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2. Il dopoguerra in Italia: la scelta del “tutto strada”
Il dopoguerra è comprensibilmente stato un periodo foriero di forti
cambiamenti, i quali hanno riguardato anche il mondo dei trasporti.
In quegli anni in modo sostanzialmente “spontaneo” si compie una scelta
a favore di un trasporto “tutto strada”, scelta che costituirà poi l'alveo dei
successivi sviluppi. Non era una scelta obbligata e non fu una scelta del
tutto consapevole; non si sa se fu l'esito inevitabile dell'impossibilità o della
mancanza di volontà di fare scelte diverse.
Gli amministratori dell'epoca, nell'ottica di riorganizzare i trasporti,
infatti, si trovarono di fronte al difficile dilemma se puntare a potenziare il
sistema ferroviario e portuale, il che avrebbe comportato massicci
investimenti pubblici e una direzione fortemente controllata dell'economia
(questioni assai problematiche), oppure affidarsi totalmente al trasporto
stradale. Questa seconda opzione conteneva numerosi punti di forza: in
primo luogo la possibilità di investimenti più contenuti e dilazionabili nel
tempo; poi la possibilità di ripartire l'investimento nei mezzi di trasporto su
un ampia categoria di soggetti (grazie anche alla immediata disponibilità di
residuati bellici a basso costo); vi era infine l'opportunità per un numero
elevato di persone e famiglie di trovare un'occupazione in un periodo di
grave crisi sociale.
Non dobbiamo poi dimenticare che puntare sul “tutto strada” era
un'occasione ghiottissima per rilanciare l'industria automobilistica
nazionale.
Per tutti questi motivi nel periodo della ricostruzione postbellica lo Stato
italiano, in tutte le sue articolazioni, si concentra sulla costruzione di strade
6
e autostrade e abbandona al suo destino il settore ferroviario
2
.
In questo modo le merci, sempre più numerose, in un Paese in
progressiva ripresa economica, avrebbero percorso la penisola quasi
esclusivamente “su gomma”.
3. La logistica e la sua evoluzione
Come anticipato, le cause che hanno portato all'invenzione dell'interporto
non sono solo da cercare nel settore pubblico, nelle scelte politiche. Anche
la spontanea attività dei privati ha portato a poco a poco a rendere palese, in
Italia, l'esigenza dell'infrastruttura che si sarebbe chiamata “interporto”.
Per individuare queste cause dobbiamo partire dalla nozione di
“logistica”: essa può essere definita come l'attività di organizzazione ed
realizzazione operativa del flusso di informazioni, materiali e prodotti dal
luogo di origine a quello finale di utilizzazione o consumo. Un'attività che
abbraccia la gestione degli acquisti e delle forniture, la gestione delle risorse
materiali e manifatturiere, la gestione degli inventari e dei depositi, della
distribuzione e dei trasporti, nonché il servizio alla clientela
3
.
Alla definizione di “logistica” può riconoscersi, poi, una portata più
ampia, se si considera che l'effettiva creazione di valore si ha quando, al
mero spostamento delle merci, si riescono ad aggiungere fasi più o meno
sofisticate di lavorazione dei prodotti.
In questo consiste la logistica integrata, intesa come funzione aziendale
di approvigionamento di semilavorati tra unità produttive e di trasporto dei
beni finiti ai mercati di destinazione, secondo un processo unitario
2 Cfr. COMUNE DI BOLOGNA-PROVINCIA DI BOLOGNA-PROGETTO
CITTA' METROPOLITANA, Intermodalità e interporti, 1995, pag. 27 e ss.
3 Cfr. MAROTTI F., L'interporto, in Comuni d'Italia (fasc. 5), 2004, pp. 86-96.
7
finalizzato ad ottimizzare l'insieme della catena logistica in un flusso unico
e complessivo di produzione, dai fornitori delle materie, ai processi
produttivi e da questi ultimi ai destinatari della distribuzione.
In questo quadro le infrastrutture di trasporto destinate alla logistica
(porti, interporti, scali merci, etc.) non sono solo strutture funzionali, ma
diventano un volano territoriale nella creazione di ricchezza, in quanto
forniscono l'occasione ai distretti locali di attivare specifiche filiere
produttive con ricadute positive sull'intero sistema territoriale
4
.
In epoche remote, i tempi di trasmissione delle informazioni, degli
uomini e delle merci erano sostanzialmente coincidenti. La variabile
“spazio” superava di gran lunga d'importanza quella “tempo”, sulla quale
difficilmente si poteva operare a parità di tecnologia di movimento
disponibile (navi e cavalli avevano la stessa velocità in tutta Europa). Ecco
perché in passato la collocazione del luogo era determinante per stabilirne
l'importanza nei traffici e la possibilità che producesse ricchezza; lo spazio
era l'unica variabile su cui si poteva incidere per ottenere buoni traffici.
E' indubbio che oggi trovarsi sul mare, su uno stretto o vicino ad una
grande via d'acqua è importante, ma non decisivo al fine di instaurare
relazioni commerciali profittevoli con paesi lontani. Infatti, ciò che è
veramente determinante è il cosiddetto “grado di connettibilità” con le
grandi vie commerciali, e la possibilità di raggiungere le aree vicine o
lontane a costi e tempi economicamente competitivi. In altri termini, diventa
fondamentale il “tempo” che si impiega a raggiungere un luogo prima
ancora dello “spazio” che si deve percorrere per raggiungerlo.
4 Cfr. Bilancio sociale 2005 Interporto di Bologna S.p.A., pag 37 e ss.
8
Il tempo, quindi, prima ancora dello spazio è il criterio orientatore delle
scelte in materia di logistica.
E a proposito di questo è utile ripercorrere brevemente i caratteri della
logistica moderna.
3.1 La deverticalizzazione
Da molto tempo i prodotti oggetto del nostro consumo non sono
interamente realizzati all'interno di un determinato stabilimento industriale;
è noto infatti la maggior parte dei prodotti industriali che utilizziamo sono
stati oggetto di un processo di deverticalizzazione; in altre parole ogni fase
di produzione viene svolta in uno stabilimento diverso. Le imprese
sviluppano strategie di decentramento selettivo sempre più sofisticate, in
funzione in particolare dell'evoluzione del mercato della manodopera; le
attività produttive vengono ridistribuite su scala planetaria in aree dove è
possibile beneficiare dei vantaggi economici e fiscali più consistenti;
materiali e semilavorati si spostano durante le varie fasi produttive e di
assemblaggio, dando vita a filiere intricate (ed a volte volutamente
nebulose).
Oggi nessuno si stupisce nel trovare un fine cotone indiano lavorato in
Italia, tagliato in America, cucito in Honduras, e commercializzato infine in
Europa o negli Stati Uniti. Quanta parte del prezzo finale deriva dal valore
aggiunto della produzione e quanto invece da attività di logistica e
trasporto?
Tutti sanno produrre tutto…ed a prezzi sempre più bassi. Ecco perché la
capacità di raggiungere il mercato nel tempo più breve (e con i costo più
bassi) diventa la variabile veramente critica.
9
3.2 Lean production e Just in time. I c.d magazzini viaggianti
Con la deverticalizzazione è diventata fondamentale la gestione dei
magazzini.
Prendiamo ad esempio l'assemblaggio di un'automobile; è necessario che
le varie componenti arrivino da angoli diversi del mondo nei tempi richiesti
dalla produzione. Servono allora dei magazzini per evitare che il processo
debba fermarsi in attesa della componente mancante; tuttavia magazzini
molto riforniti costano (l'immobilizzo di merci richiede infatti un
investimento ad hoc); d'altro canto evitare un simile investimento espone al
rischio di non avere più i pezzi necessari e dover interrompere la produzione
(che è come dire “maggiori costi”), oppure rinunciare alla vendita (ovvero
“minori ricavi”).
La soluzione per uscire dall'impasse è stata introdotta negli anni '50 dalla
Toyota Motor Company ed è oggi nota con il nome Just in time
5
(“appena in
tempo”): con questa sigla si indica una tecnica di gestione industriale, che
consiste nel realizzare e fornire esattamente il prodotto richiesto, nella
quantità, nel luogo e al momento richiesto. In altre parole “fare un'attività
quando serve”
6
.
5 La tecnica JIT, insieme alla DFX (Gestione della progettazione) e alla TQM
(Gestione della qualità), compongono la c.d Lean Production, “Produzione snella”,
tecnica industriale ispirata al Toyota Production System, che mira a minimizzare gli
sprechi fino ad annullarli. Il processo produttivo viene trattato in modo globale al fine
di ridurre al massimo la complessità della produzione puntando sulla sua flessibilità
coinvolgendo fin dall'inizio tutte le funzioni aziendali, WOMACK-JONES-ROOS,
The machine that changed the world. The Story of Lean production, Harper Business,
2003.
6 PARESCHI-PERSONA-FERRARI-REGATTIERI, Logistica integrata e flessibile,
pag. 295 e ss.
10
Ciò si traduce in un aumento della frequenza delle consegne, trasferisce in
larga parte i magazzini delle imprese sui mezzi di trasporto e consente di
avere in sede semplici magazzini di emergenza ridotti al minimo.
Il problema è che l'unica modalità di trasporto che offre la necessaria
flessibilità di cui ha bisogno il Just in time è proprio l'autotrasporto.
Le aziende, ovviamente scelgono l'alternativa più economica tra il
magazzino tradizionale e l'opzione offerta dall'autotrasporto (i c.d.
magazzini viaggianti); il risultato è stata una crescita esponenziale del just
in time e parallelamente la crescita esponenziale dei più disparati “mezzi su
gomma” con il conseguente congestionamento delle autostrade e delle
strade, le uniche infrastrutture su cui l'Italia aveva puntato nel dopoguerra. Il
problema di questa scelta effettuata a livello aziandale è che il
congestionamento delle strade comporta un notevole aumento dei c.d costi
esterni del trasporto
7
.
Tutto quanto detto certamente accade oggi, ma l'evoluzione della
logistica moderna è partita proprio nel periodo postbellico di pari passo con
le sopra menzionate scelte politiche.
4. La svolta degli anni '70
Si può, quindi, affermare che sia per ragioni politiche, sia per ragioni
7 I costi esterni dei trasporti sono tutti quei costi che derivano direttamente
dall'attività di trasporto, ricadono indiscriminatamente sulla collettività, ma non sono
sostenuti da chi li ha generati.
Per avere un'idea più puntuale sui costi esterni è utile rifarsi a uno studio della
Direzione Studi e Ricerche dell'ACI, il quale suddivide tali costi in “costi umani”
(ricomprendendovi danni alle persone, cure ospedaliere dovute a sinistri stradali e
minore produzione presente e futura) e “costi materiali” (ricomprendendovi danni a
infrastrutture, costi amministrativi e giudiziari): la somma di tutti questi costi
(prodotti sia dal traffico trasportistico sia da quello civile) si aggirava nel 2004, per la
sola Italia, a circa 34 miliardi di euro!
11
prettamente aziendali, l'Italia era quotidianamente attraversata da decine di
migliaia di camion.
Mano a mano che il boom economico cresceva, aumentavano
produzione, consumi e ovviamente trasporti.
Strade e autostrade erano state potenziate, ma il traffico (non solo quello
legato ai trasporti) cresceva a un ritmo più veloce. Il sistema “tutto strada”
cominciava a incrinarsi.
D'altro canto gli investimenti effettuati solo ed esclusivamente per
favorire quel sistema avevano fatto sì che quello fosse l'unica soluzione
trasportistica; non vi erano alternative credibili all'autotrasporto.
La situazione era insostenibile, così – seppur senza produrre concreti
effetti immediati – è significativa da un punto di vista “culturale” la
risoluzione 1°giugno 1978 della X Commissione Trasporti della Camera,
guidata dall'On. Libertini, che al tempo stesso conferma il blocco degli
investimenti autostradali e apre la via al Piano integrativo delle FS
8
.
Inizia una stagione nuova per i trasporti, segnata da una volontà di
programmazione largamente condivisa, che trova un momento alto di
espressione nella I Conferenza Nazionale dei Trasporti del 1978
9
.
Si fa largo anche un ritrovato affetto per l'ambiente e il territorio, così se
fino alla fine degli anni '70 l'inquinamento e le devastazioni ambientali
dovute al proliferare incontrollato del “tutto strada” erano accettate come
8 Tale piano metteva a disposizione (per la prima volta nella recente storia italiana)
consistenti finanziamenti a disposizione dell'azienda FS per realizzare in linee e
materiale rotabile: le indicazioni erano quelle del riequilibrio fra la dorsale centrale
(Milano-Roma-Reggio Calabria) che pure viene potenziata con la nuova linea nel
tratto Roma-Firenze, e le c.d linee d'ala (tirrenica e adriatica) e della realizzazione
delle opere necessarie all'attivazione degli interporti di Bologna, Padova e Verona.
9 Cfr. COMUNE DI BOLOGNA-PROVINCIA DI BOLOGNA-PROGETTO
CITTA' METROPOLITANA, Intermodalità e interporti, 1995, pag. 29.
12
prezzo inevitabile dello sviluppo, ora si assiste a un netto taglio con il
passato. All'interno di partiti politici e amministrazioni locali cresce la
consapevolezza – autorevolmente confermata dal PGT del 1986 – che è
possibile un'alternativa di trasporto al tempo stesso più rispettosa
dell'ambiente e più efficiente; è in questo periodo, insomma, che interviene
la prima vera affermazione dei concetti di intermodalità e interporto;
contemporaneamente si afferma la centralità della programmazione
nazionale e regionale per ridare equilibrio a un sistema gravemente
compromesso: la capillare rete autostradale e stradale è al collasso; tutte le
previsioni sull'aumento del traffico (leggero e pesante), se pur realistiche,
sono state abbondandemente smentite per eccesso; i costi di manutenzione
sono alle stelle a causa dell'eccessivo logorio. La rete ferroviaria è
tecnologicamente arretrata e sovrasatura.
In un simile contesto, l'intermodalità diventerà – a qualsiasi livello di
programmazione dei trasporti – obiettivo e criterio di valutazione
assolutamente primario.
Vengono così compiuti i primi passi verso l'intermodalità. Manca però un
disegno capace di stimolare la partecipazione come protagonisti (e non
come semplici comparse) dei diversi attori di questo particolare mercato
(autotrasportatori, FS, MTO ecc...).
La realizzazione degli interporti si inserisce in questa situazione e punta a
dimostrare che un'alternativa al “tutto strada” è non solo possibile, ma anche
economicamente vantaggiosa.
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5. Il trasporto intermodale
È ora doveroso effettuare delle precisazioni a proposito
dell'intermodalità. Come è noto, il trasporto intermodale è una modalità di
trasporto che consiste nel trasportare unità di carico (solitamente containers
o casse mobili) da un posto a un altro utilizzando più modalità (ad esempio
trasporto marittimo, ferroviario e stradale) senza che vi siano rotture di
carico, ossia evitando trasbordi e manipolazioni della merce passando da
una modalità all'altra
10
.
Tale modalità è molto vantaggiosa poiché consente di risparmiare non
solo sui costi interni (ad esempio gli inevitabili costi legati al
danneggiamento delle merci durante i trasbordi e le manipolazioni), ma
anche sui sopracitati costi esterni, dal momento che consente alle unità di
10 Cfr. RIZZO G., Il trasporto ferroviario delle merci e l'intermodalità, Roma, 1980,
pp. 71-73) secondo il quale con l'aggettivo “intermodale” non si intende
qualificare, come letteralmente potrebbe arguirsi, il trasferimento di merci che, per
necessità o economicità, viene svolto da più di un modo di trasporto. Questa
pratica è così antica da perdersi nel tempo e interessa da sempre la grande
maggioranza dei trasporti non stradali, che non avendo una elevata capacità di
penetrazione, hanno bisogno di essere completati dalla prestazione dell'automezzo
oppure dalla ferrovia. Si vuole indicare molto di più: con questo termine si esprime
un concetto nuovo, in quanto l'intermodalità trascende il semplice rapporto di
contatto fra i vari modi di trasporto, che non è mai mancato, né poteva mancare,
supera anche l'ambito della loro collaborazione e armonizzazione, che si sono
sempre auspicate anche se sovente non sono state validamente realizzate, per
giungere, invece, ad una vera e propria integrazione delle diverse specie di
trasporto. Un'integrazione che è concretamente fisica e che finisce per investire la
stessa concezione del trasporto, non considerato più come una mera somma di
attività separate ed autonome dei singoli vettori interessati, ma inteso come
un'unica prestazione dall'origine fino al destino, in una visione globale del
processo di trasferimento di merci... L'elemento comune a ogni tipo di
intermodalità, cioè l'aspetto irriducibile ed essenziale perchè un trasporto merci
possa essere qualificato veramente intermodale, è che una grande unità di carico
venga trasferita integralmente, e senza rottura di carico della merce immessavi, da
un modo di trasporto all'altro.
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carico di viaggiare su gomma solo per il tempo e lo spazio strettamente
necessario; ciò comporta una riduzione dell'inquinamento acustico e
ambientale, una minore saturazione delle strade dovuto in gran parte proprio
al “selvaggio” utilizzo dell'autotrasporto e conseguentemente una maggiore
sicurezza per la circolazione (il che comporta una drastica diminuzione dei
costi esterni). Non è poco.
Ma se questa modalità è così vantaggiosa, perchè la svolta verso
l'intermodalità è stata così lenta? Il problema era (e lo è tuttora) duplice: in
primo luogo il trasporto intermodale è caratterizzato da scarsa flessibilità
delle strutture (in particolare quelle ferroviarie), dalla presenza di impianti
di grandi dimensioni, dall'intervento di una pluralità di operatori e di mezzi;
flessibilità che invece è punto di forza, del trasporto monomodale e in
particolare dell'autotrasporto; in secondo luogo, e in conseguenza del primo
aspetto, il trasporto intermodale comporta altissimi costi di investimento e
di gestione. Per fare in modo che questi aspetti, apparentemente negativi,
diventino vantaggiosi è vitale e assolutamente necessario un alto grado di
coordinamento. Esigenza che invece è poco sentita dall'autotrasporto
proprio in virtù dell'elevata flessibilità che lo caratterizza.
E questo coordinamento deve sussistere sia a livello del singolo
operatore, della singola infrastruttura, sia a livello pubblicistico: a supporto
dell'intermodalità, insomma, è necessaria un'autorevole programmazione del
sistema trasporti: senza di essa, infatti, non possono essere realizzati i grandi
investimenti necessari, né possono essere ottimizzati i servizi prestati dalle
diverse componenti del sistema
11
.
E proprio nel constatare quest'esigenza di coordinamento possiamo
11 Cfr. COMUNE DI BOLOGNA-PROVINCIA DI BOLOGNA-PROGETTO
CITTA' METROPOLITANA, Intermodalità e interporti, 1995, pag. 38.
15
accennare agli obiettivi da raggiungere affinchè l'intermodalità diventi una
bella realtà: innanzitutto lo Stato in tutte le sue articolazioni deve definire
con precisione la programmazione infrastrutturale del Paese; inoltre deve
dare concretezza al potenziamento della rete ferroviaria e alla realizzazione
di un sistema logistico imperniato su un numero ristretto di grandi
piattaforme logistiche (porti e interporti) dotate di efficienti collegamenti
12
.
Allo stesso tempo FS deve coordinare le proprie scelte localizzative e di
esercizio evitando di inseguire il traffico merci ovunque esso si trovi e
privilegiando poche piattaforme logistiche.
Vista la continua crescita esponenziale del traffico merci (tra il 1980 e il
2000 è stata del 63%) non è pensabile che esso venga assorbito da strade e
autostrade; non si può più puntare a piacere; si deve obbligatoriamente
puntare sulla programmazione del trasporto intermodale.
Per tutti questi motivi si capisce come, sia per ragioni logistiche, sia per
ragioni di politica dei trasporti, tutti gli occhi siano puntati sulle
infrastrutture grazie alle quali è (e sarà sempre più) possibile servire e
favorire l'intermodalità e quindi un sistema dei trasporti sostenibile. Una di
queste infrastrutture, ed è fondamentale, è proprio l'interporto.
E proprio l'entrata in esercizio tra il 1986 e il 1988 dei primi tre interporti
italiani (Bologna, Padova e Verona) ha reso manifesti i vantaggi
dell'intermodalità.
Gli interporti, quindi, sono stati e sono tutt'ora causa, fine e strumento
della svolta verso l'intermodalità.
12 Cfr. Cfr. COMUNE DI BOLOGNA-PROVINCIA DI BOLOGNA-PROGETTO
CITTA' METROPOLITANA, Intermodalità e interporti, 1995, pag. 38-39.