9
regionali, che prevedeva la realizzazione di programmi di sostegno in favore
delle regioni meno evolute, attuate mediante la creazione di appositi fondi.
Ma la svolta vistosa verso il processo di integrazione si registra nella
seconda metà degli anni ’80, dopo la pubblicazione del Libro bianco e
dell’Atto unico, che hanno impresso entrambi una forte accelerazione, anche
sotto l’aspetto psicologico, ad un cammino verso un’Europa fondata sulla
coesione economico sociale.
Così la logica dell’integrazione negativa, che si basava sull’abolizione
degli ostacoli diretti ed indiretti agli scambi, si arricchisce di nuovi campi
d’azione e spinte rilevanti verso l’integrazione positiva; si consolida la
dimensione sociale e parallelamente trova avallo formale anche l’obiettivo
significativo e ambizioso della coesione.
Le successive intese di Maastricht rappresentano una tappa
fondamentale per il passaggio da un’unione avente fini prevalentemente
economici ad una struttura che tende nel lungo termine e, comunque nelle
intenzioni, al modello federale; ed in quest’ottica vengono così riscritti e
rafforzati i capitoli dedicati alla politica sociale ed alla coesione economica.
Si passa, quindi, al Consiglio di Berlino del marzo 1999 ove vengono
condivisi gli obiettivi di coesione proposti in Agenda 2000 per poi approdare
alle importanti tappe di Lisbona e Goteborg attraverso l’elaborazione di una
strategia destinata a fare dell’Europa un’economia basata sulla competitività
e sulla dinamica sociale, dando così nuovo impulso alla protezione
dell’ambiente e alla realizzazione di un modello di sviluppo più sostenibile.
Si giunge, infine, alla firma del Trattato sulla Costituzione europea in
cui la politica di coesione e sviluppo economico e sociale trova degna
collocazione, proponendosi come una soluzione innovativa ed efficace in
grado di affrontare le comuni sfide del futuro, come la globalizzazione,
l’allargamento, l’invecchiamento della popolazione.
Pertanto, dopo aver esposto sinteticamente i principi di funzionamento
ed i campi d’azione delle politiche strutturali, sia passa al secondo capitolo
10
in cui l’attenzione si concentrerà sugli interventi finanziari comunitari a
favore delle regioni del Mezzogiorno d’Italia ed in tale contesto verranno
esaminati circa 20 anni di politiche strutturali a partire dal primo Quadro
comunitario di sostegno 1989/93, fino all’attuale ciclo di programmazione
che si concluderà nel dicembre 2006.
Nella prima parte si esporranno le ragioni, anche storiche, dello stato
di arretratezza delle regioni meridionali che hanno indotto i governi,
succedutisi nel tempo, ad intervenire massicciamente in tali aree mediante
ingenti trasferimenti, attuati in regime di intervento straordinario, diretti al
sostentamento delle imprese e dei redditi delle famiglie.
Ma la presa d’atto del fallimento di tale politica di sviluppo induce le
istituzione centrali a riconsiderare il sistema degli interventi diretti al sud,
che transitano, agli inizi degli anni ’90, dall’alveo della straordinarietà a
quello dell’ordinarietà; si assiste, quindi, alla creazione di un nuovo modello
basato su aiuti nazionali e comunitari diretti verso tali regioni che trova
fondamento in più organici programmi di sviluppo.
Si comincia a parlare di programmazione nazionale, di aiuti
comunitari, di interventi strutturali, nasce una nuova era o meglio si
delineano nuove tipologie di azioni congiunte (comunitarie e nazionali), ma
il nuovo approccio sistemico e metodologico mostra notevoli rallentamenti,
rimanendo per lungo tempo ancora fortemente legato al precedente modello,
ovvero quello sperimentato nel corso del regime dell’intervento
straordinario.
Le azioni di sviluppo continuano così ad essere frammentate, disperse
in micro interventi che non riescono ad intaccare le precarie situazioni di
contesto; inoltre, la scarsa qualità dell’attività di programmazione, che
accompagna gli interventi strutturali fin verso la fine degli anni ’90,
polverizza ulteriormente i risultati sperati, lasciando il Mezzogiorno, alle
soglie del 2000, nella situazione che si presenta sotto gli occhi di tutti: una
11
grossa parte del territorio nazionale che converge poco e con alterna
progressione.
Timidi segnali di ripresa e di cambiamento si registrano solo con
l’attuale ciclo di programmazione che terminerà, come detto, nel 2006;
attenderemo i risultati per verificare se le cose sono veramente cambiate o se
si è trattato ancora una volta di operazioni di facciata.
Nella seconda parte del capitolo verrà condotta un’attenta analisi
valutativa delle modalità di attuazione delle politiche strutturali e soprattutto
verranno evidenziati gli effetti che esse hanno prodotto nel contesto del
Mezzogiorno, con particolare riferimento all’efficienza ed all’efficacia
dell’utilizzo delle risorse messe a disposizione.
Si tratta, ovviamente, di dati di macro che danno una visione
d’insieme, ma comunque sufficienti a fornire ed individuare gli elementi che
hanno caratterizzato l’attuazione e la gestione dei finanziamenti comunitari
nei nostri territori obiettivo 1.
Il quadro che ne scaturisce rivela come le politiche strutturali rivolte
alle aree meridionali siano state attuate, almeno fino a tutti gli anni ’90, con
approssimazione e scarso senso di responsabilità, senza specifiche e
concrete azioni di coordinamento e senza l’individuazione di precisi
obiettivi strategici in grado di segnare un punto di visibile rottura.
Si è badato quasi esclusivamente agli aspetti di natura finanziaria
(impegnato/speso/erogato) e non a quelli qualitativi della spesa; del resto
l’imperativo politico era quello di spendere, con quali modalità non
interessava, ma l’importante era utilizzare le risorse; tentativo che, peraltro,
non sempre riusciva vista la permanente incapacità delle amministrazioni
centrali e periferiche di programmare serie ed organiche politiche di
sviluppo.
Così, le risorse comunitarie si sono spesso tramutate in mancate
occasioni di sviluppo e mentre altre regioni svantaggiate d’Europa
mostravano capacità di impiego e qualità nella spesa, il Mezzogiorno
12
arrancava, operando in perenne emergenza, rendendo così pressoché
infinitesimale il valore aggiunto delle politiche strutturali.
Le amministrazioni responsabili dell’attuazione degli interventi,
anziché indirizzare le risorse verso l’incremento dello stock infrastrutturale,
la valorizzazione del capitale umano, lo sviluppo tecnologico e la
diversificazione dell’industria hanno proseguito, sulla scia già tracciata
dall’intervento straordinario, ad utilizzare gli stanziamenti Ue in funzione di
incentivo alle imprese e di sostegno dei redditi delle famiglie, con evidenti
finalità distributive e di ricerca di consenso.
Sono mancate le scelte coraggiose di lungo periodo, cosicché le varie
programmazioni dei Fondi non hanno potuto costituire un continuum ma
solo un insieme di interventi frazionali, scollegati dalle situazioni di
contesto, incapaci di fornire autonoma valenza all’azione delle politiche
strutturali.
Le cifre ed i dati esposti nell’elaborato dimostrano come non solo si è
speso poco e male, ma si è anche quasi riusciti ad ingenerare nelle varie
amministrazioni centrali e periferiche l’idea che le regole comunitarie
potevano essere modellate alle consolidate prassi gestionali che hanno
caratterizzato l’intervento straordinario nel Mezzogiorno e non viceversa;
per cui esse sono state vissute come un fastidioso adempimento formale e
non come un momento di apprendimento.
Le ricerche effettuate e la documentazione esaminata inducono a
formulare critiche anche verso le istituzioni di controllo le quali hanno
circoscritto la loro funzione ad una mera attività ricognitiva, ad una presa
d’atto della situazione, concentrando l’attenzione quasi esclusivamente
all’analisi degli aspetti di natura finanziaria, con rari accenni ai momenti
valutativi.
Al riguardo, si è constatata l’esistenza di un circuito di dati statistici e
finanziari che di volta in volta sono stati utilizzati secondo le esigenze,
13
mancando quindi l’elemento di garanzia costituito dal contraddittorio, dalla
critica e dal confronto.
E’ mancato anche il momento qualitativo della spesa, o meglio, le
problematiche esistenti su questo fronte, pur essendo ben note ai vari livelli
istituzionali, non sono state affrontate con la dovuta serietà, probabilmente
perché si sarebbe trattato di esprimere giudizi su scelte politiche e quindi di
selezione degli interventi, che avrebbero potuto comportare il riacutizzarsi
di tensioni nei già precari equilibri sociali ed istituzionali.
L’analisi condotta su taluni strumenti di attuazione delle politiche
strutturali, fa emergere perplessità anche rispetto alla corretta osservanza dei
principi del partenariato e dell’addizionalità: sul primo versante si è
riscontrato uno scarso, se non addirittura assente, coinvolgimento della
componente economico sociale nella scelta e selezione dei progetti da
finanziare, mentre sul secondo fronte, sorgono legittime critiche
sull’effettiva aggiuntività delle risorse nazionali a quelle comunitarie, in
special modo per quanto concerne i precedenti periodi di programmazione.
L’impressione che si è avuta è che le risorse comunitarie abbiano quasi
sempre rivestito una funzione sostitutiva rispetto a quelle nazionali,
sostenendo il reddito delle persone e delle imprese in periodi di gravi
congiunture economiche derivanti anche dai limiti imposti al Paese dai
parametri di Maastricht.
Tali argomentazioni, sommate alle altre carenze succintamente
evidenziate, costituiscono una delle premesse per la mancata convergenza
delle regioni del Mezzogiorno, in rapporto alle ingenti risorse nazionali e
comunitarie ivi riversate.
Segnali di rottura di questo sistema si incominciano ad intravedere
solo a seguito dell’avvio della fase meglio conosciuta come nuova
programmazione 2000/06, che affannosamente sta cercando di imporsi ed
incidere anche sul modo dell’agire e dell’approccio delle pubbliche
14
amministrazioni centrali e periferiche verso le regole comunitarie; ma le
tradizioni, si sa, sono difficili da sradicare.
Nel terzo capitolo l’attenzione verrà rivolta alle prospettive future
della politica di coesione a seguito dell’adesione dei nuovi stati membri e
agli effetti che si avranno con riguardo al Mezzogiorno; si tratta di questioni
di non poco conto visto che gli scenari che si delineano influenzeranno
profondamente la politica dei Fondi strutturali nel periodo 2007 – 2013 e di
riflesso anche le scelte di sviluppo del nostro Paese verso tali aree.
In particolare, viene affrontata la problematica riguardante le modalità
di ripartizione delle risorse tra i vari stati membri per il nuovo obiettivo
Convergenza (ex obiettivo 1) in relazione alle quali si sono delineate ipotesi
diverse che fanno capo a due opposti schieramenti.
Da un lato vi sono gli stati membri, cosiddetti “rigoristi” che spingono
per la riduzione delle risorse da destinare alla politica di coesione in vista di
una possibile nazionalizzazione della medesima altri, invece, vedono come
elemento prioritario il mantenimento della centralità in ambito europeo di
dette politiche.
E’ovvio che gli interessi in gioco sono notevoli e molteplici e si tratta
di conciliare punti di vista estremamente diversi.
Certo è che, qualora prevalesse la linea del rigore, il Mezzogiorno
rischierebbe di perdere una grossa fetta di finanziamenti che potrebbero
rallentare il già lento cammino verso la convergenza di tali regioni che
l’attuale ciclo di programmazione si è imposto; diversamente, qualora
venisse privilegiata l’istanza sostenuta in primis dalla stessa Commissione,
tale rischio, almeno nell’immediato, assumerebbe contorni più morbidi.
Ma dopo il fallimento del vertice di Bruxelles del 17/18 giugno scorso
e con la presidenza di turno in capo alla Gran Bretagna, paese leader del
fronte rigorista, si delinea un orizzonte poco confortante per il nostro
Mezzogiorno; pertanto è necessario che tutto il Paese faccia “quadrato” al
15
tavolo delle trattative, affinché il prezzo dell’allargamento non gravi su
regioni già fortemente penalizzate da sfavorevoli situazioni di contesto.
16
CAPITOLO PRIMO
LE POLITICHE DI SVILUPPO E COESIONE DELL’UNIONE
EUROPEA
1.1 Premessa
La politica di coesione è uno strumento di solidarietà finanziaria
attraverso cui l’Unione europea contribuisce a colmare il divario tra le
regioni più arretrate, promuovendo la riconversione di zone industriali in
crisi, la diversificazione delle attività produttive nelle aree agricole in
declino ed il risanamento dei quartieri degradati delle città, ma non solo:
essa è anche una politica concreta che tende a facilitare la ricerca di un
lavoro ed a migliorare le condizioni di vita ovunque, nei paesi come nelle
regioni, nelle città come nelle campagne.
Grazie alla politica di coesione è stato possibile creare e ammodernare
reti di trasporto per ridurre le distanze tra le regioni periferiche ed i grandi
poli di sviluppo economico, favorire la nascita di piccole e medie imprese in
zone remote, migliorare l’ambiente in dismesse aree industriali, diffondere
nuove tecnologie.
Naturalmente il successo di tale politica dipende da solide forme di
collaborazione tra organismi comunitari, autorità nazionali e
amministrazioni locali, connesse a grandi capacità di innovazione e
adeguamento degli indirizzi di crescita economica alle esigenze richieste dai
sistemi locali di sviluppo, che presuppongono un concreto decentramento di
compiti e funzioni amministrative.
In Italia, una forte accelerazione in tal senso si è avuta a partire dalla
fine degli anni ‘90 mediante la progressiva attribuzione di maggiore
autonomia alle regioni nella programmazione ed attuazione di politiche a
sostegno dello sviluppo economico e occupazionale, nonché di funzioni
17
legislative, che stanno valorizzando sempre più il ruolo del governo
territoriale rispetto a quello centrale, com’era naturale che fosse in un
ambiente geopolitico in cui la creazione di un unico grande mercato e la
crescita delle capacità concorrenziali dei paesi di recente adesione,
determineranno un allargamento dei fattori di competitività.
Partendo da questo presupposto e da un quadro legislativo comunitario
e nazionale più attento ed orientato verso le autonomie locali, si nota come
la politica di coesione stia assumendo sempre più un ruolo centrale nella
promozione dello sviluppo economico e sociale, dando contenuti concreti
alla formazione di un nuovo modello istituzionale,
1
non verticistico,
articolato su linee orizzontali, fondato sull’interazione tra vari soggetti
politici e gruppi economici presenti sul territorio,
2
in cui l’UE viene ad
assumere una valenza politica sovraordinata.
3
Questa progressiva migrazione di competenze a favore dell’Unione si
rinviene con estrema chiarezza nel contesto delle politiche strutturali la cui
attuazione sta certamente contribuendo alla formazione di un sistema
politico amministrativo che agevola il processo di integrazione e l’emergere
di un’identità europea che potenzia forze sociali, politiche ed economiche a
1
SAPIENZA, Politica comunitaria di coesione economica e sociale e programmazione
economica regionale, Milano, 2003, pag. 5: “La politica comunitaria di coesione
economica e sociale, proprio a motivo della sua necessaria articolazione territoriale su
reti interattive, e dunque più di altre politiche comunitarie, si costruisce attraverso un
sistema di complesse interazioni che valorizzano tutte le componenti del sistema della
governance europea: istituzioni comunitarie, autorità statali, autorità infrastatali, imprese
e attori della cittadinanza attiva”.
2
STEFANI, Politica Regionale Britannica e Comunità Europea, in Rivista Internazionale
Scienze Economiche, 1994, pag. 905: “l’azione della Comunità va creando un livello
sovranazionale rispetto agli Stati membri. La politica regionale della Comunità,
sostenendo il decentramento, diminuirà gradualmente il ruolo decisionale degli organismi
statali e avvalorerà quello degli organismi subnazionali”.
3
PREDIERI, Fondi Strutturali e Coesione Economia e Sociale dell’Unione Europea - Atti
del convegno di Firenze 12 e 13 maggio 1995, pag. 8: “la Comunità europea diventa
fattore sopranazionale che eredita, in parte, funzioni dello stato fattore dell’economia, in
parte le coordina, superando nel suo ambito il conflitto fra fattore nazionale e processi
trasnazionali”.
18
scapito degli stati nazionali, accrescendo la partecipazione dei subsistemi
locali di sviluppo.
4
Infatti, l’opera di riequilibrio insita nelle politiche strutturali
rappresenta un fattore correttivo indispensabile alla stessa azione
comunitaria che, nel tentativo di omogeneizzare il mercato interno, può
incrementare il divario delle regioni meno favorite
5
per cui, al fine di evitare
seri problemi di carattere regionale all’interno dell’Unione e di prevenire
perturbazioni di matrice sociale, si è reso necessario far leva
contestualmente su due fattori: la flessibilità dei mercati dei prodotti e le
misure compensative da attuarsi attraverso le politiche strutturali.
6
4
Dal punto di vista politico istituzionale, i meccanismi di funzionamento delle politiche
strutturali evidenziano i tratti caratteristici di un modello di governo a livelli multipli in
cui i sistemi istituzionali interni implicano una riorganizzazione in base a logiche di
decentramento e devoluzioni delle competenze.
5
Parere del Comitato Economico e Sociale sul tema: La Coesione economica e sociale in
GUCE C 21 aprile 1992 n. 98/50, punto 12.1.1 ove viene affermato che “il concetto di
coesione economica e sociale non si esaurisce nel miglioramento assoluto delle
condizioni, ma implica l’idea di “riequilibrio”, e cioè della “convergenza reale” intesa
come avvicinamento tra i redditi disponibili, le strutture economiche e sociali, i sistemi di
Welfare e delle relazioni industriali”.
6
TSOUKALIS, The New European Economy. Second Revisited Edition, 1993 - Trad. It.
La Nuova Economia Europea, Bologna 1994. Pag. 216 “Sarebbe stato sorprendente se
la politica distributiva non fosse comparsa sulla scena europea. Anzi, si sarebbe potuta
interpretare la sua assenza come un segnale inconfondibile dell’irrilevanza della CE come
sistema economico e politico”.
19
1.2 Origini ed evoluzione
Sin dal momento della sua costituzione, la Comunità europea ha
considerato tra le proprie inderogabili finalità, quella di agevolare lo
sviluppo delle regioni strutturalmente in difficoltà, ossia di quelle aree il cui
ritardo non è legato a situazioni contingenti, ma è causato da disequilibri
legati al sistema economico finanziario locale.
Infatti, già nel preambolo del Trattato di Roma del 1957, gli stati
costituenti assumevano l’impegno di rafforzare l’unità delle loro economie
e di assicurarne lo sviluppo armonioso, riducendo le disparità fra le
differenti regioni e il ritardo di quelle meno favorite.
7
L’assunto era, comunque, più di carattere dogmatico che sostanziale,
in quanto nelle previsioni di allora, la semplice apertura delle frontiere, con
la conseguente adozione di politiche volte ad agevolare la circolazione di
persone, capitali e merci, avrebbe dovuto assicurare, attraverso la libera
concorrenza, il miglioramento delle aree depresse.
Questo atteggiamento
8
derivava dalla considerazione che l’attuazione
di un mercato unico, correlato all’avvicinamento progressivo delle politiche
economiche degli stati membri,
9
avrebbe automaticamente livellato anche le
differenze regionali esistenti in seno alle Comunità.
10
7
L’art. 2 dello stesso Trattato prevedeva che “la Comunità ha il compito di promuovere
(…), mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione economica e
monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni (…) uno sviluppo
armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, una crescita sostenibile e
non inflazionistica, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato
livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento di quest’ultimo, un elevato livello
di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della
vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli stati membri”. Trattavasi
comunque di un principio di carattere programmatico, che non ha avuto pratiche
applicazioni, almeno per il primo decennio dalla firma del trattato.
8
Si faceva riferimento al modello di sviluppo economico neoclassico, secondo cui la
flessibilità dei prezzi dei fattori della produzione, l’automatico afflusso di capitali nelle
aree ove il costo del lavoro è minore,la migrazione dei disoccupati verso i territori più
sviluppati, avrebbero migliorato la distribuzione territoriale dei fattori produttivi,
garantendo un mercato concorrenziale, tendenzialmente omogeneo.
9
CEPR – Centre for Economic Policy Research – Trad it. La distribuzione dei poteri
nell’Unione Europea. Il principio di sussidiarietà nel processo di integrazione europea,
20
Inizialmente, quindi, gli sforzi di Bruxelles furono principalmente
rivolti all’abbattimento delle frontiere doganali, trascurando altri settori non
strettamente economici, anche se fin dal momento della firma dei Trattati,
taluni già temevano gli effetti distorsivi che la liberalizzazione degli scambi
avrebbe comportato, poiché avrebbe spinto verso una concentrazione dello
sviluppo industriale e della ricchezza nelle regioni più progredite a discapito
di altre che, invece, presentavano critiche situazioni di contesto.
11
I timori si fondavano sull’ipotesi che la crescita spontanea delle
economie moderne si svolgesse lungo linee di squilibrio regionale, secondo
cui lo sviluppo non tende a diffondersi omogeneamente nel senso spaziale,
ma si concentra intorno a poli di attrazione, trovando nei medesimi
autoalimentazione.
12
In ogni caso, malgrado queste diffuse preoccupazioni la linea prescelta
fu quella di non attuare, almeno nell’immediato, una politica di sostegno
strutturale verso le aree svantaggiate, evenienza che oltretutto pareva porsi
in contrasto con lo stesso spirito del Trattato che, invece, mirava alla
realizzazione di un mercato libero, privo di vincoli ed interferenze,
dominato dalla concorrenza.
Bologna 1995, pag. 177 “la crescita del commercio di beni dovrebbe portare
automaticamente ad una riduzione delle differenze presenti nei salari a livello regionali.
La mobilità del capitale dovrebbe accelerare tale processo, dato che questo si dovrebbe
spostare nelle regioni a salario più basso. Secondo questa visione una politica regionale
dovrebbe risultare totalmente inutile”.
10
KRUGMAN – VENABLES, Integration and the Competitiveness of Peripheral Industry,
1990. Tali autori considerano, invece, non automatiche le forze che spingono verso la
convergenza regionale e individuano nel libero commercio dei beni e nell’aumento della
mobilità nei capitali soprattutto se le imprese operano in un regime di rendimenti di scala
crescenti. La riduzione del costo del commercio interregionale permette alle imprese di
sfruttare delle economie di scala concentrando la produzione in un numero minore di
autonomie locali. Fino a quando i costi dello scambio non equivalgono a zero, queste
imprese si vanno a collocare in prossimità di mercati ampi, in regioni centrali e non
periferiche.
11
AGOSTINI, Regioni Europee e Scambio Ineguale, Bologna 1976
12
MYRDAL, Teoria Economica e Paesi Sottosviluppati, Milano, 1966. In particolare, si
faceva riferimento al principio di cumulazione descritto da Myrdal secondo cui, se una
regione, per un qualsiasi motivo, acquista una posizione dominante, tende a conservarla e
a rafforzarla grazie all’azione di forze economiche e sociali che attivano un processo
pressoché automatico di crescita cumulativa a scapito delle altre che, viceversa, perdono
comparativamente terreno, vedendo ridotte le proprie prospettive di sviluppo.
21
Ma ben presto ci si rese conto che molte delle differenze strutturali
esistenti tra le varie aree potevano essere eliminate soltanto attraverso mirate
politiche implicanti un impegno attivo sia da parte degli organismi
comunitari che nazionali.
Infatti, le prime esperienze mostravano come l’adottato approccio, per
così dire di stampo “liberista”, avesse addirittura avuto effetti peggiorativi
nei confronti di quelle aree che già versavano in difficoltà, per cui nacque
l’esigenza di attuare forme d’intervento capaci di contrastare tali fenomeni
di divergenze; ipotesi questa, che era stata peraltro già avanzata nel
Rapporto Spaak
13
che ha preceduto la firma dei Trattati.
Pertanto, nel corso del 1969, la Commissione prendendo atto delle
emergenti problematiche, si impegnava a predisporre una serie di specifici
interventi
14
(sulla base delle risultanze che sarebbero emerse a seguito di una
periodica attività di monitoraggio sulla situazione delle singole regioni in
declino) e di intervenire ogni qual volta fossero state riscontrate criticità in
termini di sviluppo, attraverso l’assegnazione di un aiuto finanziario, ad
incremento progressivo, allo stato che ne avrebbe fatto esplicita richiesta,
tramite la presentazione di un apposito Piano di Sviluppo Nazionale.
13
Il Comitato Spaak, il 29/05/1956, a conclusione di circa un anno di lavoro, presenta alla
conferenza dei ministri degli esteri a Venezia il suo rapporto. In esso si prevede
l'istituzione di due nuove distinte comunità: una, strettamente settoriale si occuperà
dell'utilizzazione su scala continentale dell'energia atomica per scopi pacifici; l'altra, più
in generale economica, dovrà portare alla realizzazione di una politica commerciale
comune e con il tempo alla creazione di un Mercato comune e di una unione economica
fra i Sei paesi. Nel rapporto del comitato infatti l'obiettivo si concentra sull'attuazione di
integrazioni settoriali, nella convinzione che da queste si arriverà gradualmente a formare
quello stato federale europeo, ma si sottolineava anche come la pur auspicata unione
doganale non sarebbe stata da sola sufficiente ad appianare le differenze riscontrate nel
grado di sviluppo delle varie regioni, nell’ambito dell’istituita comunità.
14
Commissione europea, Rapporto sullo sviluppo regionale comunitario, Lussemburgo
1971. Nel rapporto si evidenziavano notevoli disparità fra le regioni degli allora 6 stati
membri, in termini di Pil pro capite. Successivamente, nel 1973 il Rapporto Thomson sui
problemi regionali della comunità allargata (9 paesi) confermava l’esistenza di ampie
disparità regionali valutandole sulla base di tre criteri: reddito pro capite, disoccupazione
ed emigrazione netta. George Thomson era allora il membro della Commissione
incaricato della politica regionale.
22
Da lì a qualche anno, in occasione della Conferenza di Parigi
dell’ottobre del 1972, veniva assunto l’impegno di riconsiderare con più
attenzione le politiche interventiste, sia nei ruoli che negli strumenti,
suggerendo l’istituzione di un Fondo per lo sviluppo regionale da affiancare
all’azione già svolta dagli altri due fondi operanti all’interno delle
Comunità, ossia il Fondo sociale europeo
15
e il Fondo europeo di
orientamento e garanzia.
Nasce così nel marzo del 1975 il Fondo Europeo di Sviluppo
Regionale
16
con il compito di correggere i principali squilibri regionali
della comunità in particolare quelli risultati dalla prevalenza delle attività
agricole, delle trasformazioni industriali e da una sottoccupazione
strutturale e con esso prende corpo la valenza della politica regionale intesa
quale idoneo strumento di riequilibrio e sviluppo tra le diverse aree delle
Comunità.
Ma bisognava attendere ancora diverso tempo affinché la politica
strutturale divenisse punto cardine dell’Unione,
17
circostanza concretizzatasi
a seguito dell’adozione dell’Atto Unico che gettava le basi giuridiche di un
importante processo di riforma, con una rivisitazione completa dei principi
che fino a quel momento regolavano la materia.
18
La riforma nasce anche dall’avvertita esigenza di superare la natura
prevalentemente redistributiva dei fondi, secondo cui ogni stato membro
avrebbe beneficiato di contributi in relazione all’ammontare delle risorse
riversate nelle casse comunitarie, attraverso la definizione di obiettivi
15
Reg. (CEE) 9 del 6 maggio 1960
16
Reg. (CEE) n. 724/75
17
L’Atto Unico, entrato in vigore il 1° luglio del 1987, introduce un capitolo dedicato alla
politica comunitaria di coesione economica e sociale per controbilanciare gli effetti della
realizzazione del mercato interno sugli Stati membri meno sviluppati e per ridurre il
divario tra le diverse regioni.
18
I punti caratteristici di tale nuova architettura possono individuarsi nella previsione di un
coordinamento tra gli strumenti finanziari comunitari a disposizione, al fine di
ottimizzarne l’azione, valorizzandone i risultati, in base al quale ogni Stato membro
avrebbe dovuto redigere, per le regioni o zone in ritardo, un programma globale di
sviluppo alla cui attuazione avrebbero concorso congiuntamente sia i Fondi strutturali, sia
gli altri strumenti finanziari comunitari messi a disposizione dalla