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1. INTRODUZIONE
1.1. Il problema affrontato
Il problema della gestione delle risorse e del tipo di proprietà più idonea alla loro utilizzazione
è da sempre stato al centro di molti studi e diversi dibattiti.
Nel corso della storia, si sono susseguite differenti correnti di pensiero che attribuivano, ora
ad un tipo di proprietà, ora all’altro, il primato gestionale sulle risorse. Si pensi alla dottrina
illuminata settecentesca e, poi, all’ottimistica ideologia del 1800 che individuavano nella
proprietà privata, eredità di epoca romana, la migliore forma possibile di proprietà di un bene,
in quanto in grado di esaltare le capacità imprenditoriali degli individui. Altri regimi totalitari,
ad esempio quelli di stampo comunista, misero invece in discussione la superiorità della
proprietà privata a favore del concetto di una proprietà sotto il controllo dello Stato.
Esisteva, ed esiste, però, un altro tipo di proprietà, che si distanzia sia dal concetto di proprietà
privata sia da quello di proprietà pubblica: la proprietà collettiva, una forma di proprietà il cui
centro nevralgico è il bene ed il godimento generato da essa. Nella proprietà collettiva il
compito di gestire le risorse spetta ad una comunità locale, mentre il singolo individuo o lo
Stato passano in secondo piano.
Il fenomeno della proprietà collettiva è stato, per un periodo di tempo molto lungo,
considerato come un retaggio del passato e, per questo motivo, subordinato alla supremazia
della proprietà individuale (Ferrazza, 2009). La rivalutazione di questa forma di proprietà,
come alternativa rispetto a quella individuale, avvenne dopo la metà del ventesimo secolo
grazie alla rivisitazione critica della dottrina giuridica ottocentesca, che ha avuto il merito di
aver messo in luce i valori alternativi delle proprietà collettive, quali: la prevalenza del gruppo
rispetto ai singoli, il predominio dell'oggettivo sul soggettivo, quindi il ruolo fondamentale
delle cose, della loro destinazione e della loro funzione (Grossi, 1978).
Nel XX secolo, venne invece a definirsi una posizione estremamente critica nei confronti
della gestione di tipo collettivo; lo studioso Hardin, coniò l’espressione ‘the tragedy of
commons’ per meglio descrivere il proprio pensiero. Hardin (1968) sosteneva che gli
individui, mossi dalla massimizzazione della propria utilità individuale anziché da un
principio di natura collettiva, non fossero in grado di considerare l’impatto negativo a lungo
termine che le proprie azioni possono avere sul benessere comune. Propose quindi una
soluzione nella direzione del rafforzamento dell’intervento pubblico nella figura di governi
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centrali, agenzie pubbliche o autorità internazionali, piuttosto che di privatizzazione dei beni
(Hardin, 1978; Heibroner, 1974). Posizioni antagoniste nei confronti di queste teoria vennero
ad accentrarsi nella figura di Elinor Ostrom, concretizzatesi poi nell’attribuzione alla studiosa
del Premio Nobel nel 2009 per l’economia. A Elinor Ostrom si deve una delle prime
concettualizzazioni della teoria dei commons (Ostrom, 1990). Attraverso lo studio di
numerosi casi empirici, la sociologa americana mise in luce quali fossero gli elementi che
caratterizzano sistemi collettivi di successo: identificazione chiara della risorsa e degli
utilizzatori, proporzionalità fra costi e benefici, decisioni partecipative, monitoraggio della
risorsa e del suo uso, sanzionamento progressivo delle infrazioni, risoluzione locale dei
conflitti, diritto all’organizzazione e presenza di istituzioni a più livelli.
I sistemi di proprietà collettiva si sono sviluppati autonomamente in tutto il mondo in diverse
epoche storiche: si pensi alle foreste comuni giapponesi, dette ‘Iraichi’, ai pascoli comuni
sull’Himalaya e sulle Ande e alle diverse esperienze europee in Spagna, in Austria, in
Slovenia e nelle Alpi svizzere (Bromley, 1991b; Bravo e De Moor , 2008). La tradizione delle
proprietà comuni, specie di tipo forestale, è forte anche in tutta Italia (Jeanrenaud, 2001).
Nonostante queste significative presenze, secondo Agrawal (2007), l’argomento non ha
ricevuto oggi tutta l’attenzione che meriterebbe.
Oggi, le aree montane in Italia stanno attraversando un momento di forti cambiamenti
istituzionali, sociali, in relazione al progressivo spopolamento, ed economici, con una
sostanziale perdita di investimenti. In particolare, il settore forestale, da sempre centrale nel
trainare l’economia montana, sta subendo una forte ristrutturazione interna e, oggi, viene
spesso unificato a branche amministrative indirizzate alla tutela e alla conservazione
ambientale, anziché allo sfruttamento produttivo, considerando anche che il mercato di
legname è latente, mentre si è accresciuta la domanda di servizi ecosistemici, come
ricreazione, paesaggio, biodiversità e mitigazione dei cambiamenti climatici (Saccone, 2012).
In questo contesto, il tema delle proprietà collettive è ritornato ad essere di forte attualità,
soprattutto in relazione al processo di semplificazione della pubblica amministrazione che si
sta attuando nelle aree montane.
Sulla spinta di questi nuovi fatti, si sta sviluppando una nuova forma di attenzione nei
confronti delle comunità forestali collettive, organizzazioni che potenzialmente sono in grado
di coniugare cultura e valori locali di utilizzo delle risorse e i nuovi interessi turistici-ricreativi
e ambientali.
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Attualmente, la proprietà collettiva italiana conta circa tre milioni di ettari di terreno, il 10%
dell’intero territorio italiano, che fa capo ad un’ampia gamma di tipologie di proprietà
collettive. Di speciale interesse per questo studio risultano essere gli enti collettivi concentrati
in area montana (Carestiato, 2008), in particolare, quelle comunità collettive tradizionali
venete che hanno dato il via alla propria ricostituzione ufficiale in seguito all’emanazione
della L.R. 26/96 della Regione Veneto, che prendono il nome di Regole (Gatto et al., 2012b).
La forma di proprietà collettiva si è dimostrata vantaggiosa sotto diversi punti di vista,
soprattutto quando è implementata a piccola scala (van Gils et al., 2014). Grazie a processi
decisionali e gestionali condivisi, la proprietà collettiva evita la frammentazione e la
parcellizzazione delle risorse, permette di ottimizzarne la gestione, di condividere e diminuire
i rischi e di internalizzare le esternalità negative (Mckean e Ostrom, 1995).
Nonostante questi vantaggi e in relazione al fatto che molte proprietà collettive sono state
istituite in epoche medioevali, alcuni considerano la proprietà collettiva un ‘relitto del
passato’, incapace di affrontare le sfide poste dal cambiamento moderno, specie in ambito
socio-economico. L’appellativo, appositamente provocatorio, è stato utilizzato da Mckean e
Ostrom (1995) proprio per suscitare un dibattito attorno al ruolo odierno delle proprietà
collettive. Effettivamente, le strutture di governance delle proprietà collettive, spesso messe a
punto in epoche storiche e in contesti socio-economici diversi, si trovano oggi a dover
affrontare diverse pressioni, come lo spopolamento dei territori montani, l’indebolimento o la
perdita del legame che univa le comunità rurali alle loro risorse, la minore disponibilità a
partecipare alle attività di manutenzione del territorio. Queste sfide al cambiamento possono
risultare spesso ostacoli insormontabili per alcune comunità, che, non riuscendo a far proprio
il cambiamento, dapprima vacillano e poi finiscono con l’estinguersi o col sopravvivere solo
formalmente (Kissling-Näf, 2002).
Accanto agli esempi di fallimento, esistono tuttavia altri esempi di comunità che sono state
capaci di evolversi ed adattarsi ai mutamenti sociali, facendo fronte al cambiamento e
ripensandosi in termini nuovi e moderni. La caratteristica chiave di questi enti sembra proprio
essere la loro resilienza, un concetto mutuato dalla fisica, che in ambito sociale viene definito
come la capacità di un sistema di assorbire i disturbi, di sopravvivere e di adattarsi alle nuove
circostanze (Berkes et al., 2003).
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1.2. Gli obiettivi della tesi
La presente ricerca si propone di analizzare l’istituzione economica della proprietà collettiva,
con particolare riferimento alle Regole, nell’ottica di capire se la Regola sia un’istituzione
immobile, del passato e poco attuale, o se sia capace di adattarsi ai mutamenti sociali e che,
possa, quindi, perpetuarsi nel tempo. Il lavoro ha preso l’avvio da una precedente tesi di
Hampel (2012). Ne ha seguito l’impianto concettuale e le metodologie di indagine, ma si è
concentrato su nuovi casi studio, nell’intento di ampliare le conoscenze già acquisite e di
offrire nuovi elementi di riflessione sul ruolo delle Regole. Si è scelto di sviluppare l’indagine
nel Bellunese, perché zona ricca di proprietà collettive.
Lo studio si propone quindi di esaminare le modalità di adattamento delle Regole, la velocità
con cui esso avviene e rispetto a quali aspetti strutturali e sociali dell’istituzione. Infine, si è
cercato di indagare come le risorse vengano utilizzate e gestite all’interno della realtà
regoliera, per capire l’impatto che questa istituzione può avere sul territorio.
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1.3. L’articolazione della tesi
La struttura dello studio, liberamente tratta da Hampel (2012), si articola in sei capitoli.
Il primo capitolo introduce all’argomento, inquadra il problema affrontato e specifica gli
obiettivi del lavoro. Il secondo capitolo affronta la collocazione spaziale e temporale della
tematica trattata: in primo luogo si è descritto lo sviluppo storico del concetto di proprietà
collettiva inquadrandolo nel panorama italiano, con particolare riferimento alle proprietà
collettive venete. Poi viene presentata la legislazione vigente in materia di proprietà collettive,
con specifica attenzione per le norme nella Regione Veneto, e si sono esaminate le
implicazioni sullo statuto delle proprietà collettive; infine, si è delineato il quadro attuale della
proprietà collettiva italiana e veneta, fornendo stime circa la numerosità delle comunità e
l’estensione della proprietà.
Nel terzo capitolo si è proceduto all’inquadramento teorico e concettuale della questione dei
beni comuni e della proprietà collettiva attraverso la rassegna della bibliografia disponibile
sull’argomento. È stata ripercorsa la storia della dottrina dei beni comuni e le specifiche
norme che ne regolano l’utilizzo, quindi, si è indagato il concetto di istituzione, così come
viene inteso per questo studio e si sono approfondite le nozioni di resilienza. Il capitolo si
chiude riprendendo i punti salienti della discussione precedente e collocandoli in un’unica
visione, che dia ragione di come gli stessi saranno utilizzati nell’interpretazione dei risultati.
Il quarto capitolo è dedicato alla descrizione degli strumenti e delle fasi concrete della ricerca;
sono stati definiti i quesiti specifici dello studio e le fasi logiche del progetto. Si è descritto il
caso studio e le ragioni della sua scelta. Si sono definite le fonti delle informazioni raccolte
durante lo studio. Infine, si è spiegato come i dati sono stati raccolti e elaborati.
Il quinto capitolo è il cuore della ricerca; qui si presentano e si discutono i dati raccolti
specificatamente per ciascuna delle tre Regole studiate e si analizza il cambiamento delle
istituzioni nel tempo, dunque rispetto ad esse stesse, e nello spazio, ossia nei confronti delle
altre organizzazioni dello stesso tipo.
Il sesto ed ultimo capitolo riporta le conclusioni e presenta le implicazioni per le ricerche
future sulle Regole e, in generale, sulla proprietà comune.
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2. INQUADRAMENTO DEL CONTESTO: LE PROPRIETA’ COLLETTIVE NELLA
REGIONE VENETO
Questo capitolo si propone di fornire la cornice storica e presente della proprietà collettiva in
Italia e, in particolare, nella Regione Veneto, analizzando, allo stesso tempo, la normativa
nazionale e regionale vigente in materia.
2.1. Gli sviluppi storici delle proprietà collettive in Italia e nella Regione Veneto
Il susseguirsi di diverse dominazioni sulla penisola italiana ha determinato lo sviluppo di
innumerevoli forme di proprietà collettiva che, nel corso del tempo, si sono via via
diversificate le una dalle altre in termini di nome, origine, evoluzione e organizzazione
interna; ad oggi sono molteplici gli esempi di proprietà collettive che sopravvivono in Italia,
si pensi alle Regole in Veneto e Trentino, alle Vicinìe in Friuli, alle Società degli antichi
originari in Lombardia, alle Partecipanze in Emilia Romagna, alle Comunanze agrarie nel
Lazio e in Umbria, alle Comunelle del Carso e alle Consorterie in Valle d’Aosta.
Le origini delle proprietà collettive non sono chiare e si perdono nel tempo; i primi documenti
che ne attestano l’esistenza risalgono al Basso Medioevo, ma diversi studiosi concordano sul
fatto che, con molta probabilità, queste forme di associazioni esistessero da epoche ben più
remote, come base del sostentamento delle popolazioni montane (Cacciavillani et al., 2010).
Tali comunità, infatti, si configuravano come un gruppo di individui che esercitava quei diritti
d’uso derivate da esigenze insopprimibili per la sopravvivenza, quali il diritto di legnatico, il
diritto di pascolare gli animali, di fienagione, di pesca, di caccia, di semina e di godimento dei
frutti del sottobosco (Ferrazza, 2009). I diritti civici potevano essere esercitati sia sui beni
privati sia su quelli che appartenevano a comunità di abitanti: nel primo caso venivano definiti
usi civici, nel secondo andavano a formare il demanio civico (Carestiato, 2008).
In epoca romana, prima, e longobarda, poi, le proprietà collettive continuarono a sopravvivere
come utilizzatrici ed amministratici delle neo-formatesi proprietà pubbliche e private. Durante
il Medioevo vennero redatti i primi statuti, poi, nell’Italia comunale delle regioni centro-
settentrionali, i domini collettivi continuarono ad essere gestiti consuetudinariamente.
Durante questo periodo andarono a concretizzarsi specifiche forme del fenomeno; per evitare
possibili equivoci è necessario definire correttamente i termini in uso, in quanto esistono
sostanziali differenze tra usi civici e proprietà collettive aperte e chiuse.
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Per uso civico s'intende il diritto soggettivo originariamente concesso, oppure riconosciuto nel
tempo, con atto formale, da parte del feudatario, proprietario delle terre, che concede ad una
comunità di persone l'esercizio di facoltà di godimento dei beni, ben definite nei loro termini e
particolarità (Germanò, 1999); tali diritti nascono in seguito all’infeudazione di terre comuni
ed il requisito per poter usufruire dei beni all’interno di una determinata area è quello di
appartenenza all’area stessa, ossia la residenza in essa, come stabilito successivamente
dall’art. 26 della L. 1766/27.
Per proprietà collettiva, invece, s'intende il diritto di proprietà pieno ed esclusivo, in capo ad
una determinata comunità di persone, su beni specificamente individuati. In altre parole, la
proprietà collettiva è un assetto particolare di vita associata che si struttura su una stretta
relazione tra risorse naturali, comunità e singoli attori (Grossi, 1998). Queste forme di
godimento comune di terreni agricoli, pascoli, o boschi sono di proprietà esclusiva,
inalienabile, intrasmissibile della collettività, considerata quale entità separata e diversa
rispetto al complesso degli aventi diritto a godere le utilità della cosa (Costato, 2003). I beni
in proprietà collettiva sono caratterizzati dalla natura del soggetto al quale appartengono, che
è un soggetto collettivo, senza che abbia rilevanza alcuna l'eventuale destinazione ad uso
pubblico dei beni stessi (Ciliberti, 1998).
Vanno poi distinte le proprietà collettive aperte, dette anche terre civiche, e proprietà
collettive chiuse; la differenza consiste principalmente nella possibilità, o meno, di estendere
il godimento del diritto di proprietà ai nuovi abitanti della comunità. In particolare, le
proprietà collettive chiuse sono simili ad un regime di proprietà privata in quanto
appartenente ad un gruppo di soggetti definiti e perché escludente tutti i soggetti esterni al
gruppo (Nervi, 1999). Le terre civiche sono una forma di proprietà collettiva tipica dell’Italia
meridionale, mentre le proprietà collettive chiuse sono caratteristiche delle zone montane
dell’Italia settentrionale; ad ogni modo, le proprietà collettive identificano la comunità di
abitanti come unica proprietaria a differenza degli usi civici, in cui i beni sono proprietà di
istituzioni, come i Comuni, o di altri individui non facenti parte della comunità (Richter,
2003).
Per un certo periodo di tempo, le forme di proprietà collettiva hanno goduto di
riconoscimento ed autonomia politica, giuridica ed economica, con differenze contingenti alla
realtà locale (Fabbiani, 1972), ma, a partire dalla seconda metà del 1700, si sviluppò il nuovo
illuministico modello di pensiero economico che considerava la proprietà privata come
migliore esempio gestionale per lo sviluppo agro-forestale; in quest’ottica, usi civici e