INTRODUZIONE
Parlare di “artiste” ancora oggi significa spesso fare
riferimento ad una sorta di categoria “a parte” del mondo
dell’arte, un pezzo di storia che pochi specialisti conoscono.
Nella storia dell’arte le donne sono state a lungo presenti
come Muse ispiratrici, modelle, compagne o amiche di artisti
di genio, solo in pochi casi sono entrate a pieno titolo nel
racconto delle vicende storico-artistiche. Anche in testi
considerati oggi dei classici, come il Gombrich, l’Hamilton e
il Janson, le donne sono poco o per nulla menzionate. Solo a
1
partire dagli anni Settanta del secolo scorso numerose
studiose e storiche dell’arte, da Linda Nochlin a Griselda
Pollock, sull’onda dell’ideologia femminista che si stava
affermando, cominciarono a ricercare un presunto “specifico”
femminile, domandandosi se e in che misura il “genere” di un
artista - inteso non dal punto di vista biologico ma come
l’insieme delle costruzioni sociali del maschile e del
femminile - possa influenzarne la carriera e condizionare il
2
giudizio del pubblico e della critica, nonché la fortuna presso
i posteri. Si sviluppò così, all’interno dei cosiddetti Gender
Studies, una sorta di “doppio sguardo” sull’arte: da una parte
si cercò di sottrarre le artiste all’oblio della storia, dall’altra si
misero in luce le strutture sociali che avevano determinato
questa esclusione - questi due filoni della critica possono
Cfr. P. McCracken, La (in)visibilità sociale di Ar ste e Designer, in M. A. Trasforini (a cura di), Arte a parte,
1
Milano, Franco Angeli editore, 2000, p. 85.
M. A. Trasforini, L’ar sta invisibile. Come il genere ha cambiato la storia dell’arte, in M. A. Trasforini ( a
2
cura di), Donne d’arte. Storie e Generazioni, Roma, Meltemi editore, 2006, p. 24.
1
essere definiti rispettivamente “aggiuntivo” e “decostruttivo-
epistemologico”.
3
Partendo dall’analisi delle dinamiche in atto nella
cultura dell’Ottocento, passando poi per una ricostruzione dei
percorsi biografici e artistici e concludendo con una disamina
dei temi e delle tecniche adoperate, obiettivo di questo lavoro
è ricostruire la personalità di quattro artiste che possono a
buon diritto essere considerate come parte significativa della
rivoluzionaria stagione dell’Impressionismo: Berthe Morisot,
Eva Gonzalès, Marie Bracquemond e Mary Cassatt. Queste
pittrici, rispettivamente tre francesi e un’americana, si
formarono con maestri d’eccezione – da Corot a Manet, da
Ingres a Chaplin – e parteciparono al Salon e alle mostre
alternative al circuito ufficiale. In una città ricca di stimoli e
fermenti culturali, Parigi, queste quattro artiste condussero
esistenze piuttosto agiate, cosa che consentì loro di dedicarsi
senza grosse preoccupazioni alla vocazione di pittrici;
scontarono tuttavia l’esclusione dalle accademie e dalle
mostre ufficiali, precluse alle donne, e finirono per fare della
pittura - Marie Bracquemond ne è un caso esemplare - più un
passatempo privato che una professione, dato che la cultura
dell’epoca non poteva accettare di buon grado una
rivoluzione così radicale. Questo spiega almeno in parte una
fortuna critica piuttosto discontinua e tardiva: Julius Meier-
Graefe, uno dei più importanti rappresentanti della critica
tedesca, non le include nei suoi lavori sull’Impressionismo
del 1902 e del 1907, mentre Gustave Geffroy, nel terzo
volume de La Vie Artistique del 1894, riserva alla Morisot,
alla Cassatt e alla Bracquemond altrettanti capitoli
Id., p. 25.
3
2
monografici. Solo di recente importanti mostre retrospettive
4
- quella sulla Cassatt a Chicago e Washington del 1999,
quella sulla Morisot a Lille e Martigny del 2002, infine
l’esposizione collettiva di Francoforte e San Francisco del
2008 - hanno conferito il giusto rilievo all’Impressionismo
5
al femminile.
La tesi si divide in tre capitoli: il primo mette in luce
alcune delle principali caratteristiche del contesto culturale e
specificamente storico-artistico in cui le quattro pittrici
operarono; il secondo ricostruisce i singoli percorsi biografici
e artistici, soffermandosi sull’analisi stilistica delle opere
principali; il terzo infine riflette sulle tecniche adoperate e
rintraccia i temi più frequentati, analizzando le ragioni e le
modalità delle scelte iconografiche.
I. Pfeiffer, Impressionism Is Femine, in I. Pfeiffer, M. Hollein (a cura di), Women Impressionists ,
4
Frankfurt, Hatje Cantz, 2008, pp. 12-‐13.
I. Pfeiffer, M. Hollein, op. cit., p. 14.
5
3
CAPITOLO I
ESSERE PITTRICI NELL’OTTOCENTO
I.1 Spazi di genere
Nel corso dell’Ottocento, secolo che per eccellenza
rappresenta la ricerca dell’emancipazione e dell’eguaglianza
da parte delle donne, il numero di coloro che si dedicano
all’attività artistica aumenta in maniera rilevante: si stima che
attorno al 1860 a Parigi, allora capitale dell’arte europea, il
25% del professionismo artistico fosse rappresentato da
donne.
1
Da sempre la pittura, insieme alle lezioni di musica e
al ricamo, aveva fatto parte di quei “talenti femminili” che le
signorine della medio-alta borghesia dovevano acquisire, non
come bagaglio culturale che potesse essere la base per una
occupazione seria, ma come “accessori” che le “abbellivano”
rendendole più piacevoli agli occhi dei loro futuri mariti.
Soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento l’arte
diventa uno degli strumenti che le donne adoperano per la
propria rivalsa sociale, così che cominciano a dedicarsi ad
essa con una certa continuità, dipingendo oli, acquerelli,
pastelli, decorando ceramiche e – ancora molto raramente in
questo periodo – realizzando sculture, pensando a se stesse
come a delle vere e proprie professioniste. Uno dei simboli di
questa nuova percezione è l’atelier: possedere uno studio,
condiviso o privato, non è più un privilegio maschile o solo
un vanto delle pittrici più famose come nei secoli precedenti,
M. A. Trasforini, Introduzione. Nei magazzini dei musei e in quelli della memoria, in: M. A. Trasforini ( a
1
cura di), Arte a parte , op. cit., p. 10.
4
ma uno spazio che molte artiste del secondo Ottocento,
gestiscono come una sorta di quartier generale o, come
scriverà Virginia Woolf, “una stanza tutta per sé”, uno spazio
privato in cui poter esprimere se stesse. Tuttavia, se da una
parte il fenomeno della donna che si dedica
professionalmente all’attività artistica diventa diffuso,
dall’altra esso si scontra inevitabilmente con il restrittivo
modello vittoriano, che ancora attribuisce alla donna solo ed
esclusivamente il ruolo di moglie, madre e angelo del
focolare; d’altra parte la ricca borghesia poteva accogliere
con benevolenza i prodotti amatoriali “di una creatività
femminile educata”, ma non poteva pacificamente accettare
2
l’idea della donna-artista, che per seguire la sua professione
era portata a trascurare i suoi doveri all’interno della famiglia
e “a rinunciare, secondo la considerazione comune, alla
propria e all’altrui felicità naturale per concentrarsi su un
esercizio creativo tanto faticoso quanto del tutto incerto nei
risultati”. La conferma di questo atteggiamento culturale ci
3
viene, tra l’altro, dalla letteratura: nel 1878 Alphonse Daudet
scrive un racconto che ha come protagonista una scultrice, la
quale esprime perfettamente con le sue parole il pensiero
dell’autore:
Sono sicura che lui (il principe azzurro) non vorrebbe mai
questo mostro chiamato donna artista […] l’arte è un
tiranno. Devi darti a lei completamente. […]. Non sono
stata mai nient’altro che un’artista, una donna emarginata
dagli altri, una povera amazzone con il cuore imprigionato
nella sua corazza di ferro, gettata nella mischia come un
uomo e condannata a vivere e morire come un uomo.
4
M. Corgna , Ar ste: dall’Impressionismo al nuovo millennio , Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 1.
2
Id., p. 2.
3
A. Daudet, Le Nabab, Parigi, 1981, p.258, citato in M. Corgna , op. cit., p. 3.
4
5
Oltre a ciò, altri impedimenti si profilavano lungo il
cammino di una donna che intendesse fare l’artista.
Dipingere costava tra i duemila e i tremila franchi l’anno:
quale padre o marito erano disposti a investire una tale
somma sul talento di una ragazza che sarebbe stata giudicata
con diffidenza sia dal pubblico che dalla critica solo per il
fatto di appartenere al genere femminile? Inoltre
l’equipaggiamento da pittore era ingombrante nonché pesante
da trasportare, un impaccio non indifferente per una donna
vestita secondo i dettami del decoro dell’epoca. A ciò si
aggiunga il fatto che una donna per bene doveva essere
accompagnata dappertutto e che alcuni luoghi le erano
assolutamente preclusi – motivo per cui, ad esempio, Rosa
Bonheur si aggirava per i macelli di Parigi vestita da uomo,
per studiare le carcasse degli animali.
A partire dalla seconda metà del diciannovesimo
secolo, però, le donne cominciano a poter intraprendere
lunghi viaggi per l’Europa senza la necessità di avere un
accompagnatore: meta privilegiata diventa Parigi, vero e
proprio polo di attrazione per gli artisti dell’epoca; al fine di
rendere più agevole la permanenza nella grande città,
vengono pubblicati libretti come quello di Mary Alcott
Nieriker, che scrive una sorta di vademecum dal titolo
Studiare arte all’estero e come farlo a poco prezzo, nel quale
le ragazze americane possono trovare indicazioni su alloggi
rispettabili, ristoranti in cui mangiare spendendo poco, ecc.
Le donne iniziavano quindi a poter circolare più liberamente,
venendo a contatto con molteplici stimoli e influenze;
gradualmente cominciarono ad essere ammesse all’interno di
esposizioni importanti come il Salon e a ricevere
6
riconoscimenti molto ambiti come la Legion d’onore: nel
1865 quest’importante onorificenza fu assegnata a Rosa
Bohneur, prima donna in assoluto a esserne gratificata; ma
forse tale riconoscimento le venne assegnato proprio in virtù
del fatto che essa non era considerata una “vera” donna, bensì
una sorta di ibrido, dato che coltivava comportamenti molto
maschili ed eccentrici per quel periodo: aveva i capelli corti,
portava i pantaloni (all’epoca, per indossarli era necessario
un permesso speciale rilasciato dalla polizia, da rinnovare
una volta ogni sei mesi), fumava e cavalcava come un uomo.
5
Tutto ciò dimostra come lo scoglio più difficile da
superare per un’artista fosse proprio “lo sguardo degli altri”:
infatti non solo le opere realizzate da mani femminili erano
costantemente guardate con scetticismo, poiché era
inconcepibile che una donna andasse oltre il puro
dilettantismo, ma, anche quando ne veniva riconosciuto il
genio, questo era ricondotto ad una sorta di alter ego
maschile. Altrettanto frequente era l’errore di cercare a tutti i
costi uno “specifico femminile” nella produzione delle
artiste, per cui molto spesso alle loro opere venivano associati
aggettivi quali delicato, aggraziato, dolce, gentile. Il critico
francese Léon Lagrange così commenta in un articolo dal
titolo Woman position in Arts apparso sulla rivista americana
“The Crayon” nel 1860:
Il genio maschile non ha nulla da temere dal gusto
femminile. Lasciate che il genio maschile si esprima nei
grandi progetti architettonici, nelle sculture monumentali e
nei generi elevati della pittura. In una parola lasciate che
gli uomini si occupino di tutto ciò che ha a che fare con la
grande arte. Lasciate invece che le donne si occupino di
quel tipo di arte che da sempre preferiscono come il
pastello, i ritratti e le miniature. O la pittura di fiori, quei
Cfr. M. Corgna , op. cit., p. 29.
5
7
prodigi di grazia e freschezza soli possono competere con
la grazia e la freschezza delle donne stesse.
6
Questa citazione consente di aprire una breve
parentesi sulle attività artistiche che non erano considerate
espressamente femminili, in particolare la scultura: una
tecnica così impegnativa e faticosa nella mentalità comune
non si addiceva di certo ad una donna. A ciò bisogna
aggiungere gli elevati costi che questa lavorazione esigeva
insieme alla disponibilità di spazi di grandi dimensioni di cui
difficilmente una donna poteva disporre; inoltre quale
committente così ricco e importante, tanto da potersi
permettere un’opera scultorea, si sarebbe rivolto ad una
donna per la sua realizzazione? Così parlava intorno al 1865
il reverendo R.B. Thurstone a proposito delle artiste:
La tavolozza, i pennelli e i colori si adattano in modo
naturale alle loro mani, ma martelli e ceselli sono utensili
pesanti e gravosi, e le masse di argilla bagnata, i blocchi di
marmo e le colate di bronzo sono materiali rudi e
intrattabili per un lavoro femminile.
7
Questo pensiero evidenzia come nel mondo dell’arte
“gli addetti ai lavori” si preoccupassero di distinguere
accuratamente tra l’arte con la “a” maiuscola e “l’arte delle
donne”; la creazione di una sorta di mondo a parte fatto di
fragilità e sentimentalismo – il quale viene poi etichettato
come “femminile” – non fa che aumentare il divario e, in
qualche modo, il dislivello tra uomo e donna, quest’ultima
percepita sempre più come una minoranza nel senso più
ampio e negativo del termine.
Ar colo citato in S. Bartolena, Le donne nel panorama ar s co del secondo O ocento, Una stanza tu a
6
per sé, in AA. VV., La storia dell’Arte, vol.15, L’età dell’Impressionismo , Milano, Mondadori Electa, 2006,
p. 418.
S. Bartolena, Arte al femminile. Donne ar ste dal Rinascimento al XXI secolo , Milano, Electa, 2003, p.
7
100.
8