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CAPITOLO I
Dal Senato del Regno alla nascita del Senato
repubblicano
1. Il Senato italiano nello Statuto Albertino
Prima di ripercorrere l’acceso dibattito che in Assemblea Costituente portò
all’adozione del bicameralismo perfetto, ancora oggi oggetto di numerose critiche e
tentativi di riforma, è opportuno illustrare tramite un breve excursus storico il
funzionamento del Senato italiano in epoca statutaria.
In Italia la tradizione parlamentare bicamerale risale al periodo preunitario e trova
una prima codificazione fondamentale nello Statuto del Regno di Sardegna, emanato da
Carlo Alberto nel 1848 e dopo l’unificazione esteso a tutto il Regno d’Italia. Nella forma
di governo statutaria e, in particolare, nella struttura parlamentare bicamerale, è evidente
l’influenza delle Costituzioni francesi del 1814 e del 1830 e di quella belga del 1831 che
sarà oggetto di studio nei prossimi capitoli.
Lo Statuto prevedeva un sistema bicamerale fondato su una Camera elettiva, la
Camera dei deputati, e un Senato composto da membri nominati a vita dal Re (senza limiti
di numero), che costituiva la diretta emanazione del potere monarchico. Nella Camera
alta avrebbero dovuto trovare rappresentanza le principali virtù e capacità del Regno e
avrebbe avuto il ruolo fondamentale di moderare e coordinare l’attività legislativa,
arginando i “bisogni immaturi o fittizi” della Camera bassa
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. Dal punto di vista delle
attribuzioni lo Statuto prevedeva una situazione di sostanziale parità tra le due Camere,
ad eccezione della priorità attribuita alla Camera dei deputati in relazione ai diritti
d’iniziativa per le leggi d’imposizione dei tributi e di approvazione dei bilanci e dei conti
dello Stato, sui quali il Senato manteneva comunque eguali diritti per l’esame e per il
voto.
3
F. Racioppi, I. Brunelli, Commento allo Statuto del Regno, Torino, 1909, p. 206.
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Fu con l’ascesa di Camillo Benso conte di Cavour alla Presidenza del Consiglio e
con l’unificazione del Regno d’Italia che cominciò ad affermarsi per via consuetudinaria
una progressiva preminenza della Camera bassa su quella alta, dando vita al fenomeno
del “bicameralismo zoppo”.
Il bicameralismo previsto dallo Statuto rimase solo formalmente paritario: la Camera
dei deputati iniziò a ricoprire un ruolo sempre più attivo sullo scenario istituzionale,
mentre parallelamente risultava sempre più evidente la debolezza del Senato. Questa
situazione di inferiorità della Camera alta fu determinata da diversi fattori: il Senato, non
elettivo, rimaneva un’istituzione lontana dalla volontà popolare, lacerata dalle rivalità
interne alla nobiltà e dall’ostilità del clero nei confronti dello Stato.
A mettere ulteriormente in discussione il prestigio del Senato fu poi la prassi delle
c.d. “infornate”, cioè l’aumento illimitato del numero dei senatori attraverso nomine
periodiche possibile a causa della mancata fissazione nello Statuto di un limite massimo
nella composizione della Camera alta: basti pensare che dal 1848 al 1892 il numero dei
senatori aumentò da 58 a 464. Per la nomina di questi era richiesto un decreto del Re
controfirmato dal Ministro dell’Interno e, dopo il decreto Zanardelli del 1901, anche dal
Presidente del Consiglio – previa deliberazione del Consiglio dei Ministri.
Le “infornate”, che venivano utilizzate per alterare gli equilibri parlamentari in
favore del Governo, modificando di volta in volta la composizione e l’orientamento
politico dell’Assemblea, contribuirono a fare dei senatori gli “invalidi della
Costituzione”
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: deboli e incapaci di fronte al Re e ai Ministri che li nominavano e che
potevano in qualsiasi momento alternarne la maggioranza.
Rimase minoritaria quella parte della dottrina
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che attribuiva all’art. 60 dello Statuto
- che stabiliva che ciascuna Camera fosse “competente per giudicare della validità dei
titoli di ammissione dei propri membri” - un significato di vero e proprio controllo sulle
nomine regie e governative. Secondo l’opinione prevalente l’art. 60 faceva riferimento
semplicemente alla verificazione e al riconoscimento da parte del Senato della legittimità
formale dell’atto.
4
L. Palma, Corso di diritto costituzionale vol. II, Firenze, 1877-80, p. 265.
5
S. Bonfiglio, Il Senato in Italia, Op. Cit., pp. 18-19.
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2. Le ipotesi di riforma nel periodo statutario
Il dibattito su una possibile riforma del Senato, che lo rendesse realmente dotato
dell’autorità e del potere necessari per controllare la Camera bassa, si aprì nel mondo
politico italiano già nel 1848 e proseguì in modo ancora più acceso dopo la nascita del
Regno d’Italia e l’affermarsi della pratica delle “infornate”.
Nella fase preunitaria in tutte le ipotesi di riforma rimaneva chiara la volontà di
mantenere vivo il dualismo tra una Camera dove predominasse l’elemento popolare e una
dove prevalesse l’elemento conservatore e moderatore dell’attività legislativa, ma già
alcuni autori, tra cui Cavour stesso, iniziavano a sostenere la possibilità di renderlo
almeno in parte elettivo. Vito d’Ordes Reggio, un esponente dei cattolici moderati, arrivò
perfino a delineare l’ipotesi di un Senato federale, formato dagli esponenti di singole
aggregazioni territoriali (in pratica le moderne Regioni) per quello che sarebbe stato il
Regno d’Italia.
Dopo l’unificazione il dibattito sulle ipotesi di riforma si intensificò, aprendo la
strada ai primi veri e propri tentativi di rinnovamento istituzionale, portati avanti tramite
la creazione di Commissioni di studio che però accantonarono il principio dell’elettività.
Alcuni autori ripresero l’ipotesi di un Senato eletto all’interno dei Consigli provinciali,
altri cercarono una soluzione di compromesso: un Senato eletto per metà da deputati e
consiglieri provinciali e per metà di nomina regia.
A cavallo tra i due secoli, in seguito all’allargamento del suffragio nel 1882 e
all’avvento della società di massa, fu sempre più evidente la necessità di ridefinire il
rapporto tra Stato e società civile. Appariva inevitabile l’introduzione del principio
dell’elezione diretta almeno per una parte dei senatori, per valorizzare quel rapporto
eletto-elettore ormai non più riconducibile alla teoria della rappresentanza come scelta
dei più capaci. A tal fine vennero istituite nuove Commissioni di studio, col compito di
esaminare tutte le possibilità di riforma: da tali studi emerse la necessità di un sistema
misto di designazione dei senatori, in parte eletti direttamente e in parte nominati.
Ma ora che una nuova compagine politico-sociale dominava la Camera bassa il
timore prevalse e il Senato venne investito di una strategia istituzionale di
“contenimento”. Lo sconvolgimento causato nella società italiana dall’irruzione sulla
scena politica di un così ampio spettro sociale portò infatti la classe dirigente liberale a
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far ricorso al Senato quale organo fondamentale per il contenimento delle masse. Si scelse
di privilegiare la strada dell’ingerenza diretta attraverso le nomine regie di esponenti
fidati, lasciando al Senato un ruolo strumentale alle strategie di Governo. Fu questa una
delle ragioni fondamentali per cui le numerose proposte volte a introdurre il metodo
elettivo anche per il Senato non trovarono alcuno sbocco legislativo.
Si aggravava in questo senso lo sbilanciamento tra una Camera bassa ora ancora più
democratica e progressista e un Senato conservatore e filomonarchico.
Esemplificativa di questa nuova tendenza è la parabola seguita dalla politica di Crispi
sulla riforma del Senato: per circa 40 anni lo statista aveva sostenuto l’urgente necessità
di una revisione della Camera alta, considerando una “offesa alla Costituzione” la pratica
delle “infornate” e proponendo più volte l’introduzione del suffragio universale; tuttavia,
una volta assunta la direzione del Governo (1887), manifestò un cambiamento radicale
lasciando totalmente cadere i suoi progetti politici circa la riforma istituzionale e
l’allargamento del suffragio.
L’ultima fase della legislazione liberale fu segnata, oltre che dal primo conflitto
mondiale, dalla conquista per la Camera dei deputati del suffragio universale maschile
nel 1912 e dall’introduzione del sistema proporzionale nel 1919.
In questi anni si diffuse sempre più la teoria della rappresentanza degli interessi,
accolta da buona parte della dottrina europea, che congegnava la Camera alta come sede
di tutte le forze vive del Paese, in grado di dar voce a tutte “le supreme necessità e le
supreme aspirazioni di un popolo civile”
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. La funzione del Senato sarebbe stata quella di
integrare e correggere gli eccessi derivanti dalla nuova composizione della Camera bassa:
si proponeva di operare una differenziazione dei compiti delle due Camere, una incaricata
di individuare le direttive generali dell’opera legislativa (la Camera popolare), l’altra in
grado di ricostruire in modo tecnico, tramite la competenza e l’esperienza, la forma della
legge. Venivano poi proposte sia l’introduzione del metodo elettivo sia il collegamento
con i collegi elettorali locali, tramite un’elezione di secondo grado.
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Così si leggeva nella Relazione dei senatori Greppi e Ruffini nell’ambito della Commissione per la
riforma del Senato presieduta dal senatore Tittoni del 1919. Cfr. Relazione della Commissione per la
riforma del Senato, 1919, p.7 sgg.