Introduzione
I nuovi scenari, dopo decenni di gestioni perennemente “al passivo”, hanno
cambiato in modo radicale la dimensione economica e gestionale delle società
di calcio. Al pari di qualunque altra azienda economica, le società calcistiche
hanno l’obbligo di mantenere l’equilibrio economico-finanziario.
Questa tesi si propone di analizzare le strategie aziendali dei piccoli club della
serie A e, in particolare, di fare luce sulle opportunità e le prospettive future
dell’industria del calcio nel nostro paese.
Per far questo, ho ritenuto necessario in primo luogo dedicare la prima parte
del lavoro alla spiegazione del processo di evoluzione economica e giuridica,
dall’associazione sportiva a fine ludico-competitiva all’attuale industria del
calcio a scopo di lucro, delineandone le fasi “storiche” fondamentali: la
riforma della Figc del 1966, con il passaggio dalla forma associazionistica a
quella societaria senza scopo di lucro, la Legge n.91 del 1981, con
l’individuazione giuridica del calciatore professionista, e la sentenza Bosman,
con il riconoscimento della finalità di lucro e l’abolizione del vincolo sportivo.
Nella seconda parte del lavoro, invece, si pone uno sguardo d’insieme sulla
dimensione economica del settore calcio nel nostro paese, attraverso una
comparazione tra il nostro sistema e i principali tornei europei riguardo il
costo del lavoro, i fatturati, la capacità di generare utili, i ricavi commerciali e
da stadio, gli introiti televisivi e il marketing.
Alla luce dell’analisi, emerge come le vecchie strategie aziendali, orientate
prevalentemente alla massimizzazione dei diritti televisivi e alla gestione del
principale asset, i diritti alle prestazioni sportive dei calciatori, non sembrano
più capaci di generare ricavi sufficienti.
In particolare, si fa luce sulle problematiche legate agli stadi, principale fattore
di criticità del calcio in Italia, ritenendo che non esista un modello unico di
sviluppo, bensì un “modello stadio” adatto alle esigenze socio-economiche del
territorio.
Anche in presenza di complesse criticità, tuttavia, si costata come l’industria
del calcio nel nostro paese, secondo le stime, produrrà nella stagione 2010-
2011 un fatturato di 1,5 miliardi di euro. In considerazione di ciò, le grandi
2
risorse economiche a disposizione rappresentano la grande opportunità per
l’intero settore di creare delle strutture polifunzionali, asset patrimoniali e
generatrici di ricavi, al fine di ampliare il business e, in secondo luogo,
generare un impatto economico sulle economie locali: le società calcistiche,
anche alla luce delle esperienze straniere, hanno la possibilità di contribuire in
termini di PIL, crescita e occupazione e, in più, di creare valore sociale per la
comunità.
Nel lavoro proposto si approfondiscono le opportunità che i club hanno di
sancire un nuovo connubio con il territorio, un nuovo corso in cui business del
calcio e sviluppo socio-economico possano essere facce della stessa medaglia.
Nella terza parte del lavoro si analizzano le strategie aziendali delle piccole
società della serie A e, in particolare, si cerca di fare luce sulle prospettive
future delle “provinciali” in relazione ai nuovi scenari. Si costata come, nei
casi prevalenti, i piccoli club abbiano basato la loro pianificazione strategica
nell’ottica della “sopravvivenza” a breve/medio termine, facendo ricorso alle
strategie “tattiche” classiche: prestiti dai grandi club, con la conseguenza di
trovarsi in una posizione di dipendenza/subordinazione nei confronti degli
stessi; lancio di giovani talenti o calciatori in cerca di riscatto rastrellati nel
mercato globale; plus-valenze generate dalla cessione dei calciatori valorizzati
all’interno del club.
Alcuni piccoli club, attraverso dei piani di sviluppo a lungo termine, sono
riusciti ad ottenere dei vantaggi competitivi rispetto alla concorrenza. A questo
proposito, si fa luce su due modelli virtuosi: Il “progetto giovani” del Parma
Ac, un sistema innovativo di monitoraggio, selezione e gestione dei giovani
basato su una complessa rete di relazioni intersocietarie distribuita sul
territorio; l’esperienza della Reggina Calcio che, nonostante la lontananza dai
grandi circuiti geo-politici e dalle mappe dei poteri, ha raggiunto importanti
successi sportivi ed economici.
Alla luce dei nuovi scenari, anche i piccoli club hanno la necessità di
predisporre dei progetti che vadano oltre la gestione dell’asset dei “Diritti alle
prestazioni sportive dei calciatori”, bene caratteristico dell’azienda calcio ma
alquanto aleatorio. Le prospettive future sono orientate verso investimenti
consistenti, a differenza del passato, in infrastrutture a grande valenza
commerciale, patrimoniale e sociale che vengano a costituire nuovi “asset”
3
fondamentali al pari del parco giocatori, senza però la “volatilità” di questi
ultimi. E, parallelamente, concetti come “impatto economico sostenibile”,
responsabilità sociale e “marketing territoriale” possono essere considerati i
nuovi vantaggi competitivi delle nuove società di calcio “postmoderne”.
Le cosiddette “provinciali”, per uscire dalla “logica della sopravvivenza”,
hanno bisogno di concentrarsi sulla diversificazione dei ricavi e su nuovi asset
aziendali, centri polifunzionali e stadi di proprietà, in grado di incrementare le
poste patrimoniali e di generare vantaggi competitivi nel tempo, sia in termini
economici che sportivi.
Inoltre, le società di calcio, in un’ottica sistemica, hanno la possibilità di creare
un circolo virtuoso in cui, da una parte, usufruiscono dei benefici del territorio
in cui operano e, dall’altra parte, contribuiscono allo sviluppo economico e
sociale del sistema territoriale.
Secondo questa impostazione, si ritiene che la nuova mission dei club di
calcio trascenda la dimensione sportiva per inglobare quella economica e
sociale: radicarsi nel territorio, offrire servizi agli utenti, contribuire allo
sviluppo economico e produrre capitale sociale.
Il quarto capitolo, attraverso un’indagine sul campo, è dedicato all’analisi di
un club siciliano, il Calcio Catania S.p.A, e alla descrizione del progetto al
lungo termine della compagine catanese:
In una prima fase del progetto, il management societario ha concentrato le
risorse per coniugare gli obiettivi legati alla costruzione di basi organizzative
ed economiche agli obiettivi sportivi, finalizzati alla permanenza in serie A e
al rinforzamento graduale della squadra dal punto di vista tecnico-sportivo.
In una seconda fase, invece, la dirigenza ha investito le risorse economiche e
organizzative al fine di dotarsi di un centro sportivo polifunzionale che, oltre a
contemplare sede sociale, campi di calcio, servizi ricettivi e di servizio per la
1° squadra e per il settore giovanile, ingloba un’ idea innovativa: l’apertura al
pubblico della struttura attraverso piscine, spazi commerciali, centro benessere
e servizi vari. La struttura rappresenta il primo e fondamentale passo del
management societario: uscire dalla logica della “sopravvivenza” e radicarsi
nel massimo campionato nazionale come realtà capace di conseguire risultati
economici, valore sociale per la comunità e entertainment.
4
Nella terza parte del progetto, la “fase della maturità”, i piani di sviluppo del
club prevedono la realizzazione di uno stadio polifunzionale nel territorio di
Catania, ultima tappa del percorso intrapreso per radicare il club nel calcio
nazionale e aspirare all’ingresso nelle coppe europee nel medio/lungo termine.
5
Capitolo 1
Il settore economico dell’industria del calcio
6
1 ‐ Il processo di evoluzione economica e giuridica nel calcio:
Dall’associazione sportiva alle grandi aziende calcistiche
Le origino del calcio non sono simili a quelle di un qualsiasi settore economico: ebbe
inizio come un gioco, per divenire, attraverso un processo di trasformazione, un settore
economico di primo piano delle economie dei paesi industrializzati. In che modo il
calcio si è trasformato, nell’arco di pochi decenni, da attività ludica-competitiva a fini
“ricreativi” a settore strategico dell’industria del divertimento dei paesi
industrializzati?
Per rispondere a tale quesito, è necessario ripercorrere le tappe del processo di
evoluzione del settore calcistico che, a partire dagli anni ’60, ha visto crescere in
maniera esponenziale la dimensione economica e, parallelamente, le implicazioni
culturali e sociali del “gioco”. Per comprendere questo processo di evoluzione o, per
certi versi, di “rivoluzione”, bisogna fare riferimento alle reciproche influenze tra la
dimensione economica e quella giuridica: la crescita costante della dimensione
economica ha determinato l’intervento del legislatore per regolarizzare il settore ma, a
sua volta, la giurisprudenza ha contribuito a rivoluzionarne la portata e il significato
economico attraverso provvedimenti epocali.
Dal momento in cui si passa dal dilettantismo al professionismo, “dalla fase eroica
alla fase economica, il calcio diventa industria, i giocatori fattori di produzione, le
società di appartenenza datori di lavoro, le partite bene offerti sul mercato, gli
spettatori consumatori”
1
. Nei paragrafi che seguono, in breve, si cercherà di analizzare
le fasi che hanno sancito questo passaggio, soffermandosi sulle conseguenze
economiche che esse hanno apportato.
1
A., “Le società calcistiche. Implicazioni economiche di un “gioco”, Giappichelli, Torino, 1999.
7
1.1 ‐ Dalle associazioni sportive alle imprese economiche “a
metà”: Primi vagiti delle moderne società di calcio
Le società calcistiche, originariamente, furono costituite per consentire la pratica
atletico- agonistica dei propri membri e, conseguentemente, inquadrate come
associazioni non riconosciute. Dall’altra parte, fino alle soglie degli anni ’60, “le spese
di gestione erano modeste, si limitavano al sostenimento dei costi strettamente
necessari per l’acquisizione dei beni e delle attrezzature che permettevano l’esercizio
dell’attività. Gli atleti non erano remunerati, così come gli allenatori e le altre
persone che accompagnavano la squadra”
2
. La fattispecie giuridica adottata dai club
era quella dell’associazione non riconosciuta, secondo le disposizioni dettate dal
Codice Civile. Tuttavia, già a partire dagli anni ’60, per il concorso di una serie di
fattori (storici, culturali, politici ed economici), l’organizzazione del settore calcio
assunse delle dimensioni e funzioni che eccedevano i confini originari: si alzò il livello
tecnico delle competizioni che, tra l’altro, si estese a livello internazionale, i mass
media iniziarono ad interessarsi al prodotto calcio e, conseguentemente, contribuirono
alla crescita esponenziale dell’interesse pubblico sulle vicende agonistiche. In questo
contesto, la forma associativa si dimostrò del tutto inefficiente per far fronte alla
gestione di un’attività che, nella sostanza, “cominciava ad evidenziare le sue enormi
potenzialità in termini di movimento di denaro e capitali”
3
.
Fino ad allora, gli enti rispondevano alle esigenze di bilancio mediante un rendiconto
finanziario che non prevedeva nè la capitalizzazione dei costi d’acquisto del
patrimonio giocatori, nè l’ammortamento relativo agli oneri aventi carattere
pluriennale e, inoltre, vi erano problematiche legate ai controlli dell’attività gestionale.
Inoltre, il quadro giuridico tracciato dalla F.I.G.C nell’Art. 25 del regolamento del
Coni vietava espressamente la possibilità dello scopo di lucro e, di conseguenza, la
forma giuridica “imprenditoriale”, rimanendo anni luce indietro rispetto alla realtà
economica che si andava delineando. I club, ormai solo formalmente delle
associazioni, non riuscivano a sopravvivere attraverso il semplice contributo del socio,
rendendosi necessaria l’apertura al mercato e l’ assunzione di connotati
imprenditoriali.
2
Ibidem.
3
Ivi, pag 23.
8
A testimonianza di ciò, la figura del praticante-associato andava gradualmente a
scorporarsi da quella dell’atleta professionista, prestatore d’opera in cambio di un
compenso, e dai soggetti finanziatori, che si avvicinavano al calcio intuendone i
vantaggi “indiretti” di tale settore. L’inadeguatezza della forma associativa,
parallelamente alla mancanza di competenze manageriali tra i soci volontari,
determinarono il ricorso all’indebitamento e la crisi del sistema.
In questa situazione, seppur tardivamente, la FIGC, nell’anno 1966, approvò una serie
di provvedimenti per consentire il passaggio dalla forma associativa a quella
societaria:
1. Delibera del Consiglio federale della F.I.G.C del 16 settembre 1966, che stabilì
lo scioglimento delle associazioni calcistiche professionistiche e, in secondo luogo, la
nomina di un Commissario Straordinario per ogni società con poteri straordinari allo
scopo di costituire le nuove società aventi personalità giuridica;
2. Delibera del Consiglio Federale della F.I.G.C del 21 dicembre 1966, con la quale
il consiglio federale emanò uno Statuto-Tipo obbligatorio per tutte le società di serie A
e B;
La trasformazione in società di capitali obbligò le società all’adozione di un sistema
contabile economico-patrimoniale, parimenti alle altre aziende economiche, allo scopo
di garantire una corretta e trasparente amministrazione, nonché permettere controlli più
agevoli da parte della Federazione e il rispetto delle disposizioni in materia societaria e
fiscale. L’imposizione giuridica della forma “Società per Azioni” fu posta come
“conditio sine qua non” per l’erogazione del mutuo sportivo, nonché per la
concessione di agevolazioni tributarie.
L’obiettivo era quello di intraprendere una politica di risanamento del bilancio delle
società. La preoccupazione principale degli organi di vertice, in quel contesto storico,
risiedeva nell’ individuazione di un equilibrato mix tra i fini sociali e “ricreativi” del
calcio, soddisfatti “formalmente” dal modello associativo, e una corretta gestione
economica, orientata alla garanzia della regolarità delle competizioni. Per cercare di
soddisfare entrambe le finalità si decise di “partorire” una tipologia di società per
azioni “atipica”. Infatti, le disposizioni dello Statuto, oltre ad escludere “qualsiasi altra
finalità diversa da quella sportiva allo scopo di evitare che lo sport da fine possa
diventare mezzo per la realizzazione di fini alternativi”
4
, disponevano l’assenza dello
scopo di lucro, ovvero l’impossibilità di distribuire utili tra i soci ( lucro soggettivo),
4
“Il bilancio delle società sportive professionistiche”, M. Mancin, Cedam, Bologna, 2009.
9
riconoscendo, tuttavia, la possibilità di generare ricchezza attraverso l’attività sportiva,
con il vincolo di reinvestire gli eventuali utili verso le finalità di carattere sportivo (
lucro oggettivo).
In secondo luogo, l’articolo 19 dello Statuto imponeva il controllo esterno sulle scelte
societarie nei termini di una preventiva approvazione degli organi federali, in
particolare sulle questioni di natura finanziaria, riducendo l’autonomia decisionale dei
club: insomma, per certi versi, una forma di amministrazione controllata. Si veniva a
postulare, dunque, una nuova forma giuridica speciale relativa al settore calcio, una
“impresa economica ad autonomia limitata senza scopo di lucro”. Le delibere del
1966 non raggiunsero le finalità sperate, dal momento in cui il disavanzo complessivo
delle società di serie A e B, tra il 1972 e il 1980, passò da 18 a 86 miliardi
5
.
Le ragioni di questa crisi sono facilmente identificabili. Anche se il passaggio dalla
forma associativa a quella societaria rappresentò formalmente un punto di rottura, la
nuova società sportiva di capitali rimase sostanzialmente ancorata al passato. Questa
scelta, condivisibile per quanto riguarda lo sport dilettantistico, fu anacronistica e
spericolata per le società professionistiche di A e B che da tempo investivano ingenti
somme di capitale per competere a livello nazionale e internazionale.
1.2 ‐ La legge 1981/n.91: Contenuto e implicazioni economiche
La situazione economica delle società tra gli anni ’70 e ’80 mostrò l’inadeguatezza dei
provvedimenti adottati dalla federazione nel 1966 e la necessità di una riforma del
sistema. Tuttavia, secondo consuetudine italiana, si dovette aspettare un “evento
scatenante” per sollecitare l’ intervento riformatore: nel 1978, la Pretura di Milano
impose il blocco del “calcio mercato” appellandosi alla violazione della disciplina
sulla manodopera nel contratto di trasferimento dei calciatori
6
, mettendo a rischio il
regolare svolgimento del campionato. Il governo, per scongiurare la paralisi, emanò un
5
“L’industria del calcio”, Marzola, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1990.
6
La legge 23 ottobre 1960, n. 1369, sulla manodopera, vieta l’intervento di mediatori nella fasi di
stipulazione del contratto di lavoro subordinato. “Il bilancio delle società sportive professionistiche”, M.
Mancin, Cedam, Padova, 2009.
10
provvedimento in cui sancì l’impegno a introdurre, in breve tempo, una nuova
disciplina dello sport professionistico
7
.
In tale contesto si colloca la successiva legge 23 marzo 1981 n.91, un intervento
legislativo di ampia portata che intervenne su più fronti. Innanzitutto, fu riconosciuta e
disciplinata, per la prima volta, la figura dello “sportivo professionista”
8
, inserendo il
rapporto di lavoro sportivo nell’ambito della fattispecie del rapporto di lavoro
subordinato
9
. In particolare, la Legge 81/91 fissò alcune importanti regole che
qualificano le società sportive professionistiche:
1. Per quanto riguarda la forma giuridica, viene riconosciuta la possibilità di stipulare
contratti con atleti professionisti non solo alle società sportive costituite nella forma di
società per azioni, come previsto dalla riforma del ’66, ma anche alle società a
responsabilità limitata.
2. Riguardo l’oggetto sociale, viene riconfermato l’obbligo di reinvestire in toto gli
eventuali utili conseguiti per il “perseguimento dell’attività sportiva”, essendo
espressamente prescritto che l’oggetto sociale delle società professionistiche si
concentri esclusivamente nello svolgimento dell’attività sportiva.
3. il conseguente divieto di finalità di lucro (soggettivo), legato alla stessa definizione
dell’oggetto sociale, negato espressamente nel testo della legge.
La Legge del 1981, analogamente alla riforma federale del 1966, ha riconosciuto alle
società sportive di poter creare utili, quindi ricchezza, senza tuttavia poterli dividere tra
i propri soci, anomalia che, congiuntamente ad altri fattori, ebbe delle ripercussioni
negative.
In secondo luogo, il provvedimento rafforzò i poteri di controllo della Federazione nei
confronti delle società professionistiche:
1. “tutte le deliberazioni delle società concernenti esposizioni finanziarie, acquisti o
vendita di beni immobili, o, comunque, tutti gli atti di straordinaria amministrazione,
7
D.L 14 luglio 1978, n.367 “Interpretazione autentica in tema di disciplina giuridica dei rapporti tra
enti sportivi e atleti iscritti alle federazioni di categoria”.
8
“Ai fini dell’applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori e i
direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con
carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la
qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalla federazione stesse,
con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella
professionistica”, Capo 1, articolo 2 della L. 81/92.
9
In questa sede, non si approfondiscono tutti gli aspetti della legge n.91/1981, ma esclusivamente quelli
che ebbero conseguenze significative sull’assetto economico-finanziario delle società professionistiche.
11
sono soggetti ad approvazione da parte delle Federazioni Sportive Nazionali cui sono
affiliate”
10
.
Rispetto alla legge del 1966, quindi, furono estesi i controlli sugli atti di gestione delle
società alle operazioni riguardanti investimenti immobiliari e alle scelte inerenti alle
operazioni di straordinaria amministrazione;
2. “la federazione sportiva nazionale, per gravi irregolarità di gestione, può chiedere
al tribunale, con motivato ricorso, la messa in liquidazione della società e la nomina
di un liquidatore”(art 13). Le federazioni, non solo esercitarono un importante
controllo esterno, avevano anche il potere di decidere sulle sorti future delle società,
anche mettendole in liquidazione.
In terzo luogo, grande rilevanza assunse l’Art. 16, attraverso cui è stato eliminato, o
meglio, “ridimensionato”, il cosiddetto “vincolo sportivo”, definito come “l’istituto
che attribuiva ad un ente sportivo il diritto di avvalersi in modo esclusivo delle
prestazioni di un atleta, nonché il potere di precludere al medesimo di prestare la
propria opera al servizio di altra società”
11
. Lo sportivo che si tesserava presso una
società affiliata alla FIGC, prima dell’intervento legislativo del 1981, istaurava un
rapporto giuridico a tempo indeterminato non estinguibile senza l’assenso della
società di appartenenza, nemmeno alla scadenza del contratto stesso.
In sostanza, il calciatore poteva ottenere il trasferimento ad altra società solo nei casi di
rinuncia da parte della società alle prestazioni dello sportivo, inattività involontaria del
calciatore e cessione del vincolo ad altra società subordinato al consenso della società
cedente.
Il vincolo sportivo, fino al 1981, ebbe una funzione fondamentale per le società dal
punto di vista patrimoniale, dal momento in cui i calciatori, principale asset
patrimoniale, non avevano il diritto di liberarsi dalle società di appartenenza.
La L. 81/91, come detto, sancì l’abolizione del vincolo sportivo e, specificatamente
nell’articolo 13, denominato “abolizione del vincolo sportivo”, dispose che “le
limitazioni alla libertà contrattuale dell'atleta professionista, individuate come
"vincolo sportivo" nel vigente ordinamento sportivo, saranno gradualmente eliminate
entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge”.
La portata rivoluzionaria di tale disposizione fu attenuata dal comma successivo del
suddetto articolo in quanto l’atleta, alla scadenza del contratto, aveva la possibilità di
10
Art 12, secondo comma, L. 81/91.
11
Pag. 51, “le società calcistiche. Implicazioni economiche di un gioco”, A. Tanzi, Giappichelli, Torino,
1999.
12
stipulare un nuovo contratto con un’altra società, la quale, tuttavia, era tenuta a
corrispondere al club di appartenenza del giocatore la cosiddetta “Indennità di
preparazione e Promozione” (IPP). In sostanza, l’IPP fece “rivivere l’abrogato
vincolo sportivo”
12
, dato che le società, per acquisire le prestazioni di un atleta in
scadenza di contratto, dovevano comunque corrispondere una indennità economica di
un certo rilievo. In particolare, le caratteristiche dell’IPP erano:
a. Le modalità di calcolo dell’indennità, determinate in base al prodotto di due fattori:
“un parametro base”, derivante dalla media degli emolumenti globali lordi percepiti
dal calciatore nelle ultime due stagioni, un “coefficiente di moltiplicazione”, ricavato
attraverso una tabella a doppia entrata che conteneva valori ottenuti in base alla
considerazione congiunta dell’età del calciatore, la categoria della società di
appartenenza e di quella di destinazione.
Consideriamo, ad esempio, un calciatore 22enne militante nella serie B, in scadenza di
contratto, che ha percepito negli ultimi due anni uno stipendio medio di 1 miliardo di
lire
13
. Il primo parametro base è 1 (stipendio medio). Il secondo parametro è ricavabile
dalla tabella incrociando la colonna “B/A” ( categorie rispettivamente delle società di
appartenenza e di destinazione) con la riga relativa all’età del calciatore, “23 anni”: il
parametro ottenuto è 15.5. Moltiplicando i due parametri abbiamo: 1 * 15,5= 15,5
miliardi.
Nell’esempio riportato, la società che stipula il nuovo contratto al calciatore dovrà
versare ben 15 miliardi e mezzo delle vecchie lire alla società originaria, anche se in
scadenza di contratto.
b. Il termine entro il quale si estingueva il diritto a percepire l’IPP, in tutti casi, era di
due anni. Quindi, passati due anni dalla data di scadenza del contratto, il calciatore era
del tutto libero di accasarsi altrove senza pagamento di alcune indennità.
c. possibilità di deroga nella valutazione dell’IPP, la società titolare del diritto aveva
la possibilità di cedere l’atleta ad un prezzo inferiore al valore dell’IPP previsto
14
.
12
Pag 23, “Il bilancio delle società sportive professionistiche”, M. Mancin, Cedam, Padova, 2009.
13
Si usa il vecchio conio perchè i coefficienti di moltiplicazione erano riferiti alla Lira.
14
“Il bilancio delle società sportive professionistiche”, M. Mancin, Cedam, Bologna, 2009.
13
1.3 ‐ La legge 91/81: Quali conseguenze?
La Legge 91/81, nelle disposizioni in cui incideva nella gestione economico-
gestionale, non ebbe gli effetti auspicati. Anzi, per certi versi, rinforzò e rese più
espliciti le lacune della riforma del 1966. In particolare, riconfermò espressamente il
divieto dello scopo di lucro (soggettivo), percorrendo una visione romantica e idealista
del calcio professionista del tutto anacronistica.
In secondo luogo, rese i controlli esterni esercitati della Federazione ancora più
stringenti a tal punto da affievolire drasticamente l’autonomia delle società sportive
professionistiche.
In terzo luogo, pur eliminando il cosiddetto “vincolo sportivo”, partorì l’ indennità di
Promozione e Preparazione (IPP) che, nella sostanza, era pienamente assimilabile al
vincolo sportivo.
Le conseguenze di queste “scelte conservatrici” furono quelle di “introdurre, seppur
involontariamente, un nuovo e ulteriore ostacolo al risanamento economico-
finanziario delle società professionistiche
15
”. Nello specifico, il divieto dello scopo di
lucro soggettivo, ovvero l’impossibilità di dividere i redditi d’impresa tra i soci, è stato
indicato come “il fattore principale dell’incapacità della società sportiva di produrre
stabilmente dei risultati positivi
16
”.
Infatti, da un punto di vista aziendalistico, è opinione comune che l’impossibilità di
remunerare il capitale investito impedisca l’istaurarsi di un “meccanismo di
autocontrollo” negli azionisti. Questi ultimi, non avendo la possibilità di generare utili
dall’attività calcistica, hanno posto una scarsa attenzione alle condizioni di equilibrio
economico-finanziario nella gestione, ricercando piuttosto remunerazioni indirette “in
termini di ritorno di immagine e popolarità che pochi altri canali possono assicurare
al medesimo costo
17
” e rincorrendo in maniera scellerata il successo sportivo,
consapevoli del prestigio e della visibilità che ne consegue. L’investimento in
“un’impresa a perdere” assumeva un valore extraeconomico nel momento in cui
l’obiettivo principale di una società calcistica “non stava nell’equilibrio dinamico di
bilancio ma nel successo e nel prestigio sportivo
18
”.
15
Pag 27,“Il bilancio delle società sportive professionistiche”, M. Mancin, Cedam, Bologna, 2009.
16
“Il bilancio di esercizio nelle società di calcio professionistiche”, G. De Vita, Fondazione “Artemio
Franchi”, 1998.
17
Ivi pag. 10.
18
Ivi, pag. 25.
14
Dall’altra parte, la decisione di inasprire l’apparato dei controlli esterni della
Federazione sulla gestione delle società, nella speranza di imporre dall’alto la giusta
condotta economico-finanziaria, ebbe altri effetti negativi: le società sportive, già
private “ex lege” della piena autonomia economica, a causa del divieto dello scopo di
lucro (soggettivo), si ritrovano limitate anche sul versante dell’autonomia decisionale,
in deroga ai principi del codice civile, e costrette a “rendere conto, esternamente e in
via preventiva, di tutte le principali scelte di gestione per le quali è richiesto il
benestare delle Federazioni
19
”, vanificando il compito del collegio sindacale, organo
preposto alla tutela della regolarità degli atti compiuti dagli amministratori.
Inoltre, la riforma eliminò, almeno sulla carta, il vincolo sportivo, quell’istituto che
permetteva di legare a tempo indeterminato un calciatore alla società di appartenenza,
indipendentemente dal volere dell’atleta. Questo ebbe effetti negativi sulla solidità del
patrimonio e sulle modalità di ammortamento: infatti, prima dell’eliminazione del
vincolo, il cartellino dell’atleta era a disposizione del club a “tempo indeterminato” e,
di conseguenza, veniva usualmente ammortizzato lungo l’intera carriera. Tale prassi
contabile, venuto meno il vincolo, fu abolita.
Per proteggere il patrimonio dei giocatori, la legge sostituì, come detto sopra, il
vincolo sportivo con il vincolo dell’IPP, la quale, se da una parte tutelò le società da un
punto di vista patrimoniale, dall’altra innescò un circolo vizioso che portò le società ad
aumentare vertiginosamente gli emolumenti dei calciatori professionisti, per due
motivi sostanziali: da una parte, per legare a sé il calciatore, dall’altra parte, a causa del
“perverso” meccanismo di calcolo dell’IPP
20
, basato sullo stipendio medio degli ultimi
due anni. Si può concludere che, da una parte gli effetti perversi innescati dall’IPP,
dall’altra parte le conseguenze esaminate sopra in merito al divieto di finalità di lucro e
al penetrante sistema di controlli sulla gestione, rappresentarono le principali criticità
del settore calcio.
19
Pag.19, “Il bilancio delle società professionistiche”, M.Mancin, Cedam, Bologna, 2009.
20
Significato e modalità di calcolo dell’ IPP, vedi paragrafo precedente.
15
1.4 ‐ La sentenza Bosman: La nuova dimensione economica
dell’azienda calcistica
L’intervento della Corte di Giustizia della Comunità europea che, con la pronuncia
avvenuta in data 15 settembre 1995 (c.d “sentenza Bosman”), diede una spinta decisiva
verso il riconoscimento della natura economica del calcio. Ancora una volta, come di
consueto, il cambiamento era innescato dall’ingerenza dell’autorità giudiziaria.
In breve, il calciatore Bosman, in scadenza di contratto, si rivolse al Tribunale di Liegi,
perché la sua società di appartenenza, il Rc. Liegi, gli impedì il passaggio verso la
società francese del Dunkerque, con la quale aveva avviato personalmente la trattativa.
Il Tribunale di Liegi, nutrendo dubbi sull’interpretazione della questione, interpellò in
via pregiudiziale la Corte di Giustizia Europea, appellandosi all’art. 177 del Trattato
CE, per pronunciarsi sulla legittimità riguardo quelle normative degli ordinamenti
sportivi le quali stabilivano:
1- che le società potessero pretendere il pagamento di un indennizzo, anche a contratto
scaduto, per il trasferimento di un proprio calciatore ad altra società (nella fattispecie
italiana, l’IPP);
2- che le organizzazioni sportive potessero limitare la partecipazione di giocatori
stranieri, cittadini di Stati della Comunità europea, alle competizioni sportive
21
.
Dopo lunghe controversie, la Corte di Giustizia Europea si pronuncia accogliendo il
ricorso di Bosman e, di conseguenza, trattandosi di una sentenza della Corte di
Giustizia Europea, essa ebbe effetti immediati in tutti gli ordinamenti degli Stati
membri: i punti contestati di cui sopra, vengono considerate incompatibili con le
norme dell’Unione Europea sulla libera circolazione dei lavoratori (Art. 48 Trattato
CE) e sulla tutela della concorrenza ( Art. 85 e 86 Trattato CE).
La sentenza obbligava gli Stati membri ad uniformare gli Statuti delle Federazioni,
abolendo le limitazioni concernenti il numero di calciatori stranieri schierabili nei casi
in cui erano cittadini degli Stati membri ( non si pronunciava sulla questione degli
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In quel momento vigeva la regola del “3+2”, in forza della quale le società potevano schierare un
massimo di tre stranieri e due “assimilati”, cioè calciatori che avessero giocato nello stesso paese
ininterrottamente per cinque.