modalità di selezione del personale direttivo; l’individuazione di soluzioni capaci
di facilitare l’integrazione nelle unità estere di destinazione, facilitando la
comprensione tra culture internazionali eterogenee. Il problema è talmente sentito
da indurre la dottrina a parlare di “shock culturale” con riferimento all’effetto
subìto dal personale espatriato nell’impatto con una nuova realtà geografica. Si
vedrà come tale shock può essere limitato dall’impresa adottando programmi volti
alla formazione interculturale del personale e tentando di sviluppare la
comunicazione e la competenza “interculturale”.
A conclusione del capitolo si tenterà di cogliere le peculiarità che la
relazione tra internazionalizzazione e risorse umane assume nelle imprese di
piccola e media dimensione.
L’ultima parte del lavoro è dedicato al caso aziendale. Particolarmente
interessante è apparso l’approccio alla gestione delle risorse umane adottato da
un’impresa internazionale, la Europa Metalli S.p.A., che fa parte del Gruppo Km
Europa Metal AG, di proprietà italiana.
Nel percorso di internazionalizzazione che ha interessato l’azienda e il
gruppo, più in generale, appare evidente lo sforzo organizzativo sostenuto per
favorire il più possibile l’integrazione delle risorse umane internazionalizzate
(attraverso progetti come il Management development system), utilizzando anche
le potenzialità insite nel sistema informativo e di comunicazione aziendale,
attraverso la realizzazione del cosiddetto progetto Chimo. L’ultima parte del
lavoro è destinata, quindi, a esporre le soluzioni apprestate da Europa Metalli e
dal gruppo KME ad alcune delle più significative problematiche incontrate nella
gestione delle risorse umane internazionali; ciò nel contesto del particolare
modello di gestione del personale internazionale seguito, quello regiocentrico.
Ecco alcuni dei più significativi frammenti della Tesi.
Tratto dal paragrafo “La formula imprenditoriale per la competizione
internazionale” (paragrafo 1.4).
-“…sono diverse le possibili definizioni d’internazionalizzazione; infatti, sulla
base di uno schema teorico già da tempo affermatosi in dottrina
1
, si è convinti che
l’internazionalizzazione si può avviare e sviluppare in diverse direzioni. In genere
i “vettori” attraverso i quali un’impresa può internazionalizzarsi sono otto;
l’internazionalizzazione piena si ha quando si seguono contemporaneamente tutti i
vettori. In pratica è possibile parlare d’internazionalizzazione:
- dei mercati di sbocco;
- dei mercati di approvvigionamento;
- dei mercati di capitali;
- della concorrenza;
- della produzione;
- dei prestatori di lavoro;
- dei partners aziendali;
- degli interlocutori sociali dell’impresa.
Se si ipotizza che il “sentiero” d’internazionalizzazione scelto sia quello dei
mercati di sbocco, la direzione aziendale si troverà di fronte a una serie di
decisioni da prendere; dovrà definire cioè:
- in quali paesi operare;
- a quali clienti rivolgersi;
- quali prodotti o servizi offrire;
- il modo con cui, rivolgersi ai mercati esteri.
1
Depperu D., (1993), L'internazionalizzazione delle piccole e medie imprese; Egea, Milano.
Tali decisioni sono influenzati dalla configurazione assunta dalla struttura
aziendale e, a loro volta, tendono a influenzarla e modificarla.
Figura 3. - Le vie dell’internazionalizzazione.
Fonte: Depperu D., (1993), L'internazionalizzazione delle piccole e medie imprese; Egea,
Milano.
Analizzando i tipi di decisioni su esposti, si desume che questi sono riferibili alle
componenti costitutive della formula imprenditoriale per la competizione
internazionale. Infatti il primo elemento costitutivo della formula imprenditoriale
di un’impresa proiettata verso l’internazionalizzazione consiste, come si è visto
precedentemente, nella scelta di un certo sistema competitivo in cui operare; o
meglio, nella definizione del raggio d’azione dell’impresa relativamente alla
realizzazione di una strategia d’internazionalizzazione”-.
---------------------------------------------------------------------
Tratto da “Il sistema competitivo” (paragrafo 1.4.1).
“Attraverso questa prima componente della formula imprenditoriale dell’azienda
si definisce in quale paese operare, a quale segmento di clientela si ha intenzione
di riferirsi, quali bisogni si vogliono soddisfare e attraverso quali canali
distributivi si intende agire.
In questa sede è preso in considerazione esclusivamente il primo tipo di decisione,
ovvero l’individuazione del paese in cui l’azienda ha intenzione di implementare
la sua strategia. La motivazione alla base della scelta di tale approccio risiede nel
fatto che la decisione relativa all’individuazione dell’ambito geografico (non
domestico) in cui ci si internazionalizza, più di altre è considerata critica
dall’impresa in rapporto alla gestione delle risorse umane. Questo avviene sia
perché la scelta del paese in cui operare influenza in maniera incisiva le modalità
di gestione del personale, sia perché, viceversa, le caratteristiche peculiari di
queste risorse tendono in alcuni casi a modificare radicalmente tale decisione.
Quest’ultima relazione “d’interdipendenza” è riscontrabile attraverso l’analisi dei
fattori che sono cruciali per una rigorosa decisione relativa ai paesi da includere
nel raggio geografico d’azione dell’azienda.
In merito si è soliti far riferimento alla distanza psichica e alla distanza
geografica
2
(o dispersione geografica)”-.
----------------------------------------------------------------------------
Tratto da “Il sistema degli interlocutori sociali” (paragrafo 1.4.3).
-“La terza componente della formula imprenditoriale dell’azienda, è costituita dal
sistema degli interlocutori sociali
3
. Attraverso questo l’impresa stabilisce
determinati rapporti con finanziatori, amministratori pubblici, politici, ma
2
Depperu D., (1993), L'internazionalizzazione delle piccole e medie imprese; Egea, Milano.
3
Coda V., (1988); L’orientamento strategico dell’impresa; Utet, Torino.
soprattutto prestatori di lavoro e rappresentati sindacali. In questa sede quello che
interessa è la formula imprenditoriale per la competizione internazionale e quindi
l’impostazione strategica fatta propria dall’impresa per tale competizione.
Questa impostazione, come si è già avuto modo di constatare, è influenzata
fortemente dal tipo di rapporti che l’impresa instaura con i prestatori d’opera e con
le organizzazioni sindacali che ne sono i diretti rappresentanti. Le notevoli
pressioni che sono esercitate dalle rappresentanze sindacali e quindi dai
dipendenti, e che l’impresa non può non tenere nella dovuta considerazione,
derivano dal particolare ruolo assunto dalle aziende internazionali nel contesto
globale. Difatti, se da una parte le multinazionali, organizzando efficientemente la
produzione e la distribuzione su scala globale, possono accrescere la produzione e
il benessere mondiale, dall’altra possono anche creare seri problemi per i
lavoratori, sia nei paesi d’origine che nei paesi ospitanti. Fra i più citati e discussi
effetti negativi sul paese d’origine vi è la perdita di posti di lavoro “interni”
risultante dagli investimenti diretti all’estero. Di solito questa perdita di
manodopera si riferisce a quella non specializzata e semispecializzata, nel cui
utilizzo il paese d’origine manifesta uno svantaggio
4
. E’ questo il motivo per cui
di frequente i sindacati dei lavoratori dei paesi più industrializzati sono contro gli
investimenti diretti all’estero delle imprese multinazionali. Un altro aspetto da
sottolineare (direttamente connesso con quello visto in precedenza), e che nella
stragrande maggioranza dei casi le imprese che intendono percorrere il sentiero
dell’internazionalizzazione trascurano, è quello relativo alla demotivazione che
genera nei dipendenti del paese d’origine dell’impresa l’annuncio fatto da questa
della realizzazione di un imminente processo d’internazionalizzazione; con le
4
Salvatore D., (1992), Economia internazionale; NIS, Roma.
conseguenze in termini di tagli alla occupazione che abbiamo già avuto modo di
menzionare. Infatti, l’insicurezza del posto di lavoro crea nei lavoratori un diffuso
e profondo malcontento, che può condurre alla perdita della fedeltà all’azienda e a
un conseguente totale distacco da quest’ultima.
Dopo l’annuncio da parte dell’impresa dell’intenzione di internazionalizzarsi
attraverso investimenti diretti all’estero, i risultati e la produttività ottenuti dalle
risorse umane operanti nelle strutture produttive dell’impresa, collocate nel paese
d’origine, potranno essere, come è naturale, influenzati negativamente.
Anche il paese ospitante, e in particolare il personale dell’impresa
internazionalizzata ivi originario, può avere, paradossalmente, dei motivi di
recriminazione nei confronti della multinazionale.
In primo luogo, il fatto che questo tipo di imprese mantengano di frequente nel
proprio paese d’origine risorse necessarie ad alimentare attività più sofisticate,
tipicamente quelle destinate all’area della ricerca e sviluppo, tende a mantenere il
paese ospitante in una condizione di dipendenza tecnologica e di know-how; tutto
questo avrà immediati effetti negativi sulla formazione e quindi sulle competenze
acquisibili nell’ambito dell’impresa dal personale indigeno in questa impiegato.
Conseguentemente tale personale, soprattutto quello tecnico e/o quello posto ai
più alti livelli gerarchici, vede limitata la propria crescita professionale e
contemporaneamente mortificata ogni possibilità di porsi efficacemente sul
mercato del lavoro nazionale e mondiale - è il cosiddetto fenomeno
“dell’idiosincrasia” delle risorse umane, tipico ad esempio, delle imprese
“eterarchiche”
5
-. In secondo luogo, le imprese internazionalizzate possono
assorbire il talento imprenditoriale - questo avviene soprattutto nei paesi in via di
5
Decastri M., (1992), la gestione del personale internazionale nel “Manuale di gestione del
personale”, a cura di Giovanni Costa; Utet, Torino; volume 3° sez m, pag. 347.
sviluppo - impedendo in questo modo che sia usato per costituire imprese
nazionali che potrebbero fornire uno stimolo maggiore alla crescita e allo sviluppo
nazionale, con effetti sicuramente positivi sul livello di occupazione del paese.
Nei paesi in via di sviluppo, dove è abbondante la forza lavoro, gli investimenti
diretti esteri da parte di imprese multinazionali possono svilupparsi con tecniche
produttive ad alta intensità di capitale; tutto questo non ha sicuramente effetti
positivi sul personale indigeno utilizzato e in particolare sulla sua motivazione. I
dipendenti del luogo, infatti, vedranno il proprio impiego come transitorio dato
che considereranno, ad esempio, l’investimento fatto dalla multinazionale nel loro
paese soltanto finalizzato allo sfruttamento delle risorse naturali”-.
------------------------------------------------------------
Tratto da “Il fattore umano nello sviluppo internazionale delle imprese”
(paragrafo 2.1).
-“La scelta di una strategia d’internazionalizzazione ha evidenti riflessi sul piano
organizzativo in senso stretto, ossia sulla gestione delle risorse umane. Spesso,
infatti, gli insuccessi derivano proprio dalla mancata “sincronia” tra la
predisposizione di tali strategie e l’adeguata preparazione delle risorse umane
destinate a realizzarle. Tipici effetti imputabili a questo sfasamento temporale
sono rappresentati da fusioni multinazionali non riuscite, ritorni anticipati di
espatriati, difficoltà nella realizzazione di strategie “think globally” e “act
locally”
6
, difficoltà nel costruire un sistema di valori aziendali transnazionali.
6
Letteralmente significa “pensa in termini globali ed impegnati ad agire sul piano locale”. Questo
slogan anglosassone di recente introduzione e ormai estremamente diffuso, trae origine dalla
particolare situazione del sistema economico mondiale del nostro tempo. L’impresa internazionale
nell’era della globalizzazione, infatti, intrattiene rapporti con fornitori, clienti, competitors e
partners che sono soggetti “globali”; chiunque da ogni parte del mondo può essere cliente di
qualcun altro in altra parte del mondo. I consumatori però, acquistano localmente e si segmentano
secondo innumerevoli parametri.
In altri termini, le aziende internazionali hanno bisogno di persone che,
opportunamente selezionate e formate, siano capaci di gestire le relazioni tra
differenti sistemi culturali, economici, politici e geografici. Tali soggetti inoltre,
devono essere capaci di implementare degli efficaci processi di comunicazione
interculturale, di adottare stili di management e politiche di governo compatibili
con i caratteri specifici dei diversi paesi.
La dottrina aziendale ci insegna che esistono un gran numero di variabili capaci di
influenzare più o meno significativamente i processi d’internazionalizzazione, ma
una delle più critiche è costituita proprio dalle risorse umane.
Questa criticità del fattore umano non è ravvisabile soltanto nelle fasi iniziali
dell’espansione internazionale dell’impresa, ma anche, e forse soprattutto, nel
momento in cui quest’ultima si intensifica.
Come si è già osservato nel capitolo precedente
7
, l’azienda può seguire vari
orientamenti, che vanno dal classico etnocentrismo alla innovativa
transnazionalità; come conseguenza, le aziende nello scegliere lo staff
internazionale si trovano di solito a optare tra tre alternative:
- impiego di personale avente la medesima origine della casamadre;
- impiego di personale locale;
- impiego di personale di paesi terzi.
La scelta si risolve insomma nella decisione tra etnocentrismo (in cui le posizioni
chiave sono affidate al management originario del paese della casamadre) e
geocentrismo (in cui le aziende partecipate godono di autonomia anche nella
gestione del personale).
7
Vedi pag. 79 e seguenti.
Generalmente le motivazioni che spingono le imprese a preferire l’utilizzazione di
personale locale consistono nel fatto che quest’ultimo:
- ha più sensibilità nei confronti della cultura autoctona e verso le tendenze del
mercato locale;
- aiuta a mantenere l’identità locale del business;
- i manager locali in genere costano meno degli espatriati.
Le motivazioni, invece, che sono alla base della scelta di impiegare personale
espatriato si ritrovano:
- nella mancanza di alcune conoscenze specialistiche in certi paesi;
- nel mantenimento del controllo di operazioni locali;
- nell’esigenza di sfruttare conoscenze specifiche del business o del prodotto già
disponibili;
- nel grande dispendio di risorse necessarie per la formazione e lo sviluppo del
personale locale;
- nella previsione di un tempo di permanenza all’estero come momento formativo
nel percorso di carriera manageriale.
Tuttavia, c’è da dire che i casi estremi di aziende che dirigono le proprie unità
all’estero o solo con personale proveniente dalla casamadre oppure
esclusivamente con quello locale, in realtà sono piuttosto limitati…”-.
----------------------------------------------------------------
Tratto da “Le più significative problematiche legate alla gestione delle risorse
umane in un gruppo multiculturale” (Paragrafo 3.4).
-“Come si è già avuto modo di osservare nel secondo capitolo, un’impresa che
abbia deciso di espandersi al di fuori del proprio mercato domestico deve
affrontare delle questioni ben specifiche connesse ad una delle risorse più critiche
che un’azienda internazionale e non debba gestire: quella umana.
Le problematiche trattate sono state diverse, ma quelle più rilevanti a nostro
avviso sono le seguenti cinque:
- la questione culturale e la gestione dei gruppi multiculturali;
- la relazione esistente tra internazionalizzazione – disoccupazione e il fenomeno
dell’etnocentrismo opposto;
- i processi di selezione del personale internazionale;
- la questione attinente alle famiglie dei manager espatriati;
- il problema del rientro.
Dato che il gruppo KME con Europa Metalli S.p.a. può essere considerato senza
ombra di dubbio un’ organizzazione multinazionale, ha conseguentemente dovuto
anch’essa affrontare le rilevanti problematiche sopra esposte.
Nelle pagine seguenti si analizzano i modi con cui sono stati affrontati tali
problemi.
1) Il problema della cultura e della gestione dei gruppi multiculturali assumono un
importanza particolare in KME date due circostanze fondamentali: una fa
riferimento al fatto che, dal momento in cui è stata creata dal gruppo GIM-SMI
l’aggregazione aziendale KME, è stata concessa sempre molta attenzione alla
condizione che tutti i Paesi e quindi tutte le culture rientranti nel gruppo,
attraverso le varie imprese controllate, fossero adeguatamente rappresentate sul
piano della leadership. L’altra circostanza è conseguenza della prima: la GIM-
SMI infatti ha preferito porre a capo di KME, non una leadership esclusivamente
italiana, perseguendo così un orientamento marcatamente etnocentrico (e quindi
foriero di incomprensioni e ostacoli allo sviluppo internazionale
dell’Organizzazione), ma dei gruppi interculturali di dirigenti appartenenti ai tre
nuclei nazionali storici italiano, francese e tedesco; senza nessuna prevalenza di
una cultura (e quindi di un paese) sulle altre. A dimostrazione di ciò, infatti, il
Consiglio Direttivo Europeo (detto Vorstand), l’organo direzionale più
importante, può essere definito un gruppo interculturale, dove sostanzialmente
non esiste una cultura prevalente sulle altre.
La questione maggiormente sentita in KME con riguardo alla gestione dei gruppi
multiculturali è quella della lingua utilizzata. A una prima analisi superficiale
sembrerebbe un problema banale, ma non lo è; anzi la sua rilevanza è legata in
qualche modo alla storia del Gruppo in oggetto. Dopo l’acquisto di Tréfimétaux
da parte di Europa Metalli, infatti, il problema della diversità della lingua tra i
componenti (italiani e francesi) dei gruppi di lavoro multiculturali era considerato
secondario o del tutto irrilevante dalla direzione delle risorse umane, in quanto i
dirigenti italiani e francesi non trovavano grandi difficoltà ad assimilare l’altra
lingua, per vari motivi:
- il francese è una lingua frequentemente imparata con gli studi scolastici;
- la lingua francese è neolatina come quella italiana e ha quindi, come tale, delle
forti similitudini con quest’ultima.
Quando invece si è decisa l’acquisizione da parte di Europa Metalli di KM Kabel
Metal AG e successivamente la creazione del gruppo KME, i gruppi multiculturali
si sono allargati anche a manager tedeschi, in questo modo i problemi di lingua
sono diventati reali. La soluzione è stata quella di adottare una terza lingua, quella
inglese, che diventava quindi lingua ufficiale del Gruppo; un’inglese questo, non
certo canonico, ma si direbbe piuttosto “un inglese aziendale”
8
, dati i numerosi
termini specialistici presenti.
Il problema della diversità del linguaggio si è posto ai responsabili delle risorse
umane sia con riferimento ai soggetti operanti ai livelli alti della scala gerarchica
sia a quelli operanti ai livelli più bassi, con la differenza che questo ostacolo è
stato superato più facilmente nel primo caso piuttosto che nel secondo, data la
presenza di una cultura internazionale maggiormente radicata e diffusa fra il top
management (ad esempio ai piani alti della gerarchia la conoscenza dell’inglese è
generalizzata tra i vari dirigenti, non lo stesso avviene ai livelli più bassi).
Secondo alcuni manager internazionali di Europa Metalli (responsabili a livello di
gruppo) ci sono stati e continuano ad esserci problemi ed ostacoli nel lavoro dei
gruppi interculturali a cui partecipano. Ma secondo questi, i problemi maggiori
sono dati dagli stereotipi che ognuno si crea quando intrattiene rapporti con
individui contraddistinti da una cultura diversa. Questo non vuol dire che usare gli
stereotipi nei rapporti interculturali sia comunque sbagliato per un manager
internazionale; l’importante è capire come usare gli stereotipi che inevitabilmente
accompagnano qualsiasi relazione interculturale.
Sono classiche le caricature dei tedeschi come individui rigidi, dei francesi come
snob, degli italiani confusionari, ecc..
E’ importante capire il ruolo delle immagini che ci facciamo degli altri e che gli
altri si fanno di noi italiani in quanto italiani. In primo luogo, perché la maggior
parte di essi sono di natura inconscia, e quindi difficilmente controllabili. In
secondo luogo perchè, che noi lo vogliamo o meno, siamo costretti a fare i conti
con gli stereotipi: la maggior parte di essi, infatti, non sono pienamente coscienti
8
Da intervista al Dott. Dayala responsabile per la Formazione e la selezione di Europa Metalli
S.p.A..
e, comunque, se anche riuscissimo a non giudicare gli stranieri secondo caricature,
dovremmo fare i conti col fatto che noi stessi siamo “classificati” attraverso
l’etichetta di “italiani”, con tutte le valenze positive e negative ad essa associate.
L’importante non è liberarsi degli stereotipi, quindi, ma imparare ad usarli. Anzi,
la ricerca ha dimostrato che i più efficienti manager internazionali iniziano
effettivamente le loro relazioni interculturali con i colleghi stranieri sulla base di
stereotipi, ma, a differenza dei colleghi meno esperti, i loro stereotipi sono
contraddistinti dalle seguenti caratteristiche:
- sono accurati, ossia riflettono in modo preciso le caratteristiche medie della
cultura dei propri colleghi;
- sono flessibili, ossia non rifiutano di cambiare se i colleghi stranieri non
corrispondono alle loro aspettative stereotipate;
- sono progressivamente abbandonati, ossia si diventa capaci di giudicare i propri
colleghi stranieri per ciò che sono come individui e non come rappresentanti di
una cultura.
Secondo alcuni manager internazionali di Europa Metalli
9
, quando si è iniziato a
collaborare all’interno dei gruppi di lavoro interculturali di KME, i
comportamenti, i modi di rappresentare la realtà, i sistemi di affrontare i problemi
si sono subito manifestati diversi in relazione all’eterogeneità culturale dei
componenti di tali gruppi. In generale il modo migliore di affrontare queste
diversità è stato quello “di non irrigidirsi sulle proprie posizioni”
10
, ovvero essere
flessibili; in questi casi si afferma infatti, a ragione, che bisogna “valorizzare le
differenze”. Questo vuol dire che, nei gruppi multiculturali dove operano i
9
Il Dott. Romano responsabile del Controllo di gestione di KME e il Dott. Dayala responsabile per
la formazione e la selezione delle risorse umane dell’Europa Metalli S.p.A..
10
Da intervista al Responsabile per il Controllo di gestione del gruppo KME.
responsabili internazionali di Europa Metalli, risulta essere importante, ma di non
facile perseguimento, lo sfruttamento delle peculiarità di ciascun componente
straniero del gruppo. Infatti, al di là degli stereotipi, di cui si è parlato in
precedenza, è oggettivo che determinate attività vengano svolte meglio da soggetti
di una determinata nazionalità e quindi, di una determinata cultura, e altre al
contrario, vengano svolte in maniera non ottimale. Nel caso dei gruppi
multiculturali operanti in KME, abbiamo soggetti di nazionalità francese, italiana
e tedesca; ognuno ha determinate peculiarità e capacità per le quali l’intero gruppo
si affida per assolvere a certi compiti o risolvere determinati problemi. Vi sono
diversi esempi che possono essere utili a corroborare queste affermazioni: i
manager francesi ad esempio, affrontano i problemi che si manifestano durante
l’attività del gruppo, in maniera molto più analitica rispetto a quelli italiani; in
genere i primi, infatti, tendono innanzitutto a vagliare tutte le soluzioni a un certo
problema, e poi procedere alla loro applicazione; quando invece si tratta di portare
avanti un’attività dove sono fondamentali invece le capacità organizzative (ad
esempio la realizzazione di uno studio ben organizzato e approfondito), il soggetto
tedesco è quello più indicato. Se infine, per assolvere a un certo compito è
richiesta una pronunciata capacità d’inventiva, in questo caso ci si rivolge al
componente italiano del gruppo…”-.