2
(successiva all’Ordinanza di remissione), s’era pronunciata sulla legittimità
costituzionale del regime di contrattazione previsto per i dirigenti pubblici, respingendo
i dubbi a suo tempo sollevati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e riproposti
dal giudice a quo. La Corte, all’epoca, valutò il nuovo modello e lo mandò esente da
censure, con qualche necessaria avvertenza. Nel ricordare ciò, i Giudici Costituzionali,
osservarono un processo di riforma che, scaturito da scelte legislative, a partire dalle
leggi n. 142 e 241 del 1990, per passare attraverso la Legge Delega n. 421 del 1992, ha
generato il sistema previsto dal Decreto Legislativo n. 29 del 1993.
Dalla “prima” privatizzazione, scaturirono il d.lgs. n. 29/1993 ed i successivi decreti
correttivi ed integrativi ( d.lgs. n.470/1993 e 546/1993) che tuttavia dovettero scontare
un doppio condizionamento: da una lato, la riforma, fu introdotta in un contesto
macroeconomico, con il connesso obiettivo di contenimento delle voci congiunturali di
spesa a partire dal pubblico impiego, da cui derivò un accentuato spirito centralistico ed
una certa rigidità gestionale; dall’altro, la stessa, subì il peso delle concezioni
tradizionali, di cui furono testimonianza i famosi pareri espressi dall’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato, decisamente ostile alla privatizzazione
1
.
Le soluzioni normative concretamente esperite realizzarono un “mix” fra innovazione e
compromesso, comunque bisognoso di successivi aggiustamenti e messe a punto.
Questi intervennero pochi anni dopo tramite i decreti legislativi della “seconda”
privatizzazione che, attraverso la tecnica della “novella” al d.lgs. n. 29/1993, andarono
ad integrare i contenuti della prima riforma.
1
Il Consiglio di Stato, dopo il parere del 31-8-1992, n. 146, ha sostenuto, attraverso un ulteriore parere
del 31-8-1993 n. 14, che i valori dell’ imparzialità e del buon andamento non potevano essere realizzati
ricorrendo alla disciplina privatistica del lavoro in quanto, questa, risponde ad una logica imprenditoriale
non affine al conseguimento dell’ interesse pubblico, confermando, in tal modo, la propria avversità alla
riforma di privatizzazione;
3
Dal complesso normativo formatosi in seguito alle due leggi delega ed ai due
“grappoli” di decreti attuativi si è infine consolidato il d.lgs. n. 165/2001, vera norma
base e corpo normativo di riferimento della legislazione in materia di lavoro pubblico.
Tale decreto, qualificato almeno formalmente come Testo Unico del Pubblico Impiego,
si limita a riprodurre, senza manipolazioni sostanziali, il corpus normativo strutturato
attorno al d.lgs. 29/1993
2
, registrando solamente le modificazioni intervenute nello
stesso decreto e lasciando al di fuori tutto ciò che è ultroneo ma che concorre
ugualmente a formare la normativa complessivamente applicabile ai dipendenti presso
pubbliche amministrazioni
3
.
Nonostante l’ampio ambito di applicazione del d.lgs. n. 165/2001, il processo di
privatizzazione non investe indistintamente l’universalità dei dipendenti pubblici:
infatti, l’art. 3 comma 1 dello stesso decreto, dando attuazione alla previsione di cui
all’art. 2 comma 1, lett. e), l. n. 421/1992 , sottrae alcune categorie di pubblici
dipendenti, e i dipendenti di talune pubbliche amministrazioni, alla privatizzazione dei
rapporti di lavoro, in deroga all’art. 2, com. 2 e 3, e dunque senza toccare la materia
dell’organizzazione degli uffici investita dai primi commi degli artt. 1 e 2.
Trattandosi di eccezione alla regola generale della privatizzazione dei rapporti di lavoro
pubblici, le esclusioni previste sono tassative, rimanendo senz’altro assoggettati a
2
GRANDI, PERA, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, CEDAM, 2009, Pag. 1758, La
revisione della l. n. 93/83, risultata troppo rigida in astratto e troppo aggirabile in concreto, ha la finalità
dichiarata di garantire sia una maggiore efficienza delle amministrazioni, sia un maggior controllo ed una
maggiore razionalità della spesa. A tale scopo la norma, nel definire il campo di applicazione della
riforma, astringe insieme sia l’organizzazione dei pubblici uffici, cioè la struttura dell’amministrazione,
che la disciplina dei rapporti di lavoro, a dimostrazione del collegamento esistente tra la riforma del
rapporto di lavoro in senso privatistico e l’interesse pubblico istituzionale della pubblica amministrazione
all’organizzazione dei propri uffici e servizi in conformità ai principi costituzionali del buon andamento e
dell’imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 comma 1 Cost.;
3
F.CARINCI, S. MAINARDI,V. TALAMO, Codice del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Milano,
UTET, 2008; Intro XXV;
4
quella regola i rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni rientranti
nell’elenco di cui all’art. 1 comma 2, e non contemplati dall’art. 3 comma 1.
In effetti, l’ambito di operatività della privatizzazione, risultante dal combinato disposto
della norma in esame con quello dell’art. 1, comma 2, dà piena attuazione alle
previsioni, rispettivamente inclusiva ed esclusiva, di cui all’art. 2 comma 1, lett. a) ed
e) della “legge-delega” del 1992
4
.
In particolare, sono esclusi dall’area della privatizzazione il personale della carriera
diplomatica, tutto il personale della carriera prefettizia, i magistrati ordinari,
amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e
delle forze di polizia di Stato, i dipendenti degli enti con funzione di tutela del credito,
del risparmio, della concorrenza e del mercato.
Il criterio in base al quale il legislatore ha escluso dalla riforma particolari categorie di
soggetti, non è stato quello dell’esercizio di funzioni pubbliche, ma un criterio diverso
caso per caso, connesso al particolare ruolo istituzionale di soggetti legati da un
rapporto d’impiego con la p.a., al particolare vincolo di fedeltà o viceversa di
indipendenza che caratterizza il rapporto, alla considerazione di equilibri istituzionali
raggiunti o da raggiungere
5
.
Inoltre, la giurisprudenza ha sottolineato come “le categorie di dipendenti escluse
devono essere valutate in relazione allo status del dipendente senza che abbiano rilievo
gli incarichi specifici e temporanei conferiti”
6
.
4
A.TURSI in F.CARINCI, L.ZOPPOLI, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino,UTET, 2004,
pagg. 31, 32;
5
GRANDI, PERA, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, CEDAM, 2009, Pag. 1775
6
Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3281/2007
5
Un altro aspetto significativo derivante dalla trasposizione di tutta la materia del
pubblico impiego dal campo del diritto pubblico a quello del diritto privato, è costituito
dal trasferimento della giurisdizione dal giudice amministrativo a quello ordinario in
forza dell’art. 63 del d.lgs. n.165/2001.
Per un lungo periodo antecedente alla riforma, infatti, la tutela giurisdizionale del
dipendente pubblico era stata affidata alla giurisdizione del giudice amministrativo. Tale
soluzione è parsa per molto tempo la più coerente rispetto ad una situazione che vedeva
il singolo soggetto essere contemporaneamente prestatore d’opera alle dipendenze dello
stato e parte di uffici esercenti pubbliche potestà. Inoltre, il ricorso al giudice
amministrativo era facilitato dal diffondersi sia dell’opinione che ammetteva la
possibilità di far valere l’interesse legittimo anche quando sussisteva una posizione di
diritto soggettivo, sia da considerazioni più spicciole, come il fatto che la giustizia
amministrativa era più rapida, meno cara e di fatto preferita dalle stesse pubbliche
amministrazioni perché queste, in considerazione dell’originaria incertezza sulla sua
natura giurisdizionale, non potevano essere mai condannate al pagamento delle spese
processuali.
7
Ripercorrendo l’evoluzione legislativa, che è stata senz’altro notevole, occorre
soffermarsi sull’art. 68 del d.lgs. n.29/1993, il quale, nella sua iniziale formulazione,
manteneva una separazione fra giudice ordinario e giudice amministrativo e rinviava a
quella divisione fra materie riservate alle fonti unilaterali e materie contrattualizzate. La
scelta era però consapevolmente approssimativa, in quanto ci si limitava a ricalcare le
incerte previsioni della legge delega n. 241/1992, posponendo, al termine di una fase
triennale di attuazione, la effettiva devoluzione della giurisdizione al giudice ordinario.
Peraltro, a parziale correzione della impostazione originaria, il legislatore delegato,
7
E. PRESUTTI, Lo stato parlamentare ed i suoi impiegati amministrativi, Napoli, LIBRERIA EDITRICE
INTERNAZIONALE, 1899, pag. 72;
6
attraverso un successivo provvedimento “correttivo” (d.lgs. n. 546/1993), aveva inserito
nella disposizione di cui all’art. 68 cit., un elenco di materie nelle quali la cognizione
era attribuita senz’altro al giudice ordinario.
La dissociazione fra contrattualizzazione del rapporto e permanenza della giurisdizione
amministrativa non poteva, però, durare oltre una, pur prolungata, fase transitoria a
motivo della situazione senz’altro anomala che si era venuta a creare: avanti i tribunali
amministrativi venivano chiamate, infatti, le controversie relative ai rapporti di lavoro
pubblico, cui si applicava però, il diritto comune del lavoro.
A questa situazione pose rimedio il d.lgs. n.80/1998, dettando una formula più ampia di
quelle fino ad allora sperimentate, nell’ambito di una più generale sistemazione della
giustizia amministrativa ( l’art. 68 del d.lgs. n.29/1993 fu prima modificato da una
disposizione del d.lgs. n.80/1998 e, poi, da una successiva aggiunta del d.lgs. n.
387/1998, che estendeva la cognizione del giudice ordinario anche al conferimento di
incarichi dirigenziali; il testo è stato ora trasfuso nell’art. 63 del d.lgs. 165/2001).
Si deve peraltro sottolineare come la giurisprudenza intercorsa tra la prima e la seconda
legge di privatizzazione sia stata modesta nel numero di controversie e comunque non
sembra aver influito sui successivi orientamenti del giudice del lavoro. Questi ha, anzi,
da subito manifestato un atteggiamento conforme a quello che il legislatore si attendeva,
fondando le proprie decisioni non già sui precedenti amministrativi, ma sugli
orientamenti della Cassazione civile. In questo senso si deve segnalare come raramente
vi siano stati richiami alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, pur a fronte di norme
rimaste sostanzialmente immutate.
Volendo tracciare un quadro sintetico della situazione attuale, deve dirsi che nel nuovo
sistema di riparto della giurisdizione, dettato dall’art. 63 d.lgs. 165/2001, sono devolute
alla cognizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, “ tutte le
controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni […] incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il
conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali”.
7
La portata del termine “tutte” trova un limite nell’essere riferito non alle controversie di
lavoro genericamente intese, bensì a quelle “relative ai rapporti di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni”.
Sono infatti sottratte alla giurisdizione del giudice ordinario le categorie di lavoratori
esclusi dal processo di privatizzazione in base a quanto disposto dall’art. 3 del d.lgs.
165/2001: per queste categorie il permanere del carattere pubblico del rapporto e della
natura amministrativa degli atti di relativa gestione comporta il corollario del perdurare
della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Il fatto che la formulazione del testo sia tale da escludere i rapporti di lavoro autonomo
con la p.a., non significa che ci siano dubbi sulla competenza del giudice del lavoro a
conoscerle, dato che la giurisprudenza non ha mai dubitato che rapporti del genere
abbiano natura privatistica e rientrino nell’ambio di applicazione dell’art. 409 n. 3
c.p.c.
8
Restano invece devolute al giudice amministrativo sia le controversie relative ai rapporti
esclusi dalla riforma, sia “le controversie in materia di procedure concorsuali per
l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni” (art. 63 comma 4, d.lgs. n.
165/2001).
La decisione di mantenere la materia dei concorsi per l’assunzione nell’ambito della
cognizione del giudice amministrativo, pare giustificata sia dalla presenza di
un’espressa previsione costituzionale che la differenzia rispetto alla disciplina del
settore privato (art. 97 comma 3 Cost.), sia dal fatto che tali giudizi sembrano richiedere
nel giudicante una familiarità con il principio di legalità che, certamente, appare
8
In F.CARINCI, L.ZOPPOLI, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, UTET, 2004, Cass., 16-
7-2002, n.10310, Cass. S.U., 1-12-2000, n. 1241;
8
estranea all’orizzonte del giudice delle controversie fra privati, pur sempre orientate al
principio dell’autonomia negoziale
9
.
La giurisdizione del giudice ordinario permane anche di fronte alla sussistenza di
eventuali atti amministrativi che costituiscano presupposto per l’adozione degli atti di
gestione del rapporto. Ove il giudice si imbatta in atti di questo tipo la sua cognizione
non ne viene ridotta, ed anzi gli viene ora consentito, di adottare “tutti i provvedimenti
di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati”,
facendo quindi luogo a disapplicazione degli “atti presupposti” ( art. 63 comma 2, d.lgs.
n. 165/2001), secondo la soluzione che la giurisprudenza aveva già adottato tutte le
volte che avanti la magistratura ordinaria si fosse chiesto il risarcimento dei danni
conseguenti alla adozione di un atto amministrativo illegittimo, senza prima aver
ottenuto il suo annullamento avanti il giudice amministrativo. In altri termini, qualora
nei processi in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni
venissero in questione “atti amministrativi presupposti” (cioè provvedimenti adottati
dall’amministrazione datore di lavoro, nella sua qualità di autorità amministrativa), l’art.
63 comma 1 d.lgs. 165/2001, espressamente stabilisce che il giudice ordinario, in
funzione di giudice del lavoro, è comunque investito della giurisdizione, dovendo
decidere incidenter tantum sulla legittimità degli atti presupposti, potendo disapplicarli
(ex art. 5 l. 2248/1865, all. E) se illegittimi; ma comunque senza mai poter disporre la
sospensione del processo, anche ove tali atti siano già stati impugnati davanti al giudice
amministrativo
10
.
9
V.FERRANTE, Quaderni di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, n. 30, pagg. 239,240,
Torino, UTET, 2007;
10
G. FINOCCHIARO, Quaderni di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, n. 30, pag. 184,
Torino, UTET, 2007;
9
La privatizzazione del rapporto di pubblico impiego ha comportato l’assoggettamento
del rapporto di lavoro tra lavoratore pubblico e amministrazione alle regole del diritto
privato del lavoro, con la conseguenza che “ le determinazioni per l’organizzazione
degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli
organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”
(art. 5 comma2 d.lgs. n. 165/2001 ).
La disposizione pone in rilievo la stretta connessione che sussiste tra l’organizzazione
del lavoro e la gestione del rapporto che, in un’ottica di devoluzione alla disciplina di
natura privatistica, sono state entrambe rimesse alle norme che regolano il rapporto di
lavoro privato secondo uno schema normativamente unificato.
Di conseguenza ci si è posti il problema di individuare un confine tra l’insieme degli atti
inerenti all’organizzazione del lavoro ed alla gestione dei rapporti d’impiego e quelle
determinazioni organizzative adottate dalle amministrazioni per “l’attuazione dei
principi di cui all’art. 2 comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione
amministrativa”(art. 5 comma 1): in altri termini, se da un lato la privatizzazione del
rapporto d’impiego ha indotto a ricondurre al diritto privato anche gli atti inerenti
all’organizzazione stessa del lavoro; dall’altro, la riserva di legge dell’art. 97 comma 1
Cost. impone l’esistenza di un nucleo di competenze relative all’organizzazione degli
uffici che permangano nell’alveo del diritto pubblico e siano esercitate tramite atti di
natura provvedimentale ed amministrativa.
La dottrina ha finito così per delineare la distinzione tra “alta organizzazione” e “bassa
organizzazione” in modo tale che “la linea di confine non divide più organizzazione e
lavoro, ma taglia in due la stessa attività di organizzazione
11
”.
11
D’ORTA in F.CARINCI, L.ZOPPOLI, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, UTET, 2004
Vol. V, Pag. 102;