“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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presenza nella società stessa di fasce deboli e svantaggiate, sottolineando come alcuni
servizi non si riducano all’esercizio di competenze professionali (handicap, anziani soli,
ecc.) ma esigano una predisposizione alla relazione personale con “l’assistito”, perché il
servizio sia efficiente e valorizzi la persona assistita, restituendogli la dignità di
cittadino.
Il Governo si sta muovendo affinché nei prossimi anni possa trovare fattiva
manifestazione una crescente promozione di tutto il “terzo settore”, dichiarandosi
altrettanto aperto ad un dialogo costruttivo. Ne sono la prova le ultime produzioni
legislative nelle quali c’è l’impegno ad aumentare le competenze degli enti non profit in
materia di servizi sociali. Ecco che alla programmazione, gestione ed offerta di servizi
provvedono oltre ai soggetti pubblici, organismi di utilità sociale non lucrativi,
organismi della cooperazione, associazioni di volontariato, fondazioni, enti di patronato
e altri soggetti privati. Viene quindi riconosciuto l’importante ruolo delle organizzazioni
senza scopo di lucro nel sistema integrato di interventi e di produzione di beni e servizi
meritori. Per svolgere i compiti attribuiti con maggiore efficacia a livello nazionale,
regionale ed in alcune provincie italiane, gli organismi del “terzo settore” si sono riuniti
per creare un’organizzazione denominata “Forum del III Settore”, con i compiti
principali di:
- aumentare e valorizzare i processi di conoscenza, scambio e collaborazione tra le
diverse organizzazioni;
- impegnarsi in un progetto comune di crescita morale, civile, sociale ed economica
della realtà locale;
- rappresentare gli interessi e le istanze comuni nei confronti delle istituzioni, delle
forze politiche e delle altre organizzazioni;
- impegnarsi a sostenere le iniziative per rimuovere le condizioni di ingiustizia tra i
popoli e per la pace;
- contribuire a ridefinire un sistema di protezione sociale non residuale e riparatorio
che, ispirandosi ai principi di solidarietà, universalismo e sussidiarietà, trovi
un’effettiva possibilità di realizzazione, grazie al riconoscimento ed alla
valorizzazione della partecipazione dei cittadini anche attraverso le organizzazioni
di questo tipo.
Si è aperta una nuova fase per il mondo del non-profit: lo Stato abbandonando la sua
centralità, passa alle Regioni competenze sempre più larghe, così come è previsto dal
dettato Costituzionale. I Comuni diventano i terminali di questa riforma, con una
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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competenza allargata sul piano della solidarietà. Il fine ultimo di questo complesso
cambiamento di destinatari è quello di stabilire un sistema integrato tra regioni,
provincie, comuni e forze associative; un nuovo patto che le veda coprotagoniste della
riforma dello Stato sociale. In questo contesto è pensabile che alle cooperative andranno
quasi certamente i servizi che richiedono una presenza continuativa nell’arco delle
ventiquattro ore. Al volontariato spetterà la gestione dei servizi “leggeri”, che
consentano anche a chi ha un’occupazione durante la giornata, di assicurare il proprio
apporto di partecipazione delle ore libere messe a disposizione di iniziative di lotta
all’esclusione. Soprattutto, il volontariato diventerà uno dei tutori dei diritti dei cittadini,
perché la riforma dello Stato sociale non li riduca ma anzi li accresca.
Nell’attuale panorama economico-sociale, il “terzo settore” è un punto fermo,
corteggiato e forse anche temuto da alcuni soggetti sociali. Al suo interno esiste anche
una confusione di ruoli che ne falsa la prospettiva, attribuendogli obiettivi economici
(ridurre i costi dei servizi, aumentare i posti di lavoro) piuttosto che atteggiamenti
morali quali:
- la rilevazione dei bisogni, troppo spesso insoddisfatti, perché non resi evidenti;
- la prevenzione, intesa come azione primaria per la rimozione delle cause che
determinano condizioni di bisogno;
- la valorizzazione della persona, facendola partecipe di un disegno globale di
intervento quale terreno di lotta contro l’esclusione;
- il controllo sulla qualità dei servizi, perché non di rado vengono fornite prestazioni
scadenti che non risolvono le situazioni di bisogno.
Nel dibattito in corso non c’è tuttavia sufficiente chiarezza sul ruolo che il “terzo
settore” svolge e potrà svolgere in futuro e ciò impedisce di individuare come esso
possa collegarsi con la riforma del sistema di welfare. Il Parlamento, comunque, ha fatto
degli sforzi per migliorare la situazione. Rientrano in questo disegno sicuramente il
decreto legislativo n° 460/97 ed i relativi aggiornamenti; il disegno di legge nella
disciplina dell’associazionismo; il dibattito sui possibili emendamenti alla legge quadro
sul volontariato; per citarne solo alcune.
Anche a seguito delle diverse funzioni svolte dalle organizzazioni che compongono il
“terzo settore”, le opinioni sul suo ruolo si differenziano:
a) tra chi vede nel “terzo settore” soprattutto un modo per accrescere la partecipazione
dei cittadini, la solidarietà diffusa, la democrazia, e chi invece ne valorizza la
capacità di incrementare l’offerta di servizi sociali;
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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b) tra chi ritiene che il non-profit debba essere reso il più possibile autonomo, capace
di collegarsi direttamente con i cittadini in quanto volontari, donatori o
consumatori, e chi invece, preoccupato che la concessione di eccessiva autonomia
al terzo settore possa determinare un’evoluzione in senso residuale dello Stato
Sociale, sostiene che ad esso debbano essere riservate soprattutto funzioni di
integrazione dei servizi pubblici;
c) tra chi, infine, ritiene che il recente sviluppo del “terzo settore” vada attribuito ad
un’oggettiva maggior efficienza e affidabilità della gran parte delle organizzazioni
che lo compongono, e chi invece teme che esso dipenda soprattutto dal
contenimento delle retribuzioni.
Data la carenza di analisi teoriche e di ricerche empiriche sistematiche, il dibattito è
ancora inevitabilmente condizionato da posizioni ideologiche che impediscono il
formarsi del necessario consenso sulle politiche da perseguire. I dati disponibili
permettono comunque di affermare che, anche se non l’unica, una delle caratteristiche
assunte in Italia dal “terzo settore” è il suo crescente coinvolgimento nella produzione
ed erogazione di servizi sociali, che ha affiancato la più tradizionale funzione di
advocacy. Un significativo rafforzamento di questa funzione produttiva è stato
determinato dall’approvazione di alcune leggi e da un sempre più diffuso orientamento
delle amministrazioni locali a coinvolgere le organizzazioni di terzo settore,
finanziandone l’attività, nella produzione di servizi sociali. Il non-profit si è così
progressivamente inserito nel gap tra domanda crescente di servizi sociali, conseguente
all’evoluzione demografica e alla trasformazione del ruolo della donna e della famiglia,
e offerta insufficiente, a causa dello sbilanciamento della spesa pubblica per la sicurezza
sociale a favore dei trasferimenti [Arachi, Zanardi 1996], accentuato da politiche di
risanamento che per diversi anni si sono concretizzate in riduzioni della spesa per il
personale e, più in generale, per i servizi. Lo sviluppo del terzo settore ha così dato un
significativo contributo al formarsi di un’offerta di servizi sociali a fronte della carenza
di forme alternative, sia pubbliche che private forprofit. Questo processo è tuttavia
avvenuto in modo non programmato, stante anche l’assenza di una legislazione organica
sui servizi assistenziali e sociali e alle carenze della normativa sui meccanismi di
contracting-out. Ciò ha permesso, almeno in alcuni casi, il verificarsi di situazioni poco
trasparenti e probabilmente anche di abusi che comunque non sono riusciti ad intaccare
le posizioni che lo sviluppo del “terzo settore” ha raggiunto. Una serie di potenzialità
che, se adeguatamente sfruttate, possono contribuire a riequilibrare sia la domanda e
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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l’offerta di servizi sociali, sia la composizione delle spesa sociale. E’ questo l’angolo di
visuale adottato per l’analisi del settore nelle pagine che seguono: di esso e della sua
evoluzione saranno privilegiati soprattutto gli aspetti che si riferiscono al suo impatto,
effettivo e potenziale, sull’offerta di servizi sociali.
Si vedrà come la farraginosità del percorso verso la creazione di una normativa che
tuteli e promuova le attività degli enti non profit, dipende soprattutto dall’assenza di un
approccio integrale al problema. Così, come prodotto di un dibattito giuridico che
oscilla su obiettivi altalenanti, è nata una legislazione a compartimenti stagni (da una
parte associazioni e fondazioni, da un’altra organizzazioni di volontariato, da un’altra
ancora cooperazione sociale) che, facendo leva sulla diversità di trattamento fiscale
come fattore di promozione di alcune attività rispetto ad altre, ha alla fine generato un
“sistema” di ineguaglianze tra profit e non-profit e tra le stesse organizzazioni non-
profit. Questo come diretta conseguenza di interventi legislativi che vanno nel senso di
una legittimazione per via istituzionale di un fenomeno che istituzionale non è, secondo
modalità che, anziché introdurre criteri ispirati al principio di sussidiarietà,
incrementano la dipendenza e bloccano l’autonomia. Nel complesso, comunque, gli
interventi legislativi sugli enti senza scopo di lucro hanno il pregio di giungere a una
legittimazione di quest’ampio mondo consentendo di formalizzare i rapporti con gli enti
pubblici togliendoli dal rischio della discrezionalità, di instaurare proficui rapporti di
partnership tra settore nonprofit ed istituzioni. L’ultimo intervento legislativo sul terzo
settore costituisce anche il primo tentativo di accomunare in un unico provvedimento
più tipologie non profit (volontariato organizzato, cooperative sociali e organizzazioni
non governative).
Ancora una volta è stato utilizzato lo strumento della legge finanziaria per effettuare, in
forma “impropria” o quantomeno indiretta, interventi di politica sociale. Questa che nel
nostro paese comincia ad essere una prassi consolidata mette in risalto la natura
subordinata (e non sussidiaria) che le politiche sociali tuttora mantengono in Italia
rispetto alle politiche economiche. Nel tempo, tale modalità genera un’acquiescenza nei
confronti di uno stile programmatorio totalmente fondato sui vincoli di bilancio che
diventano, di fatto, il solo criterio ordinatore delle politiche sociali.
La profonda trasformazione interna ed esterna, che hanno subito in questi ultimi
anni le organizzazioni non-profit, ha fatto sì che le stesse aumentassero il proprio
bagaglio professionale e le proprie capacità tecniche e organizzative per riuscire a
combattere le sfide che provengono dall’ambiente esterno. Una di queste è senza ombra
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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di dubbio il fund raising, ossia la ricerca e la raccolta di fonti per finanziare le attività di
fondazioni, associazioni, ONLUS, e altri enti senza scopo di lucro, mediante donazioni,
contributi offerti da privati cittadini, Pubblica Amministrazione e imprese. L’insieme
cioè dei flussi finanziari che, a vario titolo (oneroso o gratuito), da varie fonti e tramite
vari strumenti di contatto e di comunicazione forniscono l’asset finanziario alle aziende
non profit.
Questo perché un assetto finanziario equilibrato è una delle condizioni per
raggiungere gli obiettivi sociali e garantire la continuità dell’istituzione. Il
finanziamento delle aziende non profit, è e sarà un elemento fondamentale e critico per
la gestione caratteristica, funzionale e attiva dell’azienda stessa.
La grande attenzione che oggi viene riservata al tema del “terzo settore” indica nuovi
interessi, necessità, esigenze funzionali e aspettative nei confronti di fenomeni che sono
spesso stati collocati ai margini della cultura economica e politica.
Il 2001 è stato dichiarato: “anno del Volontariato”; e proprio all’interno del nuovo
contesto di riferimento che si va definendosi acquista un nuovo significato
l’individuazione dello spazio sociale occupato dalle organizzazioni senza scopo di lucro
in Italia. Si osservano, a tal proposito, le seguenti tendenze :
1) un processo di burocratizzazione spesso connesso al contatto con l’amministrazione
pubblica e alla stipula di convenzioni;
2) la graduale professionalizzazione di parte del volontariato in forme tuttavia spesso
poco riconosciute e variabili a seconda dei contesti regionali;
3) una crisi della democraticità interna al di là di quanto previsto negli statuti e nei
regolamenti, connessa all’esigenza di operare un controllo più stretto e più efficiente
sulle attività svolte;
4) una graduale devolontarizzazione delle organizzazioni dovuta a crisi di motivazione;
5) un’esigenza crescente di reperire risorse finanziarie aggiuntive per sostenere la
crescita dimensionale, in un contesto segnato da crescenti limiti di disponibilità
finanziaria pubblica.
Nel terzo settore è in gioco non la redistribuzione dei beni bensì quella dei poteri, di
condizioni di base per l’espressione e per l’esercizio della soggettività delle persone,
della loro singolarità e della loro partecipazione alla vita sociale.
Come risulterà chiaro alla fine di questo lavoro, l’associazionismo costituisce un
elemento fondamentale in ogni società democratica e pluralista, in cui individui e gruppi
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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si confrontano, cooperano e competono per l’affermazione di modelli culturali che
realizzano la loro attività, i valori e i significati che sono le vere cause dell’agire umano.
La crescita degli enti non profit non può che apportare importanti elementi a favore di
una fruizione più equa dei diritti sociali e, quindi, un miglioramento delle condizioni
che possono contribuire ad aumentare la partecipazione alla sfera sociale.
* * *
Colgo a questo punto l’occasione per rivolgere un caloroso ringraziamento a tutti coloro
che mi hanno offerto il loro aiuto, direttamente e indirettamente. Al prof. Claudio
Baccarani per avermi indirizzato e seguito in questo percorso di studio; a tutti i
componenti dell’esecutivo del Club Tenco per il tempo concessomi e per l’utile
sostegno datomi per la stesura dell’ultimo capitolo di questo lavoro; ad Amilcare
Rambaldi per la splendida realtà che ha costruito; a Dario e a Valentino, per gli ottimi
anni di convivenza a Verona e per la grande amicizia dimostratami; a tutto il Gruppo
Teatro Calembour che tanto ha contribuito alla mia crescita umana e culturale, e, infine,
alla mia famiglia.
“Non importa se vai avanti piano,
l’importante è che non ti fermi.”
- Confucio -
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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“Lontano lontano” di Luigi Tenco.
Lontano lontano nel tempo
qualche cosa
negli occhi di un altro
ti farà ripensare ai miei occhi
i miei occhi che t’amavano tanto.
E lontano lontano nel mondo
in un sorriso
sulle labbra di un altro
troverai quella mia timidezza
per cui tu
mi prendevi un po’ in giro.
……….
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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Capitolo I: Gli enti non profit
“Le più grandi virtù sono quelle che
sono più utili per le altre persone.”
- Aristotele -
1.1. Un po’ di storia.
Il settore non profit può ben definirsi come il risultato dello scontro tra la nuova
classe politica nazionale (creatasi dopo l’ottenimento dell’unità d’Italia) in piena
rivoluzione industriale, che tentava di limitare il potere ecclesiastico, e il tentativo
d’integrazione tra neosocialismo ed economia capitalista. La nascita del nuovo Stato
portò l’affermazione di una nuova élite politica laica che vedeva nella diminuzione
dell’influenza della Chiesa il suo scopo principale. Sempre nel periodo d’Unità d’Italia
la nuova classe politica si trovò ad affrontare il problema della classe operaia in quanto
c’era una situazione di malcontento diffuso che non faceva altro che creare tensioni
sociali. Ecco che proprio in questo periodo s’iniziò a concepire il sistema d’assistenza
sociale pubblico che potesse controbilanciare e superare le varie società operaie
autonome di mutuo soccorso. Erano gli anni, infatti, in cui il clero amministrava gran
parte dei servizi assistenziali, basti pensare alle Opere Pie, enti morali che avevano
accumulato ingenti patrimoni grazie ai lasciti e alle donazioni. Tra il 1866 – 1890, lo
Stato confiscò i loro patrimoni obbligandoli a sottomettersi al controllo pubblico, iniziò
a sopprimerle e a vendere all’Asta i loro patrimoni. Gli edifici espropriati furono
utilizzati per ospitarvi scuole, ospedali, istituti assistenziali ecc. Una delle leggi più
importanti emanate in questo periodo fu la legge 6972 del 1890 nota come “legge
Crispi” la quale sottometteva al controllo statale le Opere Pie che fornivano servizi di
tipo assistenziale, sanitario, educativo ed imponeva ad ogni istituzione d’assistenza che
avesse una qualche rilevanza economica ad assumere una natura giuridica pubblica.
Questo fu il primo passo verso la trasformazione delle Opere Pie in IPAB, cosa che si
completò sotto il regime fascista. Sempre in quel periodo e specialmente nel ventennio
fascista (1919-1939) furono istituite anche le assicurazioni obbligatorie per la vecchiaia
e la disoccupazione, furono soppresse le società operaie sostituendole con altre
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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associazioni pubbliche. Col passare del tempo si venne a creare una separazione di
ruoli, nel senso che lo stato garantiva i servizi di sicurezza sociale, sanità, educazione
mentre la maggioranza degli altri servizi sociali erano erogati da enti vicini alla Chiesa.
Tutto sommato però queste leggi riuscirono solo parzialmente nel loro intento in
quanto scalfirono solo superficialmente l’autonomia ecclesiale, anzi la stessa aumentò
con gli anni specie con la firma del Concordato del 1929 che concesse alla Chiesa
un’autonomia d’azione, dichiarò il cattolicesimo religione nazionale e molte
organizzazioni di matrice religiosa divennero a tutti gli effetti parte integrante del
sistema pubblico di sicurezza sociale. Anche dopo l’approvazione della Costituzione, la
legge Crispi si mantenne praticamente invariata nonostante contrastasse col principio di
libertà d’associazione sancito dall’articolo 38. Questo fu possibile a dire di molti
studiosi di diritto grazie ai notevoli vantaggi che la legge garantiva alla Chiesa come per
esempio il finanziamento pubblico per l’acquisto di beni capitali o fondi assistenziali
religiosi d’origine pubblica. Fu solo nel 1977 che lo stato emanò una legge che limitava,
di fatto, la libertà d’azione delle IPAB e iniziò il processo di analisi incostituzionale
della legge 6972. La pronuncia di incostituzionalità venne solo, una decina di anni più
tardi e ciò fece sì che le nuove organizzazioni assistenziali potessero usare statuti
giuridici privati mentre le IPAB potessero optare per il riconoscimento giuridico di
diritto privato.
Più tardi sotto l’amministrazione giolittiana, che produsse tra l’altro un’intensa
legiferazione, furono istituiti dei fondi mutualistici basati su contributi volontari
organizzati dallo stato. Se quindi la tendenza negli anni fu quella di limitare il ruolo
delle organizzazioni private nel campo del soddisfacimento dei “bisogni collettivi” in
anni recenti la situazione si è molto modificata. Si vedrà nel corso della tesi in che cosa
consiste questo cambiamento e dove si stanno dirigendo gli enti non profit.
Una fase fondamentale per la nascita del settore si ebbe, a livello internazionale,
negli anni ’40.L’atto di riferimento per i paesi europei fu il Piano Beveridge del 1948
approvato in Inghilterra. Era un piano estremamente avanzato per l’assistenza sanitaria
totale e gratuita “dalla culla alla tomba” e rimasto un modello in campo di assistenza
sanitaria per il mondo intero. In Gran Bretagna fu realizzato con l’Health Act del
governo Attlee, su iniziativa dell’allora ministro della sanità A. Bevan, per lunghi anni
leader della sinistra laburista. Esso era ispirato ai principi dell’universalismo egualitario,
una corrente di pensiero che affonda le proprie radici in quella teoria o concezione della
realtà che non si arresta a considerare gli individui e le diverse parti del reale
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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isolatamente, ma ne coglie la superiore unità e universalità. Secondo questo principio a
tutti i cittadini era garantito un trattamento minimo uniforme, per far fronte alle
necessità della vita.
Come dimostra la nostra storia contemporanea i sistemi di welfare state conobbero negli
anni successivi una notevole espansione in un primo momento giustificata dalla forte
crescita economica, successivamente per coprire gli effetti negativi della crisi petrolifera
degli anni ’70. Le logiche dello stato sociale non hanno coinciso sempre con l’idea
comune di giustizia: gli abbondanti flussi di denaro erogati dallo stato favorivano
determinate categorie di cittadini trascurandone altre, in particolare i giovani, e
alimentando così il fenomeno della crescente esclusione sociale. In più, questi interventi
dello Stato seguivano spesso logiche poco trasparenti, soprattutto in Italia dove negli
interstizi dello Stato sociale si sono insinuati spesso favoritismi e connivenze, rendendo
ancora meno efficiente l’opera dello Stato. La spirale di queste applicazioni distorte dei
principi di welfare state provocò esiti disastrosi sul bilancio statale: si sentì quindi la
necessità di un ridimensionamento dell’intervento pubblico, incentivando nuove forme
di organizzazione di utilità sociale.
Le accuse che soprattutto gli economisti hanno indirizzato ai sistemi pubblici di Welfare
state si concentrano su tre aspetti:
1) Sostenibilità economica: dei sistemi stessi in quanto si è visto sia un aumento della
quota del Prodotto interno lordo per il finanziamento della spesa pubblica per i
servizi di welfare delle economie occidentali negli ultimi trenta anni, sia la
frequenza dei disavanzi delle agenzie di pubblici servizi. Si è vista una sorta di
“malattia dei costi” nei servizi di welfare specie perché l’aumento delle retribuzioni
dei soggetti che operano in questi campi non è correlata alla produttività, percui
diventa sempre più necessario destinare risorse sociali per finanziare la produzione
di servizi a produttività stagnante.
2) Efficienza: comunemente si parla di inefficienza pubblica dovuta ad una mancanza
di competizione e di alternative disponibili per il cliente il tutto condito con poca
flessibilità, alta burocratizzazione e spesso scarsa qualità. A ciò si somma anche
un’altra teoria che vede nell’eccesso di pressione tributaria un altro aspetto di
inefficienza.
3) Incentivi individuali: collegati maggiormente alla creazione di sistemi pubblici di
assicurazione obbligatoria dei rischi individuali che una volta attivati non hanno
meccanismi idonei ad affrontare efficacemente i problemi generati dall’asimmetria
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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informativa tra assicurato e assicuratore. Quindi politiche di welfare create senza
considerare sistemi di incentivi individuali rischiano di creare circoli viziosi di
dipendenza anziché d’autonomia.
Da più parti si afferma che per risolvere questi problemi pubblici basta privatizzare
dove il termine, nel contesto in cui ci muoviamo, può significare sia una diminuzione
delle attività di pubblica produzione, di sussidio o di regolazione, che il passaggio da
una forma d’intervento pubblico ad un’altra, come ad esempio la sostituzione di
produzione pubblica diretta con la regolamentazione di produttori privati. Il puro e
semplice affidamento al mercato costituisce per molti la ricetta più rapida per
raggiungere l’obiettivo di ridimensionare i bilanci pubblici. Tra le molte proposte quella
più in voga sembra essere la separazione del finanziamento dalla fornitura dei servizi; il
primo continuerebbe ad essere una responsabilità pubblica, mentre la fornitura di alcuni
servizi potrebbe essere delegata ad organizzazioni private, specie se senza fini di lucro.
Si delineerebbe così una sorta di “welfare a contratto” in cui la Pubblica
Amministrazione decentra, regola e controlla la fornitura di una parte dei servizi che
prima svolgeva interamente. Ritorneremo comunque su questi concetti in maniera più
approfondita quando parleremo delle modalità di privatizzazione dei sistemi di welfare.
Il modello comunque non è nuovo per l’Italia, semmai sono innovativi i termini della
questione. Dal punto di vista della sostenibilità del sistema, la separazione tra
finanziamento pubblico e fornitura non-profit, effetti positivi possono derivare dalla
capacità delle organizzazioni di attrarre donazioni o dalla facilità di attirare volontari o
pagare salari minori di quelli pubblici, offrendo in cambio ambienti coinvolgenti, forme
di lavoro più flessibili e motivazioni più forti. A ciò va aggiunto lo sviluppo della
capacità di effettuare ridistribuzione di risorse tra diverse categorie di cittadini; la
possibilità di creare un sistema di sussidi incrociati, in definitiva creare un sistema più
flessibile che non gravi interamente sul bilancio pubblico.
Se infine l’efficienza viene intesa come la capacità di produrre un certo livello di output
al minor costo possibile si può ben sperare che anche gli enti non-profit possano dare il
loro prezioso contributo.
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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1.2. Che cosa significa non profit.
Il non profit si è sviluppato a ritmi molto notevoli ma la sua evoluzione non è
stata accompagnata da un’altrettanta rapida crescita culturale del significato e del valore
del terzo settore e soprattutto dell’operare del terzo settore. Il terzo settore assume un
particolare significato se inquadrato nello scenario complesso della crisi dello stato
sociale e delle sue pervasive politiche assistenziali.
Il termine di derivazione anglosassone “not for profit” può essere tradotto con “senza
scopo di lucro”. Mentre negli Stati Uniti il non-profit rappresenta una specifica
categoria giuridica ossia l’insieme delle “tax-exempt organisations”, in Italia è
solamente una categoria concettuale che include le fondazioni, gli enti di tipo
associativo o cooperativo che non operano in una logica di profitto e gli enti
ecclesiastici che non operano in una logica di profitto. Il settore non profit racchiude,
secondo alcuni autori, anche gli enti pubblici, ma si ritiene più espressivo un concetto
più “privatistico” di non profit, analogamente al “terzo settore” della dottrina
statunitense: tutte le organizzazioni private senza scopo di lucro con chiara esclusione
sia degli enti pubblici sia delle imprese commerciali. L’aspetto che comunque
accomuna tutti gli enti non profit è il divieto tassativo di distribuire gli utili: “non
distribution constraint”. Non profit quindi non significa “assenza di risultati economici
positivi”, ma “divieto d’appropriazione individuale dei risultati economici positivi”. A
tal proposito i vincoli posti alle organizzazioni non lucrative d’utilità sociale (ONLUS)
rispecchiano molto bene quest’essenza del non profit.
Il termine anglosassone, si capisce già da queste prime battute, sintetizza una
realtà vasta, variegata e complessa comprendente migliaia d’enti che senza scopo di
lucro si dedicano ad attività socialmente rilevanti nel campo della cultura,
dell’assistenza, della ricerca, della sanità e della salvaguardia dell’ambiente. Il
fenomeno in sé non è una novità, anzi la sua storia è secolare; basti pensare alle molte
istituzioni cristiane con finalità d’assistenza, ai numerosi istituti culturali, agli enti
ospedalieri e assistenziali privati. Si può certamente affermare che nei secoli si sia
venuto a creare un forte collegamento tra non-profit ed interventi umanitari e solidali.
Il fenomeno, come è stato rilevato, non è nuovo nemmeno nel nostro
ordinamento giuridico che regola da tempo vari soggetti non profit: le IPAB istituite
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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dalla “legge Crispi” del 1890, gli enti ecclesiastici riconosciuti dagli accordi tra Stato e
Santa Sede, le associazioni e fondazioni previste dal codice civile del 1943.
I cultori di ragioneria sono spesso inclini a considerare tali soggetti aziende
d’erogazione (o miste) e ne studiano i caratteri in contrapposizione alle aziende di
produzione o imprese commerciali. Possiamo affermare che gli enti senza scopo di
lucro sono organizzazioni d’uomini e cose alla stregua delle aziende, ma senza fini di
lucro appunto, che perseguono cioè uno scopo, una mission, non consistente nella
realizzazione di un profitto. Entrano pertanto in questa definizione gli enti che con varia
forma giuridica si prefiggono finalità sportive, ricreative, assistenziali, di culto, di studio
e ricerca.
La crescita del settore non-profit è sotto l’attenzione di studiosi di varie
discipline (giuridiche, sociologiche, aziendali) per la novità e la vastità del fenomeno.
Da più parti si critica la definizione di terzo settore, che contrappone le organizzazioni
non-profit allo Stato ed alle imprese: ciò in quanto, nei soggetti non-profit si trovano
contemporaneamente talune caratteristiche delle imprese (organizzazione, produzione di
servizi, necessità d’equilibrio economico finanziario) e talune finalità proprie dello
Stato, quali lo svolgimento d’attività socialmente rilevanti (assistenza, beneficenza,
cultura, cura del tempo libero, sport, ecc.). I sociologi tendono a sottolineare l’azione
volontaria gratuita e con finalità solidaristiche mentre gli economisti mettono in rilievo i
vantaggi derivanti dal vincolo di non distribuzione degli utili in tutti quei settori in cui a
causa d’asimmetrie informative si hanno degli svantaggi per il consumatore, specie nel
valutare la qualità dei servizi offerti. La denominazione di terzo settore ha comunque
valenza storica e resta una formula per esprimere un fenomeno nuovo e difficilmente
inquadrabile sotto un’unica denominazione.
Per rappresentare sinteticamente il fenomeno di cui si discute sono stati usati differenti
termini. Si è parlato di “enti” o di “organizzazioni”, dove con il primo termine si
enfatizza l’aspetto giuridico del fenomeno, ma in modo improprio perché non sempre i
soggetti che svolgono tali attività sono giuridicamente enti; si pensi per esempio alle
numerosissime associazioni o fondazioni non riconosciute che non hanno la personalità
giuridica. Più propriamente è usato il termine organizzazione, che prescinde dalla
soggettività giuridica ed enfatizza l’unione d’uomini e mezzi che deve caratterizzare
queste iniziative. Ancora si distingue tra enti e organizzazioni “non-businnes” oppure
“non-profit”. La prima espressione, che può essere tradotta in “ente non commerciale”,
mette in risalto l’attività svolta che è caratterizzata dalla non commercialità. A ben
“ Le prospettive di sviluppo degli enti non profit. Il caso “Club Tenco””
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vedere la locuzione è impropria in quanto molti soggetti svolgono attività commerciale
in via strumentale rispetto al fine non commerciale.
Appare quindi corretta l’espressione non-profit, corrispondente a “senza fini di lucro”,
che sottolinea il fine perseguito dai soggetti indipendentemente dal fatto che sia attivata
sempre o anche occasionalmente, comunque in via strumentale rispetto allo scopo,
un’attività commerciale.
Quanto alla definizione delle organizzazioni “non profit” se ne potrebbero indicare
diverse e allo stesso tempo non esiste una definizione che possa essere accettata in
quanto tale nel sistema giuridico italiano. Diversamente da quanto accade nella
legislazione americana in cui c’è una netta distinzione tra imprese ed enti senza scopo di
lucro. In essa, infatti, il fenomeno è molto più approfonditamente studiato e parte da un
principio basilare difficilmente osservabile dall’esterno ossia il divieto di distribuire
utili sottoforma di dividendi. Le definizioni variano secondo il punto d’osservazione,
ossia, se ci poniamo dal punto di vista giuridico o da quello della normativa fiscale e
tributaria. Nel primo caso la distinzione tra i due tipi d’organizzazione non è fatta in
base alla non distribuibilità dei profitti o del patrimonio bensì si pone l’accento sugli
scopi dell’organizzazione o sulla natura dell’attività. Alcuni studiosi affermano che i
due organismi sono mossi da due scopi differenti economico il primo di tipo ideale
l’altro. Come si nota è una definizione abbastanza riduttiva perché non è per niente
detto che un ente senza scopo di lucro per perseguire la propria mission non eserciti
attività economiche. Altri studiosi fanno risalire la distinzione tra società ed enti usando
il criterio dell’attività; ossia le società produrrebbero beni e servizi mentre le
organizzazioni soddisferebbero solo dei bisogni.
La definizione della legge fiscale è ulteriormente diversa in quanto basa la
classificazione sulla distinzione tra enti commerciali ed enti non commerciali.
Quest’ultimi, che possono essere sia pubblici sia privati, purché diversi dalle società
non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio o la gestione d’attività
commerciali. Inoltre, mentre i primi pagano le imposte sui redditi d’impresa sulla base
del loro reddito totale annuo, gli enti non commerciali sono esentati da quest’obbligo
per tutte le loro attività. Vale la pena rilevare a scanso d’equivoci che tale esenzione non
è applicata all’assenza di scopo di lucro bensì al solo reddito generato dall’attività
definita come “non commerciale”. Come si può ben vedere c‘è una notevole confusione
terminologica.