2
contraddistinguono i diversi ambiti territoriali. L’elemento strategico alla
base del lavoro è di ottenere una dettagliata informazione nella mutevole
dinamica della composizione demografica della popolazione. Infatti, la
mancanza di previsioni demografiche ha condotto, nel passato, a
programmare attività in molti settori che alla luce delle modifiche
demografiche si sono rivelati investimenti sbagliati o inefficaci.
Nel presente lavoro si è cercato di ripercorrere il trend passato della
popolazione, iniziando dalla situazione a livello mondiale e scendendo di
volta in volta nel dettaglio territoriale, al fine di comprendere con quale
ritmo la popolazione si è modificata nel corso del tempo. Successivamente
si è passati a descrivere i diversi modelli previsionali utilizzati dagli istituti
di statistica sia nazionale (Istat) che internazionali (Onu, Eurostat), al fine di
costruire un modello previsionale adattabile alle tendenze demografiche
registrate nella provincia di Crotone e nei 27 comuni che la costituiscono.
Le ipotesi previsive alla base del modello demografico realizzato per le
previsioni nella provincia di Crotone sono state tre: l’ipotesi costante,
l’ipotesi decrescente e l’ipotesi crescente, a seconda delle variazioni
ipotizzate nel tasso di fecondità. Mentre, scendendo nel dettaglio
territoriale, si è adattato il modello alle particolari situazioni rilevate nei 27
comuni della provincia di Crotone. Precisamente, tenuto conto delle
notevoli differenze registrate nel numero medio di figli per donna nelle
diverse comunità locali rispetto alla media provinciale sono state formulate
due ipotesi previsive: ipotesi decrescente e ipotesi costante. Nel caso di
ipotesi decrescente, i comuni con tassi di fecondità simili sono stati
aggregati nello stesso gruppo. Sono stati realizzati tre gruppi, applicando a
ciascuno dei tassi che meglio si adattassero alle particolari situazioni
comunali. Mentre nell’ipotesi costante è stato utilizzato un unico tasso di
fecondità, lasciandolo invariato per tutto il periodo previsionale.
Capitolo I
3
CAPITOLO I
ANDAMENTO STORICO E SITUAZIONE
ATTUALE IN ITALIA E NEL MONDO
1.1 Premessa
La crescita demografica mondiale è studiata da molti secoli e riguarda le
caratteristiche della popolazione in base all'età, al sesso, alla professione, ai
mutamenti dovuti alla natalità, alla fertilità, alla mortalità, alle migrazioni,
al rapporto tra popolazione e processi sociali, economici e politici.
Il padre della demografia è John Graunt, il quale nel 1662 pubblicò
“Natural and political Observations made upon the Bills of Mortality”
(Osservazioni naturalistiche e politiche fatte sui bollettini dei decessi), ma è
solo nel XVIII secolo che alcuni teorici, come Cantillon, e successivamente
i fisiocratici, come Quesnay o Turgot, stabilirono l'esistenza di un rapporto
naturale tra la popolazione e i mezzi di sussistenza, per cui questi ultimi
determinarono la crescita della prima fino ad una soglia limite. Ovviamente
questa posizione, da alcuni definita pessimistica, era controbilanciata dalla
fede nel progresso economico e sociale. Fu poi ampliata e rielaborata nel
XIX secolo, ma con un significato completamente diverso da Malthus.
Nel suo Saggio sul principio della popolazione (1798), Malthus espose una
teoria generale che partiva da giuste premesse ma perveniva a conclusioni
errate. Pensava di aver scoperto una legge naturale della popolazione
riassumibile sommariamente in questi termini: “ la Terra può sostentare un
numero limitato di esseri umani; la tendenza naturale è all'incremento
Capitolo I
4
della specie senza che le risorse agricole aumentino in proporzione; la
conseguenza a lungo termine per la specie umana non può essere che la
miseria e la sovrappopolazione
1
”. La soluzione che Malthus proponeva di
fronte a questo divario crescente tra il numero degli individui e la
diminuzione delle risorse pro capite era la limitazione delle nascite, ottenuta
praticando la castità e ritardando l’età del matrimonio. Malthus non
affermava niente di particolarmente nuovo, ma il suo discorso
emotivamente efficace, le sue affermazioni e le sue severe proposte di
riforme fecero vacillare le idee precostituite. Il suo impatto sul pensiero
economico e sulla demografia fu enorme, nel senso che, cercando di
invalidare o confermare le sue teorizzazioni affrettate, gli economisti
classici Jean-Baptiste Say e successivamente, Sismondi e Marx
contribuirono alla fondazione di una demografia scientifica. Il pensiero di
Malthus influenzò profondamente le politiche degli stati europei tra le due
guerre. Ancor oggi, la questione della sovrappopolazione è impostata in
termini malthusiani dagli ecologisti, dagli eugenisti e da alcuni stati come
l’India o la Cina, che in passato hanno messo in atto politiche autoritarie di
limitazione delle nascite. Oggi, è generalmente ammesso che non esiste una
legge naturale della popolazione e che le sue fluttuazioni sono legate alle
condizioni economiche e alle culture dei diversi paesi.
Bisognerà in ogni caso attendere il secondo dopoguerra per veder
riconosciuta la demografia come disciplina a sé stante.
Gli studi della popolazione hanno nelle moderne società delle applicazioni
molto importanti e vi fanno ricorso sia le strutture istituzionali (nazionali e
internazionali), sia le strutture industriali e finanziarie.
Un particolare ramo di questa disciplina è la demografia statistica, che
studia i mutamenti che si verificano all'interno delle popolazioni umane
(nascite, matrimoni, morti, malattie). Le statistiche demografiche sono
fondamentali per studiare le trasformazioni sociali e per prendere decisioni
1
Malthus. Saggio sul principio della popolazione, 1798
Capitolo I
5
economiche o legislative. I dati necessari per costruire tali statistiche
provengono oggi dai censimenti e da studi appositamente condotti. Per
ricerche relative al passato, dati e informazioni sono desunti soprattutto
dalle anagrafi e dagli archivi parrocchiali, oppure da archivi privati (ad
esempio quelli conservati da medici, notai, ecclesiastici).
Nella statistica demografica uno dei concetti più rilevanti è quello del tasso
di natalità, che misura la crescita della popolazione. L'espressione che
indica generalmente l'aumento della popolazione in un territorio definito in
un dato periodo di tempo è usata talvolta come sinonimo di “incremento
demografico”.
La demografia e la demografia statistica offrono importanti elementi di
riflessione per affrontare temi come il rapporto fra popolazione e benessere
economico, fra popolazione e ambiente, fra densità abitativa e
trasformazioni ambientali, e soprattutto per inquadrare il tema dei limiti
dello sviluppo.
Alla base di ogni studio demografico e comunque di qualsiasi studio
effettuato utilizzando variabili aleatorie (come lo sono le variabili
demografiche), vi è la consapevolezza che poche “grandezze” in natura
possono continuare a crescere in modo esponenziale per periodi di tempo
estesi, poiché la crescita è di solito limitata da vincoli esterni. Ciò coincide
sostanzialmente con quanto affermato da Cantillon, e successivamente dai
fisiocratici, come Quesnay o Turgot nel XVIII secolo.
Capitolo I
6
1.2 Andamento storico della popolazione nel mondo
Sin dalla sua istituzione, la Divisione per la Popolazione delle Nazioni
Unite ha avuto tra i suoi compiti primari quello di valutare, con la maggiore
attendibilità possibile, l'ammontare della popolazione mondiale. Il problema
principale non è costituito tanto dall'elevato numero di abitanti, ma
soprattutto dall'assenza o dalla totale inaffidabilità dei censimenti effettuati
in alcune zone del mondo. Nei paesi sviluppati la tradizione censuaria
affonda le sue radici nei secoli passati ed è progredita di pari passo al
progredire delle istituzioni; nella gran parte dei paesi in via di sviluppo,
invece, solo da pochi decenni si è fatta strada la consapevolezza che il
censimento è un valido supporto all'azione di governo, e che conoscere
meglio la popolazione e le sue caratteristiche significa distribuire meglio le
risorse sul territorio. Nei paesi sviluppati il censimento soffre
esclusivamente di una imprecisione “strutturale” insita nella natura stessa
della rilevazione che solitamente è al di sotto dell'1 percento; in quelli in via
di sviluppo, invece, la rilevazione censuaria deve scontrarsi con carenze
amministrative, difficoltà di comunicazione, analfabetismo della
popolazione, assenza di tradizione statistica.
Fino alla prima metà del XVIII secolo in Europa occidentale il tasso di
mortalità si aggirava intorno al 35‰ e la speranza di vita intorno ai 34 anni.
Le differenze tra i sessi erano poco marcate: 2 anni in più di speranza di vita
a vantaggio delle donne. La mortalità infantile era ancora molto alta: un
quarto dei neonati, a causa delle precarie condizioni igieniche e
dell'ignoranza sulle cure da prestare, moriva entro il primo anno di vita;
poco più della metà arrivava ai venti anni di età. Anche la natalità era
elevata e si attestava intorno al 38‰ e il numero medio di figli per donna
era vicino a cinque. Visto il regime di fecondità naturale, questa cifra non è
poi così elevata, ma può essere facilmente spiegata considerando le
mediocri condizioni di salute di molte donne, la mortalità che interrompeva
Capitolo I
7
il matrimonio prima della fine del periodo riproduttivo, l'incidenza del
celibato, la lunga durata dell'allattamento e, non ultimo, l'elevata età media
al matrimonio. Sotto queste condizioni la crescita demografica era debole,
valutabile intorno allo 0,3% annuo tra il 1700 e il 1750.
L'espansione demografica che cominciò a manifestarsi in Europa
occidentale a partire dalla metà del Settecento fu essenzialmente originata
da un mutamento profondo nel trend della mortalità, riconducibile in linea
generale ad un miglioramento delle condizioni di salute di tutta la
popolazione.
La scoperta del Nuovo Mondo e l'aumento di scambi tra i continenti
permisero l'introduzione di nuove colture (mais e patate). I grandi progressi
contro le epidemie ridussero al minimo i rischi di contagio e la medicina
cominciò a fare importanti scoperte: non solo scomparvero le gravi crisi di
mortalità, ma cominciò ad abbassarsi il livello medio di mortalità generale.
Dalla metà del 1700 alla metà del 1800 la speranza di vita aumentò di circa
10 anni in quasi tutta l'Europa. In questa fase la fecondità rimase alta. Ne
conseguì che la struttura per età rimase giovane e il tasso di mortalità si
abbassò ancor più velocemente: dal 30‰ della fine del XVIII secolo al
20‰ verso la metà del 1800. Questo fece sì, che il tasso di incremento
naturale, fino ad allora molto basso, raggiunse valori prossimi all'1,5
percento annuo.
Questa vera e propria rivoluzione, che consentì di incrementare
costantemente la popolazione senza paventare il rischio di crisi di mortalità
generali, affonda le sue radici in tre punti essenziali: innanzitutto nella
rivoluzione industriale, resa possibile dal miglioramento della produzione
agricola, che ha dato vita a nuovi progressi tecnici e ad una offerta di
alimenti anche superiore alla domanda; poi nella conquista di immensi
territori da parte delle nazioni europee, dando luogo a fenomeni di
emigrazione e di riduzione del surplus demografico; infine nel calo di
Capitolo I
8
mortalità, specie quella infantile, che ha reso possibile il conseguente
abbassamento della fecondità.
Non tutti i paesi europei hanno operato allo stesso tempo e allo stesso ritmo
la loro transizione demografica. Nei paesi del Nord come per esempio
Svezia, Norvegia e Danimarca la diminuzione della mortalità è stata allo
stesso tempo precoce (fine del XVIII secolo) e regolare; la diminuzione
della natalità è avvenuta invece con circa un secolo di ritardo e con un
aumento della popolazione che si è protratto per diverse decine di anni al
ritmo di 1-1,2 percento l'anno. Una transizione dunque lunga e tutt’altro che
traumatica. Questo tipo di andamento non trova grandi corrispondenze nel
resto dell'Europa.
L'analisi dei tassi di mortalità indica come “pionieri” i paesi del Nord a cui
vanno aggiunti Inghilterra e Francia; seguono poi (dalla metà del XIX
secolo) gli altri paesi dell'Europa Occidentale e Centrale e ultimi (fine del
XIX secolo) i paesi dell'Europa Meridionale e Orientale. Per quel che
riguarda la natalità, questa è cominciata a diminuire molto presto in Francia,
per poi diffondersi man mano negli altri paesi europei, ripercorrendo
all'incirca la stessa sequenza della diminuzione della mortalità. In sostanza,
dunque, tutti i paesi europei hanno registrato una fase di notevole
incremento demografico, pur con alcune differenze riguardo l'intensità e la
durata. Essa va localizzata nella prima metà del XVIII secolo per la Francia,
nella seconda metà del XVIII secolo per la maggior parte dei paesi
dell'Europa Settentrionale e Occidentale e a cavallo del XVIII e XIX secolo
per i paesi dell'Europa Meridionale e Orientale. La formulazione della
teoria della transizione demografica elaborata in seguito al verificarsi di
questi eventi (Notestein, Coale, Satin e altri) ha ricevuto ampi consensi in
massima parte dovuti alla sua diretta applicazione all'esperienza dei paesi
europei; i consensi sono stati minori quando si è trattato di applicare questa
teoria a paesi esterni ai confini europei. Tuttavia, per le nazioni sviluppate
le cui popolazioni sono di origine europea (America e Oceania) le
Capitolo I
9
differenze riscontrate negli andamenti di natalità, mortalità e incremento
naturale sono state quasi sempre riconducibili all'utilizzo dei tassi lordi (che
risentono della struttura per età della popolazione restata per lungo tempo
giovane per via dell'immigrazione) e alla mancanza di dati affidabili sul
movimento naturale prima del 1870. Inoltre, molti studi eseguiti hanno
dimostrato una notevole somiglianza tra gli andamenti europei e quelli
dell'America del Nord, dell'Argentina e dell'Oceania.
In Australia, in Nuova Zelanda e nel Canada la transizione è stata all'incirca
contemporanea a quella dell'Inghilterra, mentre Argentina e Uruguay hanno
presentato notevoli somiglianze con l'Italia del Sud. In sostanza gran parte
dei cambiamenti che si sono riprodotti sono riconducibili alla teoria della
transizione europea. Le cose si sono complicate nell’affrontare il discorso
dei paesi in via di sviluppo. D'altra parte l'applicazione di un modello
elaborato a partire dall'esperienza dei paesi europei a popolazioni con
caratteristiche demografiche, sociali e culturali decisamente differenti da
quelle dell' Europa, è per sua natura stessa elemento di controversia, tanto
più che lo scarto tra natalità e mortalità osservato nei paesi in via di
sviluppo è senza precedenti. Le critiche al modello si sono attenuate nel
corso degli anni settanta, durante i quali alcuni paesi hanno cominciato a
ridurre la loro fecondità mentre in altri paesi se ne cominciavano a
intravedere i primi segnali, ma permangono alcune importanti distinzioni di
fondo. La prima riguarda la situazione demografica antecedente alla
transizione: in quei pochi paesi in cui sono state effettuate rilevazioni
statistiche affidabili, appare evidente che all'inizio del XX secolo, mortalità
e natalità fossero più elevate di quelle europee del XVIII secolo. La
mortalità si avvicinava quasi ovunque al 40‰ e probabilmente la speranza
di vita si aggirava intorno ai 30 anni. La natalità era sicuramente più elevata
di quella europea, a causa anche dell'assenza di quegli elementi, come l'età
tardiva al matrimonio o il celibato definitivo, che potevano almeno in parte
Capitolo I
10
ridurre l'elevato numero di figli a carico delle donne. I tassi di natalità si
aggiravano dunque intorno al 40-45‰, con un TFT
2
vicino a 7.
Una seconda importante distinzione riguarda il carattere tardivo e piuttosto
breve della transizione. La mortalità ha iniziato a diminuire in molti paesi
tra la prima e la seconda guerra mondiale, con uno sfasamento temporale
rispetto all'Europa di circa un secolo. Inoltre questa diminuzione è stata per
lo più molto brusca: a Porto Rico, per esempio, si è passati da un valore per
la speranza di vita di 41 anni nel 1930 a uno di 51 anni nel 1950 e a 71 anni
nel 1970. Lo stesso margine di guadagno si era verificato in Europa in circa
120 anni. Dopo la seconda guerra mondiale, nei paesi in via di sviluppo i
guadagni nella speranza di vita sono stati da tre a cinque volte superiori a
quelli ottenuti nei paesi sviluppati. È chiaro che sotto queste condizioni il
ritardo dei primi dai secondi è continuato a diminuire, portandosi spesso al
di sotto dei 10 anni di differenza. Per quanto riguarda la natalità, è
diminuita in momenti differenti nei vari paesi, ma comunque decisamente
più avanti rispetto alla mortalità: negli anni sessanta/settanta nei paesi del
Sud America e dell'Asia e solo molto più recentemente in Africa.
2
TFT: tasso di fecondità totale, numero medio figli per donna
Capitolo I
11
Tabella 1.1 Stime della popolazione mondiale per grandi regioni
dal 1700 al 1998 (Valori assoluti in milioni)
Regioni 1700 1750 1800 1850 1900 1950 1998
Europa e
URSS
125 146 195 288 422 573 729
America
Settentrionale
2 3 5 25 90 166 504
America
Latina
10 15 19 34 75 166 305
Oceania
3 3 2 2 6 13 30
Africa
107 104 102 102 138 222 749
Asia
433 500 631 790 903 1376 3585
TOTALE
680 771 954 1241 1643 2516 5901
Fonte: www.onuitalia.it (Organizzazione delle Nazioni Unite)
Un terzo elemento da porre in rilievo riguarda l'intensità della crescita
demografica nei paesi in via di sviluppo. La tabella 1.1 mostra come, il
tasso di incremento annuale ha raggiunto valori molto alti (due o tre volte
superiori a quelli osservati in Europa) rendendo in tal modo protagonisti i
paesi in via di sviluppo di un'accelerazione molto forte della loro
popolazione.
Più recentemente Tabah ha cercato di fornire un quadro organico della
transizione demografica dei Paesi in via di sviluppo, ponendo in
corrispondenza i valori della speranza di vita alla nascita con quelli del
tasso di fecondità totale. Da esso risulta che l'Africa è il continente che è
più indietro nel processo di transizione; i paesi dell'America Latina hanno
sperimentato un declino molto più rapido nella mortalità che nella fecondità
Capitolo I
12
e anche in Asia si può affermare che è ormai storico il declino della
fecondità e della mortalità, ma per quest’ultimo continente è necessario
effettuare una distinzione: se da una parte ci sono paesi come la Cina,
Singapore, Sri Lanka e Filippine che hanno ormai completato il processo di
transizione, dall'altra ci sono paesi di altrettanto peso demografico come
India, Indonesia, Pakistan in cui la transizione è molto più lenta (Tabah,
1989).
Tutto questo non fa altro che rafforzare l’idea di fondo circa la difficoltà ad
individuare un processo transizionale univoco (anche se molto generale) per
tutti i paesi del mondo. Se è vero che tutti i paesi, in un modo o nell'altro,
hanno sperimentato il superamento del regime demografico primitivo, è
ancor più vero che non esiste un solo tipo di transizione, ma ne esistono
diversi, distinti tra di loro per data di inizio, per durata e per livello di
incremento della popolazione. È proprio questa diversità ad aver condotto,
negli ultimi decenni, ad un quadro estremamente variegato della situazione
mondiale.
Capitolo I
13
1.3 Evoluzione della popolazione in Italia
Dopo aver analizzato la situazione nei vari paesi del mondo, ci
soffermeremo sul particolare andamento storico registratosi in Italia a
partire dall’Unità (1861).
La popolazione italiana è costantemente cresciuta dall'unità a oggi, anche se
nell'ultimo periodo, più lentamente. Come dimostrato dalla tabella 1.2, la
popolazione è passata da 22.176.000 unità del 1861 alle 56.996.000 unità
registrate nel 2001.
Tabella 1.2 Popolazione italiana residente alle date dei censimenti generali
(dati espressi in migliaia di unità )
ANNO POPOLAZIONE
1861 22.176
1871 27.300
1881 28.952
1901 32.963
1911 35.842
1921 39.397
1931 41.043
1941 42.398
1951 47.516
1961 50.624
1971 54.137
1981 56.557
1991 56.778
2001 56.996
Fonte: ISTAT, 2001
Nel periodo compreso fra il 1861 e il 1871, la popolazione è aumentata in
media di 21 abitanti ogni 1.000 per ciascun anno; nel decennio 1911-1921
si è registrato un incremento medio annuo del 9,1 per mille, poco meno
Capitolo I
14
dell’1 percento. Nel decennio successivo 1921-1931, esso è stato del 4,4 per
mille. Mentre nel quinquennio 1931-1936, la campagna a favore
dell'incremento demografico promossa dal governo fascista guidato da
Benito Mussolini, fece aumentare il tasso al 6,5 per mille. A partire dal
1971, si registra una rapida caduta del tasso di incremento: fra il 1971 e il
1981 la popolazione si accresce in media, per ciascun anno, di poco più di
4,4 unità ogni 1.000 abitanti; nel decennio 1981-1991, di 0,4 unità ogni
1.000 abitanti (oltre dieci volte di meno) e lo stesso incremento si registra
nel decennio successivo, 1991-2001.
Dalla tabella 1.3 è possibile analizzare i tassi di natalità, di mortalità e di
incremento naturale per mille abitanti, registrati in Italia fra il 1951 ed il
2000.
Tabella 1.3 Nati vivi, morti e saldo naturale della popolazione italiana fra il
1951 ed il 2000 (dati espressi per 1.000 abitanti )
ANNI
NATI VIVI MORTI
SALDO
NATURALE
1951 18,4 10,3 8,1
1956 17,7 10,1 7,6
1961 18,4 9,3 9,1
1971 16,8 9,7 7,1
1976 13,9 9,8 4,1
1981 11,0 9,6 1,4
1986 9,8 9,6 0,3
1990 9,9 9,8 0,1
1995 9,2 9,5 - 0,3
2000 9,4 9,7 - 0,3
Fonte: ISTAT, 2000
Dal 1951 al 2000 i nati sono diminuiti da poco meno di 2 ogni 100 abitanti
(18,4 per mille) a 0,9 per 100 (9,4 per mille). È diminuita anche la
Capitolo I
15
mortalità: da 10,3 morti per 1.000 abitanti nel 1951 a 9,7 per 1.000 abitanti
nel 2000. L'andamento dei due tassi ha fatto sì che da saldi naturali positivi
di 7-9 per 1.000 abitanti (cioè ogni anno la popolazione aumentava quasi
dell'1 percento), si sia passati a meno di 1 ogni 1.000 nel 1986, fino ad
arrivare al valore negativo di –0,3 per 1.000 nel 1995. La caduta è risultata
drastica dopo il 1970.
Il tasso di incremento naturale (eccedenza dei nati sui morti ogni 1.000
abitanti) si assottiglia sempre più; ciò sta a dimostrare come la popolazione
italiana stia progressivamente arretrando. Nel nostro Paese, tra il 1970 ed il
1992, il tasso di mortalità si è ridotto del 30 percento tra gli uomini e del 39
percento tra le donne. Questo declino della mortalità si traduce in un
consistente aumento della sopravvivenza media della popolazione italiana:
in soli venti anni la speranza di vita alla nascita è, infatti, aumentata di 4,8
anni per gli uomini (da 69 a 73,8) e di 5,5 anni per le donne (da 74,9 a
80,4). La positiva evoluzione della speranza di vita si caratterizza
soprattutto per la notevole riduzione della mortalità nelle età adulte e
anziane. Dei guadagni conseguiti, infatti, circa un anno e mezzo è
attribuibile, per entrambi i sessi, alla diminuzione della mortalità infantile e,
altri 2 anni per gli uomini e 3 anni per le donne, alla riduzione della
mortalità nelle età superiori ai 55 anni. Sebbene il declino della mortalità sia
un fenomeno ampiamente generalizzato a livello territoriale, il ritmo della
diminuzione è diverso per le donne e per gli uomini e varia a seconda delle
età. Negli uomini si assistite ad una progressiva omogeneizzazione sul
territorio dei tassi di mortalità grazie al declino più accentuato riscontrato
nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, ripartizioni che in partenza avevano i livelli
più elevati. Attualmente, il più basso tasso di mortalità si registra in alcune
regioni del Centro e del Sud, nell’ordine Marche, Molise, Basilicata,
Umbria, Abruzzo e Puglia. Questa geografia della mortalità si ritrova in
tutte le età della vita ad eccezione delle più avanzate (75 anni e più), per le
quali i più bassi livelli di mortalità si osservano prevalentemente nelle