II
corporate strategy. In questo capitolo ho anche voluto trattare l’importantissimo
tema del metamanagement, approfondendo da un punto di vista teorico le sue
linee d’azione e i suoi strumenti che in pratica sono di supporto allo sviluppo di
un distretto industriale.
Il terzo capitolo è dedicato al distretto calzaturiero di Barletta; infatti dopo aver
analizzato il settore nel suo scenario macroeconomico, ho esposto i dati raccolti
tramite la mia ricerca e in particolar modo le caratteristiche delle imprese facenti
parte del polo produttivo del Nord Barese Ofantino: le specializzazioni
produttive, la struttura e la strategia delle imprese del distretto.
Dopo aver raccolto e analizzato i dati, nel quarto capitolo ho proposto diverse
azioni di sviluppo per il distretto barlettano: il potenziamento dell’export verso i
mercati degli Stati Uniti e della Russia; migliorare il prodotto dal punto di vista
dell’estetica, della funzionalità e dei materiali; servire il mercato finale in modo
rapido e con maggiore valore aggiunto; rendere più efficiente la fase della
progettazione e della produzione; creare un marchio collettivo. Infine ho posto a
confronto il distretto oggetto della tesi con il metadistretto calzaturiero veneto,
per capire se i suoi fattori di successo possano essere adottati per portare
innovazione e sviluppo anche nel polo produttivo barlettano.
1
CAP.1 DEFINIZIONE ECONOMICA E GIURICA DEI
DISTRETTI INDUSTRIALI
1.1 Definizione di distretto industriale
Il distretto industriale, o il suo analogo anglosassone cluster, è
un'agglomerazione di imprese, in generale di piccola e media dimensione,
ubicate in un ambito territoriale circoscritto e storicamente determinato,
specializzate in una o più fasi di un processo produttivo e integrate mediante una
rete complessa di interrelazioni di carattere economico e sociale.
Sebbene il modello di sviluppo industriale basato sui distretti non sia un
esclusiva italiana, esso ha trovato in Italia le condizioni ideali per la sua
affermazione sin dagli anni '70, contemporaneamente alle prime avvisaglie di
crisi della grande impresa: essendo venute meno le condizioni di crescita
espansiva della domanda di mercato, abbondanza di risorse e stabilità monetaria
sulle quali si era basato lo sviluppo industriale degli anni '60, le grandi imprese
riscontrarono notevoli difficoltà nel mantenere le proprie strategie di crescita
espansiva. Molte di esse intrapresero una profonda riorganizzazione sia avviando
azioni di decentramento produttivo sia sfruttando le potenzialità della
specializzazione e della divisione del lavoro tra imprese di uno stesso settore.
Contemporaneamente, si registrò un processo di crescita di un tessuto di piccole
imprese di origine artigiana, fortemente radicate con la produzione tradizionale di
aree geografiche ristrette, che raggiunse gradualmente rilevanti quote di mercato
in produzioni di nicchia
1
.
1
Federico Visconti, “Le condizioni di sviluppo delle imprese operanti nei distretti industriali”, Egea
2
Oggi, la legislazione italiana riconosce e tutela circa 200 distretti industriali,
distribuiti a macchia di leopardo sull'intero territorio nazionale.
La loro presenza è nettamente più marcata nelle regioni del Nord e del Centro,
luoghi tradizionalmente legati al sistema della mezzadria. Accanto a questo, si
possono individuare altri fattori che hanno contribuito allo sviluppo dei distretti:
ξ il ruolo delle città, punti di relazioni interpersonali, di traffici, di
organizzazione commerciale e finanziaria, di mercati
ξ l’azione di grandi fabbriche che, per combattere la spinta unitaria
sindacale degli anni ’70, hanno decentrato la loro produzione e hanno
così permesso la nascita di piccole aziende, poi divenute indipendenti.
Ciò, inoltre, ha garantito alle grandi ditte di usufruire di una notevole
flessibilità produttiva
ξ la presenza di scuole specializzate nei settori di produzione, capaci di
fornire manodopera specializzata, diffondere cultura imprenditoriale,
portare avanti una continua ricerca
La formazione dei distretti industriali ha interessato prevalentemente settori
industriali connotati da
2
:
ξ processi produttivi ad alta intensità di lavoro umano e scarsa automazione;
ξ limitato fabbisogno di capitale fisso (investimenti e attrezzature);
ξ scarse economie di scala a livello di intero processo produttivo;
ξ innovazione legata a processi di learning by doing.
2
Mario Minoja, “Impresa distrettuale e competizione globale”, Egea, 2002
3
Tali caratteristiche sono riscontrabili nella produzione di beni di consumo
durevoli per la casa (mobili, ceramiche) e la persona (occhiali, gioielli,
abbigliamento) e dei macchinari impiegati per la loro produzione.
L'organizzazione del processo produttivo all'interno dei distretti industriali
registra un'elevata scomposizione tra imprese differenti, ciascuna delle quali può
conseguire i vantaggi della specializzazione (efficienze ed economie di scala).
Contestualmente, la fitta rete di relazioni interimpresa garantisce al processo
l'adattabilità, in termini di volumi (elasticità) e di differenziazione di prodotto
(flessibilità), necessaria per adeguare rapidamente l'offerta alle variazioni della
domanda.
I rapporti tra imprese sono improntati alla cooperazione tra soggetti che operano
a livelli differenti del sistema produttivo e alla concorrenza fra quelli che
svolgono la medesima attività. Ciò da un lato favorisce il coordinamento,
dall'altro conferisce al sistema un elevato dinamismo.
Il successo del modello produttivo dei distretti industriali è concordemente
ascritto a due principali fattori di sviluppo.
Anzitutto, il forte ancoraggio socio-culturale ad un territorio circoscritto
favorisce una rapida circolazione delle idee e una facile interazione tra gli
individui, che condividono una "cultura distrettuale". Questa non si basa solo
sulla condivisione delle conoscenze tecnico-produttive, veicolate anche mediante
specifici canali di formazione, ma include anche la cultura imprenditoriale e
l'identificazione nei valori e negli interessi del distretto
3
.
Un secondo fattore di sviluppo è l'esistenza di un approccio sistemico nelle
relazioni interimpresa secondo la logica della specializzazione flessibile. La
natura reticolare delle strutture organizzative distrettuali deriva spesso non da
precisi schemi progettuali guidati da un'impresa leader, ma come risposta
3
Federico Visconti, “Le condizioni di sviluppo delle imprese operanti nei distretti industriali”, Egea
4
spontanea al contesto competitivo; è così assicurata la possibilità di sostituire
un'impresa con altre che siano in grado di svolgere la medesima attività lungo il
processo produttivo. Contestualmente, si registra una notevole stabilità dei
rapporti, spesso basati su relazioni di mutua fiducia, in grado di favorire la
ricerca di forme di coordinamento che possano accrescere l'efficienza
complessiva del distretto.
1.2 Marshall e Beccatini: punto di partenza dell’analisi distrettuale
Alfred Marshall è stato il primo economista che ha studiato il comportamento di
un agglomerato di medie e piccole imprese, trattando quest’argomento in molte
delle sue opere e principalmente nel suo libro: “Industry and trade”
4
, dove studia
la localizzazione dell’industria, distinguendo le città manifatturiere dai distretti.
E’ importante rilevare, che tutti gli studi sono stati effettuati in Inghilterra,
prendendo come esempi i distretti tessili nel Lancashire o quelli metallurgici di
Sheffield, che si sono sviluppati in una determinata epoca storica. Ancora oggi le
suddette indagini sono prese in considerazione per analizzare realtà economiche
che si sono sviluppate anche in Italia.
Per “industrial districts” si intende un insieme di industrie monosettoriali
localizzate in una determinata zona, tra le quali vi è collaborazione ma anche
concorrenza
5
Marshall inoltre sostiene che: per ottenere i vantaggi della produzione, è
possibile suddividere il processo in varie fasi, ciascuna delle quali può essere
eseguita in piccoli stabilimenti che costituiscono il polo industriale. Questo può
4
Marshall, 1975
5
Marshall, 1919, p. 283
5
verificarsi soprattutto quando le varie industrie hanno raggiunto un buon grado di
specializzazione tale da creare un vantaggio, ossia le maggiori economie
6
. Per
capire tutto ciò si può paragonare il distretto a una ricetta, dove gli ingredienti per
la buona riuscita del piatto sono: la localizzazione mirata in un determinato
territorio, le relazioni interaziendali ed interpersonali che si creano ed infine le
economie interne ed esterne all’entità economica.
Paradossalmente, quanto più il distretto è capace di rinnovarsi, di innestare nuovi
settori, di creare fasi sempre più specializzate, tanto più esso mantiene la sua
identità come distretto industriale. Per questo ancora una volta Marshall pone
l’accento sull’economia di scala, distinguendole in economie interne ed esterne.
Le prime, dipendenti dalle risorse delle singole imprese, della loro
organizzazione e dall’efficienza della loro amministrazione, mentre le seconde
dipendenti dallo sviluppo generale dell’industria. Inoltre il Marshall, dichiara che
le economie esterne sono attribuite in gran parte ai gruppi di imprese legati da
reciproci rapporti
7
. Questa teoria, viene criticata dal Sraffa, il quale afferma che
le economie esterne ed interne non esistono, dichiarando, inoltre, che tali
economie non possono essere invocate per spiegare la legge marshalliana dei
rendimenti crescenti
8
. A questo punto, per avere un quadro più completo
dell’argomento è molto importante citare il pensiero del Becattini, che per
economie esterne, intende le economie derivanti dalla vicinanza territoriale fra
imprese e dell’interazione fra aspetti economici e socio culturali
9
. Un’altra
caratteristica del distretto è la monosettorialità, vista non come omogeneità
produttiva delle imprese all'interno del distretto, ma come parametro di
6
Marshall, 1919, p. 190
7
Marshall, 1975, p. 188, cit. in Beccatini, 1987, p. 50
8
Sraffa, 1926, cit. in Becattini, 1987, p. 43
9
Becattini, 1987, p. 13
6
riferimento dell'analisi. Ad esempio nel polo calzaturiero di Barletta, l'attività
principale è la fabbricazione di scarpe per lo sport e l'antinfortunistica, ma questa
produzione è affiancata da altre attività, come l’intermediazione, il trasporto e il
marketing. Così si viene a creare quella che gli studiosi chiamano "atmosfera
industriale", ossia l'insieme di tutti quegli operatori che svolgono determinati
ruoli, tra i quali risalta la famiglia, che ha un duplice compito: fornisce la forza
lavoro e determina con i suoi gusti il mercato. Inoltre, non bisogna dimenticare i
retaggi storici culturali che circondano un polo industriale. Infatti, è importante
capire le origini dei distretti, nati il più delle volte da botteghe, in cui una sola
persona, al massimo due, svolgeva mille mestieri. Quindi, come il Becattini
afferma: il distretto è l'evolversi di determinati fattori e circostanze nel tempo . Si
mettono in evidenza così le potenzialità organizzative di una realtà
socioculturale, le possibilità e le capacità di creare qualcosa, utilizzando quasi
tutte le risorse della zona, quindi, un legame stretto tra comunità e impresa, o
meglio tra territorio ed industria
10
. Ancora il Becattini sostiene che i processi
produttivi che si realizzano efficacemente nei distretti debbono essere
scomponibili in fasi e i loro prodotti trasportabili nello spazio e nel tempo
11
.
Quest’affermazione risulta veritiera soprattutto al giorno d'oggi dove il mercato è
diventato globale, estendendo le transazioni commerciali non solo al mercato
nazionale ma anche mondiale, per cui è anche importante avere un bacino
d'utenza capace di assorbire la produzione e ben definito geograficamente.
Assume così grande rilevanza la figura dell'intermediario, che è il collegamento
tra interno ed esterno del distretto, ossia tra il cliente e l’impresa. Inoltre gioca un
ruolo fondamentale tra le imprese stesse l’informazione, che favorisce la
conoscenza del mercato Tutti questi elementi, rendono un distretto competitivo e
10
Mario Minoja, “Impresa distrettuale e competizione globale”, Egea, 2002
11
Becattini, 1989, p. 401
7
capace di evolversi. Per concludere è importante esaminare le altre entità studiate
dal Marshall
12
oltre al distretto di cui si è parlato precedentemente, vi è la città
che si distingue per la sua compattezza territoriale e per la ricchezza di funzioni
terziarie ed infine la regione industriale. Entità molto più complessa sia della città
industriale, sia del distretto con un elevato grado di specializzazione territoriale,
in cui i mezzi di comunicazione giocano un ruolo importante e dove prevalgono
l’atmosfera tecnica e l’atmosfera industriale.
1.3 La chiave di lettura porteriana dei distretti industriali: il vantaggio
concorrenziale
In questo paragrafo si farà riferimento al concetto di “vantaggio concorrenziale”
usato da Porter
13
famoso autore, ben noto nella letteratura economica.
Partendo dalla problematica della varietà e della variabilità socioculturale e della
relativa frammentazione del mercato della domanda, cominciamo ad entrare
nell’ambito di discorso proprio dell’economia attraverso la raffinata teoria dei
“vantaggi competitivi”, la quale utilizza proprio la diversità e la diversificazione
dei contesti nazionali e aziendali per capire e spiegare come possa una
determinata forma organizzativa-produttiva o una data innovazione tecnologica,
funzionare in modo diverso sia con riferimento ad un dato confronto fra diverse
aziende, che, più in generale, con riferimento ad un confronto tra diverse realtà
geografiche.
Anche lo studio dei vantaggi competitivi ha, infatti, riportato l’attenzione
dell’economista sulla varietà e sul significato dei contesti in cui si svolge la
12
Marshall 1919, p. 160 cit. in Becattini, 1987, p. 102
13
Il vantaggio competitivo delle nazioni; M.Porter, Arnoldo Mondatori Editore 1991
8
produzione, anche se però lo ha fatto in modo parziale poichè si è riferito
soprattutto alle differenze tra sistemi nazionali, a livello macro e tra sistemi
aziendali, a livello micro. Si sono invece trascurate differenze e diversificazioni
che invece sono essenziali e che ritrovano spesso in contesti e scenari più
impercettibili.
Procedendo con ordine, passiamo prima ad esaminare il pensiero dell’autore che
ci permetterà di comprendere l’origine del vantaggio competitivo e del motivo
della sua importanza ai fini della nostra analisi. Prima di tutto, è bene chiarire
quanto Porter fosse contrario a cominciare la sua ricerca del vantaggio
competitivo, da settori, quali la meccanica e la chimica, i quali rappresentavano
un “accumulo”, un insieme di settori e sottosettori, estremamente eterogeneo ai
fini dell’analisi. Sono queste non un’industria, ma un insieme di industrie per
ognuna delle quali sono riscontrabili specifiche caratteristiche concorrenziali e
competitive, e che raggruppano situazioni produttive troppo variegate e
specifiche. Quindi per poter avere un’idea più realistica delle condizioni
competitive, bisognerà accantonare per un momento la visuale macroeconomia
dell’analisi, concentrandoci piuttosto su un’area di riferimento più “micro”,
comprendente una scissione di micro-unità d’osservazione certamente più
specifiche e localizzate, ma sicuramente più preziose ai fini della ricerca in
questione. Quello che ci preme scoprire è perchè un dato contesto regionale o
nazionale rappresenti un terreno fertile all’innovazione, alla ricerca e sviluppo
mentre, altri contesti territoriali rivali non lo sono. E’ vero che le economie di
scala, la leadership tecnologica e la differenziazione del prodotto creano le
condizioni concorrenziali, ma questo non spiega come mai riescano ad ottenerle
solo alcune imprese, in determinati segmenti industriali, e di determinati contesti
territoriali, mentre per altre non si capisce come non riescano, o possano attuarle.
9
In poche parole, non dobbiamo chiederci quali fattori rappresentano dei vantaggi
competitivi, ma “dove” questi si debbano ricercare e, perché no, adattare e
riportare in altri. Porter ritiene che si tratti solo di processi sociali, in cui è
importante il dove, con chi e in quale contesto si prendono le decisioni, e non
solo le decisioni che si prendono
14
.
Ancora una volta, occorre considerare come, l’adozione di una data tecnologia o
innovazione di processo, possa produrre effetti diversi, a seconda che questa sia
effettuata da un’impresa isolata, oppure che sia presa da un’impresa facente parte
di un sistema più ampio e integrato, la cui attività dipende e interagisce con
quella delle altre.
Sappiamo infatti che, i meccanismi di emulazione agiscono più intensamente per
le imprese geograficamente concentrate. Si avrà allora, che fra gli elementi
decisivi alla nostra ricerca dei vantaggi competitivi, spuntino fuori fattori come:
la dotazione iniziale di fattori (infrastrutture fisiche, dotazioni di lavoro
specializzato ecc..) la natura della domanda interna, i collegamenti verticali e
orizzontali con i segmenti industriali vicini, la connotazione del mercato del
lavoro locale, ecc...
In poche parole, non si tratta di un unico vantaggio, ma di una pluralità di
“risorse” e comportamenti, i quali danno vita a qualcosa di impercettibile
all’osservazione fisica dei fattori produttivi, ma che si delinea più chiaramente
se si prende il fenomeno nella sua generalità, ovvero nella sua “sistemizzazione”.
Non è tanto la singola impresa che genera un vantaggio competitivo, quanto
piuttosto l’ormai famosa “atmosfera industriale” che sintetizza il clima di
comune vitalità e soprattutto il comune senso di cooperazione fondata su uno
spirito di concorrenza. Nel mix dei fattori competitivi un ruolo di grande rilievo è
fornito dalla qualità e composizione della domanda locale (o nazionale).
14
Federico Visconti, “Le condizioni di sviluppo delle imprese operanti nei distretti industriali”, Egea
10
Michael Porter afferma che “le nazioni guadagnano un vantaggio concorrenziale
nelle industrie o nei segmenti industriali in cui la domanda interna dà alle
imprese locali un quadro più chiaro e più pronto di quello disponibile ai rivali
esteri”
15
. Cosa vuol dire questo? Significa che se la domanda locale, rispecchia
una clientela molto esigente, ovvero molto diversificata, allora essa rappresenterà
senz’altro un laboratorio utilissimo di sperimentazione produttiva orientata alla
flessibilità produttiva e di processo. Se ricorrono queste condizioni allora
possono partire processi cumulativi coinvolgenti ciascuno, un distinto segmento
industriale, molto spesso localizzato.
Curioso come l’autore attribuisca tanta attenzione del fenomeno in questione,
all’osservazione del contesto italiano, massima rappresentazione dell’importanza
del territorio nella genesi del vantaggio competitivo.
Ricapitolando brevemente, possiamo notare come il primo grande merito di
Porter sia stato quello di scindere la sua analisi ad un livello sensibilmente
ridotto, ad unità microeconomiche, capaci di rispecchiare ognuna dei sottosettori
più omogenei, che presi nella sommatoria di essi riesce a dare un’idea più
completa ma allo stesso tempo specifica. Altro fattore importante, abbiamo detto,
è quello che, però,consiste anche nel più grande paradosso della formula
organizzativa distrettuale: la contemporanea vivacissima concorrenza, parallela
ad un’altrettanto cooperazione fra le imprese che ne fanno parte.
Ci sono almeno tre ragioni per spiegare l’alta concorrenzialità interna ai distretti:
la contiguità elimina i monopoli spaziali; la percezione piena e immediata delle
mosse dei concorrenti nel distretto induce risposte più pronte; la contiguità
aggiunge un tratto personale, d’invidia e di emulazione, alla rivalità puramente
commerciale
16
.
15
Cfr: Il vantaggio competitivo delle nazioni; M.Porter, Arnoldo Mondatori Editore 1991
16
Federico Visconti, “Le condizioni di sviluppo delle imprese operanti nei distretti industriali”, Egea
11
Il distretto industriale è un’area in cui il clima concorrenziale è mediamente più
acceso che nel resto del sistema economico.
Ma le concentrazioni territoriali d’imprese agevolano anche forme di
cooperazione consapevole e semiconsapevole. Fra le prime si ricordano:
infrastrutture comuni, cooperazione di acquisto e di vendita, centri locali di
formazione professionale, e diverse forme associative. Fra le seconde, più
difficili a percepirsi, vi sono regole e convenzioni accettate dalla comunità su cui
insiste il distretto e che hanno l’effetto di impedire la degenerazione della
vivacissima concorrenza in forme distruttive del sistema locale. Il distretto è un
ambiente dove i fenomeni della concorrenza e della cooperazione interagiscono
fra loro in modo economicamente virtuoso.
Porter giunge alla conclusione che, nella difficile analisi per la ricerca del
vantaggio competitivo, tipico di una certa localizzazione produttiva a differenza
di altre, concorrano una pluralità differenziata e diversificata di fattori e soggetti.
Ciascun luogo mobilita nella produzione la propria conformazione naturale, la
propria storia, la propria cultura, la propria organizzazione sociale: tutte risorse e
circostanze che, sono diverse da quelle che possono venire mobilitate da ogni
altro luogo. La composizione del vantaggio competitivo, è da ricercare proprio
nella variegata morfologia e composizione del territorio.
In questo senso si può dire che ogni capitalismo nazionale trae la sua specificità,
il suo carattere, dalla varietà dei contesti locali che comprende al suo interno.
Decisivo, è quindi la “ varietà”del territorio, la diversificazione e la
differenziazione sia delle competenze che degli operatori, senza le quali non
sarebbe possibile ottenere quel laboratorio, di cui abbiamo parlato prima e che
permette continue “esplorazioni” del variegato contesto locale, il quale
rappresenta un continuo propulsore di innovazione
17
. Ovviamente, questo non si
17
Il vantaggio competitivo delle nazioni; M.Porter, Arnoldo Mondatori Editore 1991
12
avrebbe, se non ci si fermasse un momento anche ad analizzare la storia, il ruolo
delle istituzioni e dell’intero ambiente circostante ad un distretto, perché ogni
area-sistema, ha prodotto un’immagine univoca e difficilmente adattabile ad altri
contesti, che non presentino le sue ragioni di successo di fondo. Ogni società è
diversa, e ogni società dà vita al suo distretto. Per rispondere ai mutamenti
dell’ambiente competitivo, il sistema locale deve mutare continuamente la
propria struttura interna. I prodotti, i processi, le relazioni dell’economia locale
con i mercati esterni, le formule organizzative del processo produttivo-
distributivo, sono “condannati” ad essere continuamente ripensati e modificati.
Ma, perché il sistema locale possa conservare, in questo continuo cambiamento,
la sua identità occorre che rimanga invariante un nucleo caratteristico di entità
appartenenti all’area dei valori, delle conoscenze e delle istituzioni, e/o al sistema
dei loro rapporti. E’ dunque necessario, per i sistemi locali, mantenere
nell’attuale contesto socio-economico (il quale sembra votato a troppo
ottimistiche previsioni globalizzative) un ruolo proprio, una immagine
identificativa e irripetibile. Essi devono farsi portatori di valori sempre diversi,
perché è vero che il vantaggio competitivo è figlio dell’innovazione, ma è anche
vero che quest’ultima è legata indissolubilmente alla progressiva mutazione dei
bisogni. La società cambia, e con essa le aspirazioni e le priorità dei suoi
soggetti: in uno scenario del genere, non mi sento assolutamente di escludere il
modello industriale distrettuale, che proprio dalla diversificazione e dal
cambiamento, trova ragione di esistenza.