suoi ancor più folli crimini. Un tempo in cui tante, troppe
culture si sono ammalate, perdendo la loro identità. Gli Ainu
nell’Hokkaido, gli Aranda nell’Australia centrale, i Navajo
negli Stati Uniti, sono solo alcuni esempi di società tradizionali
la cui sopravvivenza è stata messa a repentaglio.
Non che oggi tutto il giardino goda di buona salute. Oggi,
a differenza di ieri, c’è più di qualcuno che si cura di quelle
culture: politici, economisti, giuristi, storici, filosofi,
antropologi. Già, anche gli antropologi, che più di tutti
dovrebbero saper guardare alle società tradizionali con gli
occhi di coloro che di queste sono figli; e che invece, anche in
un passato non troppo remoto, hanno appoggiato gli interessi di
chi a queste società guardava con arrogante, quanto sciocco,
senso di superiorità. Alterare la loro identità, è come dare ad un
essere vivente una luce diversa da quella di cui ha bisogno.
In questo contesto mi sono mossa nella realizzazione di
questo elaborato sulle società tradizionali, tracciando un
percorso che va dalla questione della loro definizione ad una
rivalutazione delle potenzialità intellettuali e del patrimonio di
conoscenze di cui esse sono “portatrici”, passando per la difesa
dei loro diritti e la tutela delle loro forme espressive: cercando,
in tutti i passi di questo percorso, di mettere in evidenza il
punto di vista di coloro che di queste società fanno parte, anche
attraverso una critica di alcuni approcci antropologici
( evoluzionismo, funzionalismo, relativismo culturale ed
indigenismo ) ormai superati ed il racconto di una mia
personale esperienza presso una di queste straordinarie
comunità ( quella degli Ainu ).
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Capitolo I
Popoli indigeni o società tradizionali?
1. Indigeni ed aborigeni: una rassegna di definizioni
Coloro che attualmente vengono definiti popoli indigeni,
solo negli anni ottanta escono alla luce del sole, quando
l’opinione pubblica dei paesi ricchi prende atto della loro
specificità culturale, economica e sociale. Eppure le cosiddette
popolazioni indigene non rappresentano per nulla un nucleo
esiguo della popolazione mondiale, al contrario, costituiscono
la maggior parte della popolazione del sud del mondo. Sono
queste popolazioni fortemente legate ad usi e costumi
tradizionali, che per la loro unicità sviluppano un profondo
senso di identità che tende a non conformarsi con i valori della
cultura dominante.
Non esiste una definizione univoca di popoli indigeni. In
ambito internazionale, la Convenzione 169 dell’ILO definisce i
popoli indigeni come :
“ discendenti di quelli che vivevano nell’area prima della
colonizzazione. Hanno mantenuto le proprie istituzioni sociali,
economiche, culturali e politiche dopo la colonizzazione e la
creazione di nuovi stati ” <www.internazionalebasso.it> [data
di ultima consultazione: 5 febbraio 2008].
Ancora, possiamo citare la definizione suggerita dal
relatore speciale Martinez Cobo alla Sottocommissione delle
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Nazioni Unite per la Prevenzione delle Discriminazioni e
Protezione delle Minoranze (1986):
“ Comunità, popoli e nazioni indigene sono quelle che,
mantenendo una continuità storica con le società precedenti
all’invasione e precoloniali che si sono sviluppate nei loro
territori, si considerano distinte da altri settori delle società
attualmente dominanti in questi territori o in parti di questi.
Rappresentano un settore non dominante della società e sono
determinati a conservare, sviluppare e trasmettere alle
generazioni future i propri territori ancestrali e la propria
identità etnica come base per la continuità del popolo in
armonia con le proprie istituzioni sociali, i sistemi legali e la
cultura ” ( ibidem ).
Infine, la veterana presidente del Working Group on
indigenous People all’interno delle Nazioni Unite, Erica Irene
Daes, nei suoi rapporti descrive i popoli indigeni come:
“… discendenti di gruppi che occupavano il territorio di un
paese nel momento in cui arrivavano altri gruppi con culture e
origini etniche differenti. L’isolamento da altri settori della
popolazione del paese gli ha permesso di preservare quasi
intatti i costumi e le tradizioni ancestrali, le quali sono simili a
quelle caratterizzate come indigene. Sono situati, anche se non
formalmente, sotto una struttura statale che incorpora
caratteristiche nazionali, sociali e culturali diverse dalle
proprie” ( Daes I.: 2000 ).
Con il termine “aborigeno” invece ci si riferisce
generalmente ai nativi del continente australe, mentre alle
popolazioni originarie del continente latino-americano viene
attribuito il termine “indio” o “amerindiani”.
12
2. Aspetti etimologici
Quando nel nostro linguaggio utilizziamo i termini
“aborigeno” e “indigeno”, dobbiamo però considerare che
questi sono entrambi termini di origine latina. Sono quindi
termini italiani, europei. Con essi si indicano i nativi di un
certo luogo. Tuttavia non è consuetudine chiamare aborigeno
od indigeno un parigino (o un milanese) in ragione del fatto
che sia parigino (o milanese) di provenienza.
Anche nelle traduzioni dei dizionari, è possibile
osservare come il significato dei suddetti termini venga
circoscritto a quelle popolazioni che abitavano determinati
territori prima ancora che l’attuale cultura dominante vi si
imponesse. Sono quindi termini coniati dai nuovi arrivati per
designare chi era lì prima del loro arrivo, con un’accezione
piuttosto negativa: vi è una sottile allusione a qualcosa di
sbagliato, anacronistico, fuori posto; oppure, in un’ottica più
“benevola” ed “indulgente”, gli indigeni diventano soggetti
folcloristici - che suscitano un curioso interesse, quasi
consistessero in oggetti di turistico divertimento, a parer mio.
Solo con l’universalismo illuministico è riuscita a farsi
strada l’idea che nessun essere umano possa essere considerato
straniero in alcuna parte del mondo. Ciò nonostante, questo
principio sembra acquisire validità solo in riferimento ad
alcuni; gli altri, i cosiddetti indigeni, rimangono stranieri anche
là dove sono nati.
In realtà queste parole e questi concetti, retaggio
dell’epoca coloniale, resteranno a far parte del linguaggio e più
in generale della forma mentis dell’europeo ricco, erede dei
colonizzatori, perlomeno fin quando quest’ultimo continuerà a
sentirsi tale. Riconoscere i diritti di tutti elimina infatti la
presunzione con la quale utilizziamo l’intervento umanitario
con lo spirito del donatore, di chi elargisce doni gratuiti,
13
quando invece si tratta semplicemente di rispettare i “diritti
universali dell’uomo”, e il nostro intervento non è che
l’attuazione di un dovere storico; che non sarà però portato a
compimento finché si parlerà di indigeni o aborigeni senza
render chiaro che indigeni o aborigeni siamo tutti o non è
nessuno ( Sarti T.: 2001 ).
Vista dunque l’ambiguità dell’allocuzione popoli
indigeni, sembrerebbe più appropriato parlare di società
tradizionali ( Palmeri P.: 2007 ). A dirla con le parole di Paolo
Palmeri:
“L’allocuzione Indigenous Peoples ha dunque una
connotazione generica. Società tradizionali invece mette
l’accento sulla conservazione dei modi e comportamenti di
una cultura tramandata di generazione in generazione, sul
fatto che sono delle comunità, che sono società ai margini del
MdPC e che sono economie di sussistenza” ( Palmeri P.:
2007: 59 ).
Volendo dare una definizione che ne evidenzi dei tratti
comuni e le caratterizzi a livello nazionale ed internazionale, si
può affermare che: le società tradizionali sono costituite da
comunità che preesistono alla cultura dominante del paese in
cui vivono, e che si distaccano completamente da questa
conservando costumi, abitudini, visioni del mondo, e valori che
li vincolano ad un sistema di tradizioni ancestrali. Abitano
aree territoriali che i propri antenati avevano scelto per lo
sviluppo della propria comunità, e che in un percorso
millenario sono rimaste nelle mani dei discendenti; oppure
sono relegati in aree imposte in seguito a persecuzioni o in
base alla volontà dell’invasore.
14
In particolare l’autodefinizione, la cui rilevanza viene
sottolineata nella Convenzione 169, è un passo fondamentale
per l’autodeterminazione delle società tradizionali. I
rappresentanti di queste società hanno da sempre lottato per la
libertà di esprimere in prima persona le proprie caratteristiche
distintive, definendo in questo modo i parametri in base ai
quali determinare i membri costitutivi del proprio popolo
<www.internazionalebasso.it> [ data di ultima consultazione:
5 febbraio 2008].
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3. Società tradizionali: considerazioni generali
Gli antropologi si sono sempre occupati dello studio delle
società tradizionali, sebbene durante il periodo del
colonialismo abbiano asservito le proprie conoscenze a governi
corrotti ed oppressivi, che perseguivano la politica del “più
forte” nei confronti di quelle comunità pacifiche non abituate al
confronto armato: in un’epoca di dominazione, questi studiosi
hanno saputo sfruttare il proprio sapere riguardo alle società
tradizionali per avvantaggiare un modello economico, politico,
culturale a queste estraneo ( come scienziati sociali esigevano
rispetto riguardo alle loro illazioni su una presunta inferiorità
intellettuale propria delle società tradizionali).
Tutto ciò è durato finché negli anni sessanta le università
americane ed europee hanno cominciato a colorarsi dei toni
accesi dei movimenti radicali, per scagliarsi contro le
sopraffazioni e lo sterminio subiti da queste comunità, vittime
inizialmente del colonialismo, ed in seguito dei vari frutti
avvelenati che questo sistema tutt’altro che democratico aveva
generato. Si allude qui al neocolonialismo, ed all’imperialismo
a tutt’oggi subordinato ai cardini del consumismo, della
globalizzazione e del potere manipolatorio dei mass media.
In questo clima di protesta spiccano a livello mediatico i
movimenti in favore degli indios del Centro e Sud America,
vittime dell’alienazione e dei soprusi di cui le multinazionali e i
narcotrafficanti sono i maggiori autori. E così il concetto di
popoli indigeni viene associato generalmente agli indigeni del
Centro-Sud America e agli Indiani dell’America settentrionale,
essendo quelle popolazioni la cui situazione è tra le più
dibattute nel contesto della politica internazionale, e che in
occasione dei vari convegni hanno saputo difendere la propria
posizione con notevole veemenza ( Pameri P.: 2007 ).
16
E’ importante tuttavia andare oltre questa prima fase di
dibattito politico plasmato da un’influenza mediatica, per poter
affrontare il tema delle società tradizionali in un senso più ampio,
abbracciando tutte le popolazioni a livello globale che vivono in
condizioni di marginalità e di precarietà per quanto attiene alla
tutela dei propri diritti, senza discriminazioni geografiche.
Una stima precisa di quante persone nel contesto mondiale
appartengano a società ancora tradizionali è piuttosto difficile da
fare, ma probabilmente i trecento-cinquecento milioni calcolati
approssimativamente dall’Human Rights Center dell’Università
del Minnesota ( University of Minnesota: 2003 ) sono soltanto un
valore approssimativo, se si considerano anche quelle comunità
rimaste a tutt’oggi isolate in zone difficilmente raggiungibili.
Pensiamo ad esempio a talune aree agricole e montagnose della
Cina, nella parte asiatica dell’ex-Urss, in India, negli altipiani
dell’Indocina, nelle zone remote dell’Indonesia, delle Filippine, del
Madagascar, ed ancora alle comunità di pastori nomadi o
transumanti del Medio Oriente, spaziando poi dalle innumerevoli
popolazioni tradizionali dell’Africa al Sud America, e via dicendo.
La stima si fa chiaramente molto più ampia ( Palmeri P.: 2007 ).
Ed è grazie a queste società tradizionali che possiamo ancora
contare sulla tutela di più del novanta per cento della diversità
biologica che la natura riesce ancora ad offrirci al di là dell’impatto
antropogenico gravante su di essa. Per non parlare poi delle
differenze culturali, sociali, politiche ed economiche in cui Lévi-
Strauss ( cfr. C. Lévi-Strauss: 1952 ) individuava il motore della
storia e del progresso dell’umanità. La loro specificità può
allargare l’ampiezza dello sguardo spesso unidirezionale dell’uomo
occidentale, permettendogli di ammirare le mille facce di quel
“prisma” che è la cultura globale, così ricca di contrasti nella sua
interezza; contrasti che colorano il nostro modo di vedere ogni
cosa in un gioco di linguaggi, costumi e forme espressive,
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intrecciandosi quando una cultura tende la mano all’altra, creando
così, secondo Paolo Palmeri, nuovi effetti inaspettati, stimolo di
progresso ed innovazione ( Palmeri P.: 2007 ).
Ma se queste popolazioni sono così diverse e lontane tra
loro - alcuni hanno scelto come propria dimora delle
montagne, altri delle pianure, o plaghe torride o distese di
ghiaccio polare, mentre altri ancora si spostano regolarmente
attraversando deserti o aree fitte di foreste intricate - , cos’è che
le unisce e ci induce a chiamarle tutte tradizionali?
E’ appunto l’attaccamento ad un tradizionale modus
vivendi che si distingue dalla globalizzazione omologante,
caratterizzato da una visione cosmologica e da legami di
solidarietà che li vincolano ad una tradizione; la loro cultura e
la storia affondano radici profonde nelle terre dei loro antenati,
e per questo lottano per preservarla nel tempo.
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