3
riforme amministrative”, si esaminano le prime leggi di riforma: la n.142
del 1990 sulle autonomie locali, n.241 sempre del 1990 sul procedimento
amministrativo e la legge sul pubblico impiego del 1993; infine il processo
di riforma della XI legislatura: un vero e proprio cambio di rotta.
Il secondo capitolo presenta un’analisi delle riforme Bassanini; dopo una
prima esposizione del contenuto delle varie normative introdotte
(Bassanini, Bassanini-bis, Bassanini-ter, Bassanini-quater), si tenta di fare
un bilancio delle riforme prendendo in considerazione le varie materie
oggetto della riforma della seconda metà del decennio fino al 2001: il
federalismo amministrativo, la riforma dei ministeri e del Consiglio dei
Ministri, la semplificazione amministrativa, la riforma del lavoro pubblico
e dei controlli, la riforma della giustizia amministrativa, l’amministrazione
on-line e, per concludere, la riforma della formazione, dell’università e
della ricerca. Infine, nel paragrafo conclusivo del capitolo, oltre a
considerare alcuni risultati positivi della riforma, vengono evidenziate
alcune delle ombre della riforma, contraddizioni e risultati mancati.
Il terzo capitolo, infine, si occupa del sistema amministrativo dopo il 2001,
la fase del dopo Bassanini apertasi con l’avvento del Governo Berlusconi.
Prima di tutto si analizza cosa è rimasto nel primo decennio del nuovo
secolo di quella stagione di riforme, che cosa è sopravvissuto e cosa invece
è fallito tentando di dare anche delle motivazioni circa la fase di stallo della
riforma. Poi si passa a esaminare gli interventi degli ultimi anni (2001-
2006) che, seppur hanno permesso di superare la fase di stallo, sono
contraddistinti da un duplice movimento, di faticosa attuazione delle
riforme precedenti e di radicale revisione di alcuni dei loro indirizzi
portanti. Nel dettaglio, gli interventi hanno riguardato la semplificazione
amministrativa, il rapporto centro periferia, il pubblico impiego e quindi la
dirigenza.
4
In seguito si cerca di descrivere il volto della pubblica amministrazione
italiana che oggi emerge come frutto delle riforme e di quei cambiamenti
solo in parte determinati dal legislatore nazionale. In particolare ci si
sofferma sulla modernizzazione dello stato erogatore di servizi, sulla
modernizzazione dello stato erogatore di prestazioni, il nuovo rapporto tra
politica e amministrazione e infine le amministrazioni statali e la multi-
level governance.
Nell’ultima parte viene preso in considerazione il Piano Industriale per la
P.A. varato dal nuovo ministro Brunetta, l’ultimo intervento, in ordine di
tempo, che sta tentando di rimodellare la Pubblica Amministrazione
Italiana. Non potendo di questa fase fare un bilancio perché ancora in fase
di compiuta attuazione a livello normativo, si descrivono i punti della
riforma e si riportano i primi commenti all’approvazione parlamentare del
decreto legge.
5
6
1° Capitolo
Il sistema amministrativo italiano e i primi tentativi di
trasformazione
1.1. Il sistema amministrativo dopo l’unificazione: aspetti
Il sistema amministrativo italiano cui si ispirò, subito dopo il 1860-61, il
nostro paese fu di forte centralizzazione derivante dal modello
napoleonico
2
. In particolare dopo l’unificazione all’Italia venne esteso il
sistema amministrativo vigente allora nello stato sabaudo introdotto dal
parlamento del Piemonte con legge 23 marzo 1853 n. 1483 su proposta di
Camillo Benso di Cavour, allora Ministro delle Finanze
3
.
La centralizzazione in realtà era largamente sconsigliata sia in termini
strettamente amministrativi sia in termini funzionali a causa
dell’eterogeneità delle condizioni socio-economiche dei regni pre-unitari e
per il radicamento di forme istituzionali altamente differenziate. Le ragioni
di tale scelta, quindi, furono del tutto politiche in quanto l’unità
amministrativa diviene immediatamente un elemento chiave per la difesa e
il sostegno della fragile unità politica avventurosamente acquisita. In
particolare l’unità amministrativa e la sua rigida centralizzazione furono
concepite come uno strumento determinante per consolidare il nuovo
ordinamento dato che concentrando le leve al centro era possibile dare il
massimo peso alla nuova e limitata classe dirigente e nello stesso tempo
2
Mario Egidio Schinaia, La Buona Amministrazione, in www.costituzionalismo.it.
3
Nino Longobardi, Il sistema politico-amministrativo e la riforma mancata,Torino,1999, p.59.
7
evitare temuti e possibili recuperi delle vecchie élite emarginate, ma ancora
ben presenti nelle diverse periferie.
Marco Cammelli, professore di Diritto Amministrativo sottolinea due
implicazioni di tale scelta che hanno condizionato profondamente l’intera
esperienza amministrativa italiana. La prima di carattere ideologico
consistente nel binomio indissolubile unità politica = unità amministrativa:
da quel momento in poi chiunque proponeva forme anche limitate di
decentramento amministrativo si vedeva accusato di essere l’ideatore di un
progetto mirante alla disgregazione politica del paese; la seconda
strettamente politica ma con ricadute istituzionali. Infatti, se il modello
napoleonico aveva permesso alla Francia di stabilizzare le conquiste
rivoluzionarie della capitale e di assicurarne la piena e capillare diffusione
nella periferia, per quanto riguarda l’Italia la situazione è differente in
quanto il nostro paese non aveva alle spalle una rivoluzione ma tale sistema
si era affermato per motivi sostanzialmente difensivi. Infatti, fino all’inizio
del Novecento l’obiettivo principale sarà quello di costruire la nazione e
non quello di provvedere al decollo amministrativo. Da qui la peculiarità
tutta italiana di un modello amministrativo centralistico ma a centro debole
che ha segnato fino ai giorni nostri l’esperienza italiana
4
.
L’art 1della legge del 1853 stabiliva “L’amministrazione centrale dello
Stato sarà concentrata nei ministeri. I ministri provvederanno ai relativi
servizi per mezzo di uffici posti sotto la loro immediata direzione. Gli uffici
relativi a dei medesimi rami di amministrazione potranno venire riuniti, e
costituiranno direzioni generali, che faranno tuttavia parte integrante dei
ministeri. In questo modo sono soppresse e integrate nelle strutture
ministeriali nove aziende preesistenti in quanto, nonostante il loro
4
Marco Cammelli, La pubblica amministrazione, Bologna2004, pp46-48; Elisabetta Gualmini,
L’amministrazione nelle democrazie contemporanee, Roma, 2003, p.51.
8
collegamento ai ministeri, la notevole autonomia delle aziende per
l’esercizio di compiti di carattere operativo e di gestione economica è
giudicata incompatibile con il modello della nuova normativa.
5
”.
Si realizzava così una struttura organizzativa di forma piramidale
normalmente operante su due livelli centrale e periferico (di ambito
provinciale o raramente regionale) il cui titolare era di estrazione politica
(ministro) e con competenza generale su di un determinato macrosettore:
materiale ad esempio agricoltura, trasporti, istruzione o funzionale come
finanze, bilancio, difesa o ancora istituzionale come giustizia,affari esteri.
Nella sua forma tradizionale il ministero al suo interno si basava su
burocrazie reclutate e formate in modo specialistico e si suddivideva per
sottosettori definiti per competenze funzionali o organizzative e di supporto
e le diverse sedi erano tra loro in relazione gerarchica in modo che in ogni
settore quella di livello inferiore era tenuta a conformarsi alla volontà di
quella superiore
6
. Una catena gerarchica di comando legava il vertice
politico alla struttura propriamente amministrativa, articolata secondo la
sequenza: direzioni generali-divisioni-sezioni
7
. Tale sistema permetteva di
risolvere con un’unica formula organizzativa una moltitudine di problemi
non solo diversi ma potenzialmente conflittuali e la concentrazione in un
unico ministero di apparati prima operanti in ordine sparso permetteva al
vertice un più agevole e intenso coordinamento dei diversi segmenti e la
corrispondente unificazione della relativa responsabilità in capo ad un
unico titolare, il ministro, creando così i presupposti per la piena
responsabilità di quest’ultimo dinanzi alle assemblee e il controllo
parlamentare di queste. In più il personale era inserito fin dall’inizio nel
5
N. Longobardi, Il sistema politico amministrativo, cit.,p.60.
6
M. Cammelli La pubblica amministrazione, cit., pp46-48.
7
N. Longobardi, Il sistema politico amministrativo, cit., p.60.
9
corrispondente ministero dove si svolgeva tutta la sua esperienza lavorativa
e la relativa carriera in modo da assicurare la trasmissione delle esperienze
e delle prassi già maturate e l’acquisizione delle nuove conoscenze imposte
dall’evoluzione del relativo settore. Il modello di relazioni gerarchiche
consentiva di garantire, nello stesso tempo, la pluralità di sedi operative
(centrali e periferiche), l’unicità del livello di comando e l’uniformità
dell’esecuzione la cui osservanza è garantita dal controllo sull’attività e
dalla decisione degli eventuali ricorsi amministrativi presentati dagli
interessati, il tutto concentrato nelle mani del ministro e del vertice degli
apparati.
Si trattava, però, di una realtà plurale: le amministrazioni statali restavano
distinte tra loro ed erano unificate solo per esigenze peculiari (il regime di
bilancio e contabile o il comparto di contrattazione sindacale) o per il
comune riferimento a una sede politica unitaria il Governo.
Un’ulteriore caratteristica distintiva del sistema italiano, dopo il modello
ministeriale è rappresentato dalle relazioni centro- periferia. Si aveva,
infatti, una preminenza totale dell’ordinamento statale al quale solo
spettava, se e nella misura in cui lo riteneva utile, accordare rilievo alle
altre realtà istituzionali, lo stato quindi stabiliva se e in quale misura altre
amministrazioni, anche non statali, potevano qualificarsi pubbliche e
partecipare dei relativi caratteri esercitandone sotto adeguata vigilanza una
parte delle prerogative di autorità
8
.
La legge Rattazzi del 1859 n.3073 del 23 ottobre e la legge del 20 marzo
1865, n.2245 sull’unificazione amministrativa del regno configurarono
comuni e province come meri enti autarchici sostanzialmente derivati dallo
Stato e aggrovigliati in una fitta trama di controlli e interventi statali,
8
M. Cammelli, La pubblica amministrazione , cit. pp. 50-51.
10
attraverso la vigilanza e la tutela prefettizie
9
. Il sindaco era di nomina regia
e le funzioni erano definite in modo eguale e per tutti dal centro mediante il
sistema delle spese obbligatorie e di quelle facoltative esigue rispetto alle
prime
10
. Il Prefetto, dipendente del Ministro dell’Interno rappresentava il
Governo nella Provincia e svolgeva un ruolo politico di mediazione delle
istanze sociali. Il timore della disintegrazione dell’unità nazionale appena
raggiunta fece in modo che vennero accantonate le aspirazioni
regionalistiche
11
. Il funzionamento di tale modello, però, fu fortemente
condizionato da molteplici fattori che hanno limitato l’effettività delle
prerogative centrali e offerto al sistema locale la possibilità di esercitare in
concreto un ruolo più rilevante rispetto a quello concesso a livello
normativo. Tra i fattori si possono ricordare l’assetto istituzionale
preesistente, lo storico radicamento dell’autonomia comunale nel nostro
paese e la fragilità del nuovo ordine amministrativo ancora di più
indebolito da ulteriori dinamiche. Un esempio è dato dal Prefetto, che
impersona le contraddizioni generate dal contrasto tra rigidezza del
modello astratto e necessità di adattamento imposta dalle condizioni
concrete del contesto in cui era chiamato a operare. Il ruolo amministrativo
di questo viene indebolito dal prevalere delle relazioni dirette tra organi
periferici e rispettivi ministeri di riferimento, mentre il ruolo svolto dal
Prefetto sulle scelte principali di livello locale come ad esempio per quel
che concerne la nomina regia del Sindaco che scaturiva dall’indicazione del
prefetto e del ministro degli Interni e che si giocava sul terreno dei rapporti
con notabili locali e del delicato equilibrio da realizzare tra questo aspetto e
gli orientamenti della maggioranza al Governo, ne sottolineava il carattere
9
N. Longobardi , Il sistema politico- amministrativo, cit. p.60.
10
M. Cammelli, La pubblica amministrazione, cit. p. 59.
11
N. Longobardi, Il sistema politico- amministrativo, cit. p.60.
11
politico. A differenza della Francia l’Italia aveva quindi prefetti più politici
che amministrativi che però riuscivano a risolvere il compito più difficile e
urgente che il nuovo Stato si trovava a dover fronteggiare: quello di
agevolare l’espandersi dell’influenza della classe politica nazionale
contenendo allo stesso tempo le spinte centrifughe presenti a livello
periferico in modo da facilitarne l’integrazione. La chiusura e
l’autoreferenzialità delle amministrazioni periferiche di settore ne
impoveriva il ruolo perché, sprovviste della capacità di trasmettere al
centro la domanda locale di politiche pubbliche, ne agevolava la
marginalizzazione relegandole a compiti di pura esecuzione di quanto
stabilito. Quindi le complesse mediazioni tra classe politica e notabilato
locale non si svolgevano su linee amministrative e istituzionali bensì a
livello politico. La netta prevalenza del circuito politico istituzionale su
quello amministrativo rappresenta un tratto specifico del sistema italiano
destinato a durare. In particolare vediamo come al di là delle forme il
sistema locale acquistava un peso notevole che smentiva il ruolo marginale
cui formalmente lo si vorrebbe relegare, perché era in grado di
condizionare o almeno di negoziare buona parte degli interventi statali
operati sul territorio.
Un’altra caratteristica del modello è rappresentata da un sistema di controlli
sulla legittimità di ogni singolo atto sia interno sia esterno (sistema delle
ragionerie, segretari comunali) che esterno (Corte dei Conti, prefetto,
Comitato di controllo) per lo più preventivo ampio e articolato. In
particolare il compito di tale strutture era quello di verificare l’effettiva
osservanza delle normative sostanziali, procedurali e contabili cui erano
sottoposte tutte le pubbliche amministrazioni
12
.
12
M. Cammelli, La pubblica amministrazione , cit., p.50.
12
Un punto di forza del sistema era dato dalla sfera della tutela
giurisdizionale nei confronti del privato. L’intento originario, che era
quello di assicurare il maggior grado possibile di tutela ai privati nei
confronti della Pubblica Amministrazione fu compromesso dalla tendenza
dei giuristi e del Consiglio di Stato di interpretare restrittivamente l’area dei
diritti ed estensivamente quella degli interessi. In questi, infatti, venivano
ricomprese anche le situazioni giuridiche fatte oggetto di provvedimenti
illegittimi per le quali però di tutela non si poteva parlare in senso proprio
in quanto la decisione era rimessa alle stesse amministrazioni che avevano
adottato il provvedimento e che perciò erano naturalmente interessate alla
conservazione di quest’ultimo.
A questo punto per porre rimedio a tale situazione fu recuperata la tesi di
giurisdizioni amministrative speciali rimasta soccombente nel dibattito del
1865 e si trasferì la materia al Consiglio di Stato presso il quale, nel 1889,
fu istituita una quarta Sezione per la soluzione di queste controversie. Così
nasce la storica vicenda dei due giudici: uno ordinario e uno amministrativo
e dei conflitti tra cittadino e Pa.
Possiamo osservare come una delicata funzione giurisdizionale venga
riconosciuta a una sede parzialmente sprovvista di quel carattere di terzietà
che dovrebbe costituire il presupposto principale. Dopo il 1889 era molto
difficile qualificare come giurisdizionale la IV Sezione del Consiglio di
Stato, la cui istituzione era stata anche facilitata proprio sul presupposto
della sua natura amministrativa, in altre parole articolazione della Pubblica
amministrazione. Il Consiglio di Stato, infatti, espletava ed espleta tuttora
funzioni importanti di vera e propria amministrazione basti ricordare il
ruolo consultivo svolto nei confronti del Governo e dell’amministrazione
statale o gli incarichi governativi quotidiani di alcuni suoi componenti
13
(capo gabinetto, consigliere giuridico) e in più una parte dei suoi
componenti è di diretta nomina governativa.
Tutto ciò si è accentuato quando, sempre nel 1889, a livello locale sono
state affidate funzioni giurisdizionali di primo grado anche se in materie
limitate alla Giunta provinciale amministrativa presieduta dal Prefetto e
composta di dirigenti e funzionari della Pa. Funzione soppressa soltanto
nella metà degli anni ’60 del secolo successivo e la definitiva istituzione,
come giudici amministrativi di primo grado, dei tribunali amministrativi
regionali (TAR) nel 1971.
Il nostro paese ha visto nel corso del tempo una persistente debolezza
parlamentare in tema di Pa. Il Parlamento è stato molto spesso tagliato fuori
dalle scelte strategiche in materia anche nei momenti cruciali della nostra
storia: fuori dalle scelte istituzionali di fondo dell’unificazione italiana
come le leggi Rattazzi e anche dalla stessa opera di unificazione legislativa
e di definizione dei fondamenti del sistema amministrativo (2248/1865)
così come nel periodo successivo (provvedimenti istituzionali del regime
transitorio 1943-48). Si può quindi affermare che quando le scelte sono
generali e riguardano la Pa nel suo complesso, il tema coinvolge
direttamente il Governo e salvo limitate eccezione viene affrontato in
questa sede, mentre al Parlamento resta solo il compito di ratificare quello
che è stato precedentemente stabilito altrove.
Questa estraneità del Parlamento ha quindi causato il ridimensionamento
del progetto istituzionale da cui il costituzionalismo ottocentesco era partito
rendendo così vulnerabile l’intera costruzione. Tale situazione è ben
visibile dal fatto che la relazione annuale presentata dal ministro della
Funzione Pubblica o i periodici referti alle Camere della Corte dei Conti in
materia di funzionamento della Pa che possono essere considerati degli
14
strumenti decisivi per il controllo sulla Pa e sul Governo risultano del tutto
disattesi e inutilizzati
13
.
Tale fragilità del Parlamento sarebbe meno grave se potesse contare su un
forte governo del sistema amministrativo da parte dell’esecutivo ma così
non è; basta pensare all’omissione o debolezza di strutture cruciali per il
centro di un sistema unitario come ad esempio l’incerto funzionamento
delle conferenze Stato-Regioni e il rapporto tra sedi generali e apparati di
settore. Il centro per essere davvero tale oltre ad essere titolare di poteri
decisionali deve essere innanzitutto provvisto di strumenti capaci di
incidere in profondità sull’ordinamento e organizzazione del complesso
degli apparati, almeno per quel che riguarda gli aspetti principali
(coordinamento, formazione della burocrazia e dei suoi vertici, la cura delle
strutture tecniche e del relativo personale, la fornitura e la circolazione
delle informazioni, il controllo delle risorse, la possibilità di verificare
quanto avviene). Tali strumenti sono mancati o ci si è limitati alla loro
semplice previsione normativa senza effetti concreti fino agli anni ’90 dello
scorso secolo, fino a quando le relative riforme hanno modificato il quadro.
Tutto rimane affidato alle amministrazioni di settore. Tale debolezza ha
avuto come conseguenza sin dai primi anni dell’Unità la mancata attività di
vigilanza svolta attraverso forme ispettive attrezzate e continuative, ma
soprattutto ha fatto si che non si formassero centri unitari di formazione
della dirigenza amministrativa paragonabili, come efficacia e prestigio, alle
grandi scuole dell’esperienza francese. Questa debolezza del centro è ben
visibile anche a livello locale dove il ruolo del prefetto precedentemente
illustrato è da subito messa in discussione, e fortemente ridimensionata,
non dai Comuni o dal sistema locale ma dalle altre amministrazioni
periferiche dello Stato che fin dagli anni successivi all’Unità rivendicano e
13
M. Cammelli, La pubblica amministrazione, cit. pp. 51-54.
15
ottengono relazioni dirette non intermediate dal prefetto con i rispettivi
centri ministeriali. Per concludere possiamo affermare che quello italiano è
e rimane per lungo tempo un centralismo senza centro in quanto sprovvisto
degli strumenti e degli attori istituzionali necessari per un centro forte ed
efficiente. Tale debolezza del centro non viene corretta nemmeno in
determinati periodi come ad esempio il ventennio fascista durante il quale
al Capo del Governo non mancava la forza e il peso politico di correggere
tali dinamiche. Il fascismo quindi si adagiò su un sostanziale continuismo.
Questo perché, nell’esperienza italiana, chi dispone della forza sufficiente
per introdurre innovazioni organiche non ne ha bisogno in quanto può
conseguire gli stessi risultati più direttamente e incisivamente grazie al
proprio peso politico mentre chi ne è sprovvisto non è in grado nemmeno di
porsi il problema
14
.
Il prevalere di logiche settoriali finisce per incidere pesantemente
sull’uniformità normativa e organizzativa degli apparati amministrativi: già
dopo i primi dieci anni dell’Unità è visibile lo smembramento
dell’omogeneità del modello ministeriale, mentre lo sviluppo economico di
inizio secolo porta ad aprire il capitolo delle deroghe, delle eccezioni e dei
regimi e soluzioni speciali.
Ci si riferisce in particolar modo al crescente problema degli adattamenti
del regime ordinario per problemi amministrativi di determinate aree
territoriali in quanto bisognosi di accorgimenti o messe a punto mirate al
caso concreto. Queste situazioni erano maggiormente presenti nel
Mezzogiorno dove, dopo una prima fase fondata su azioni amministrative
speciali attribuite ad apparati ordinari, si aprì quella di forme organizzative
speciali (istruzione elementare, acquedotto pugliese affidate a strutture
specificamente istituite, la celebre legge per il risanamento di Napoli).
14
M. Cammelli, La pubblica amministrazione, cit. pp. 54-57.