatore finale è legato dalla “promise”, che è alla fine il vero e
proprio rapporto di fiducia tra l’azienda e chi con essa si mette in
relazione. La fiducia porta, se alimentata, alla produzione di
conoscenza sia direttamente, attraverso il processo di attivazione della
attività di ricerca che parte dall’ambiente, sia in modo indiretto
attraverso la crescita autonoma della conoscenza che si autoalimenta
7
cfr. Kapferer e Laurent, op.cit.