5
la sua presenza finanziaria e strategica anche nel campo delle politiche regionali,
coerentemente con l’obiettivo, sancito dal preambolo del suo Trattato istitutivo
2
,
di promuovere una crescita armoniosa ed equilibrata del territorio comunitario.
Ed è proprio sotto l’egida della Comunità che la politica regionale subisce un
ulteriore rinnovamento sostanziale sul finire degli anni ’80, venendo indirizzata
al rafforzamento dei fattori di crescita endogeni agli stessi sistemi economici
regionali - le infrastrutture tecniche e sociali e i capitali umani e materiali - che,
se adeguatamente potenziati, possono rivelarsi in grado di innescare, nelle
regioni assistite, un processo autonomo di crescita.
In particolare, è il recupero produttivo delle regioni in ritardo di sviluppo ad
acquisire, nel tempo, una rilevanza sempre maggiore, nella consapevolezza che
tale obiettivo non riveste un significato esclusivamente sociale, politico o
culturale. Il persistente sottosviluppo di alcune aree geografiche all’interno di un
paese, infatti, implica un mancato utilizzo di risorse che riduce inevitabilmente
anche le possibilità future di sviluppo economico.
Questa “terza generazione” di politiche regionali, mirando al rafforzamento dei
fattori strutturali dell’economia, riescono pertanto a coniugare, in una prospettiva
di lungo periodo, il principio dell’equità a quello dell’efficienza economica. Esse
ricoprono, dunque, un ruolo di rilevanza decisiva tanto ai fini sociali quanto nei
confronti delle potenzialità di crescita di un paese.
In ambito europeo, in particolare, è essenziale che la politica regionale continui a
ricoprire una posizione di primo piano, dato l’elevato livello di integrazione
economica raggiunto, nel corso dell’ultimo decennio, dagli Stati membri della
Comunità europea.
Infatti, l’integrale abbattimento delle barriere tariffarie e non tariffarie ai fini del
completamento del Mercato Comune Europeo
3
, la sigla degli Accordi di
2
Trattasi del Trattato di Roma, siglato nel marzo del 1957.
3
Con l’adozione dell’Atto Unico Europeo (1987) si stabilì di procedere all’abbattimento di ogni residua
barriera tariffaria e all’eliminazione di ogni ostacolo di natura fisica, tecnica e fiscale, ai fini della
completa unificazione del mercato europeo, da realizzarsi entro il 1992.
6
Maastricht e del “Patto di stabilità e di crescita”
4
, quindi la nascita dell’Unione
Economica e Monetaria hanno notevolmente limitato le facoltà, proprie delle
autorità politiche nazionali, di porre autonomamente in atto interventi correttivi
nei confronti dei fallimenti del mercato e degli shock competitivi che lo stesso
processo di integrazione contribuisce ad alimentare.
In secondo luogo, si consideri che la politica monetaria dell’Unione europea è
condotta, in condizioni di autonomia politica ed operativa
5
, dal Sistema delle
banche centrali europee che, essendosi posto come obiettivo prioritario il
mantenimento della stabilità dei prezzi
6
, ha precluso ogni spazio alla possibilità
che possano essere adottate manovre monetarie volte al sostegno della domanda
e dell’occupazione.
Inoltre, in assenza di un concreto coordinamento delle politiche fiscali a livello
comunitario, e in virtù della forte propensione all’importazione dei paesi membri
e dell’elevata intensità degli scambi commerciali intracomunitari, l’adozione di
una politica fiscale espansiva, da parte di uno solo dei paesi membri,
spiegherebbe i propri effetti asimmetricamente all’interno del territorio
comunitario, favorendo la crescita della domanda anche negli altri Stati europei,
ma gravando sul deficit del bilancio pubblico e della bilancia commerciale del
solo paese che la intraprende.
In virtù di queste considerazioni, risulta di fondamentale importanza l’istituzione
di politiche redistributive comuni.
La Comunità europea ha assunto, in questo ambito, un atteggiamento politico
responsabile e consapevole, nella misura in cui, contestualmente alla decisione di
4
Proposto dal Consiglio europeo di Dublino del 1996, e approvato dal Vertice di Amsterdam dell’anno
successivo, il “Patto di stabilità e di crescita” impone agli Stati membri di conseguire il pareggio dei
bilanci pubblici a partire dal 2002, confermando al 3% il limite massimo consentito nel rapporto tra
deficit e PIL, come già stabilito dagli Accordi di Maastricht per l’adesione all’Unione economica e
monetaria.
5
Art. 108 del Trattato sull’Unione europea.
6
Nella riunione del 1998, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea, ha quantificato l’obiettivo
della stabilità dei prezzi, stabilito dall’art. 105 del Trattato UE, nel limite del 2% annuo dell’indice
armonizzato dei prezzi al consumo dei paesi membri.
7
procedere al completamento del mercato comune, ha notevolmente accresciuto la
quota delle risorse di bilancio destinate alle politiche regionali, e affinato i
meccanismi operativi necessari ad assicurare una efficace gestione dei Fondi di
solidarietà comunitari, ribattezzati, in virtù delle loro rinnovate finalità, come
Fondi strutturali.
Tuttavia, nella prospettiva dell’ormai prossimo allargamento dell’Unione
europea a dieci paesi candidati dell’Europa centro-orientale
7
, si sta attualmente
dibattendo attorno alla opportunità di riformare la politica regionale comunitaria,
e non mancano orientamenti favorevoli ad un ridimensionamento finanziario
della medesima.
L’obiettivo del presente lavoro è quello di stabilire se sussistono delle valide
ragioni alla base di questa domanda di riforma e, nel caso, individuare quali
particolari cambiamenti siano auspicabili ai fini di un efficace rinnovamento.
A tal fine, analizzeremo dapprima le conseguenze prodotte sui sistemi economici
regionali dai rapidi processi di liberalizzazione commerciale e di integrazione
economica in corso, in modo tale da determinare i fattori primari di sviluppo
regionale sui quali debba concentrarsi l’azione politica.
Quindi, restringendo l’attenzione all’ambito europeo, valuteremo se, e in quale
misura, l’attuale impostazione delle politiche regionali comunitarie si sia rivelata
finora in grado di promuovere, nelle regioni assistite, un processo di convergenza
sociale ed economica nei confronti del resto dell’Unione.
Analizzeremo, infine, le condizioni socioeconomiche e strutturali dei sistemi
economici dei paesi candidati, tentando di stabilire se il modello di sviluppo che
vi si è affermato all’indomani del crollo dei regimi socialisti, sia destinato ad
accentuare le disparità regionali, o al contrario, si caratterizzi per una equilibrata
7
Durante il Vertice di Copenaghen del dicembre scorso, infatti, sono stati conclusi i negoziati di adesione
con otto paesi candidati dell’Europa centro-orientale (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia,
Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania) e con le due isole mediterranee di Cipro e Malta che, secondo il
calendario previsto, dovrebbero aderire all’Unione europea il 1° maggio del 2004. Altri due paesi
dell’Europa orientale (Romania e Bulgaria) hanno avviato i negoziati di adesione con l’Unione, prevista
per il 2007.
8
diffusione delle attività economiche sul territorio. Lo scopo sarà quello di
prevedere quali conseguenze potrà sortire l’allargamento ad est sulla coesione
economica e sociale dell’Unione europea.
Pertanto, dedicheremo il capitolo I ad una trattazione teorica del problema delle
disparità regionali di sviluppo, ripercorrendo brevemente i contenuti e le
spiegazioni al riguardo offerte dalle principali teorie economiche.
Nel capitolo II, dopo aver sinteticamente reso conto degli squilibri economici
interregionali insistenti all’interno del territorio europeo, ricostruiremo il
percorso evolutivo seguito, in ambito comunitario, dalle politiche regionali,
illustrandone dettagliatamente principi ispiratori, meccanismi di funzionamento e
risultati conseguiti.
Al processo di allargamento ad est e alle sue ripercussioni, dirette ed indirette,
sulle disparità regionali dell’Unione verrà dedicato il capitolo III.
Nel IV capitolo valuteremo l’entità del costo aggiuntivo che graverebbe sul
bilancio dell’Unione europea in seguito all’ipotetica estensione ai paesi candidati
delle attuali misure di politica regionale comunitaria. Infine, concluderemo
illustrando le plausibili ipotesi di riforma delle politiche strutturali dell’Unione
europea.
9
CAPITOLO I
DISPARITÀ REGIONALI E PROCESSI DI INTEGRAZIONE
ECONOMICA: ASPETTI TEORICI
1.1. Il problema delle disparità regionali di sviluppo
Dall’osservazione della distribuzione geografica della popolazione e delle attività
economiche sul territorio di uno stesso paese è possibile notare come, accanto ad
aree economicamente evolute e dinamiche, densamente popolate e ben dotate di
infrastrutture sociali e produttive, ve ne siano altre che, oltre a versare in
condizioni di relativa arretratezza economico-strutturale, di degrado sociale o
ambientale, esibiscono tassi di crescita
1
più limitati rispetto alle prime.
Intendendosi per regione un’area geografica perfettamente integrata da un punto
di vista economico
2
(all’interno della quale, cioè, merci e fattori produttivi non
incontrano alcun tipo di barriera alla loro circolazione), le disparità territoriali
summenzionate hanno un carattere intraregionale, e lo scopo di questa prima
parte del capitolo è quello di individuarne, da un punto di vista teorico, le cause e
la probabile evoluzione. A tal fine, verranno brevemente richiamati i contenuti
1
Nel corso della trattazione ci si riferirà al termine di crescita intesa come aumento della ricchezza reale
della regione e dei suoi abitanti. Quello di sviluppo è un concetto più ampio, che oltre alla crescita
economica esprime un miglioramento generale nelle condizioni di vita delle popolazioni (livello culturale,
speranza di vita alla nascita, distribuzione della ricchezza, etc.).
2
Tuttavia, il territorio di uno Stato unitario (così come quello di una Federazione di Stati o di un’Unione
economica), pur rispondendo pienamente a tale definizione, è spesso suddiviso in sub-sistemi politico-
amministrativi di dimensioni più limitate, denominati, allo stesso modo, come regioni. Possono pertanto
sorgere degli equivoci a seconda che ci si riferisca all’una oppure all’altra definizione: così, ad esempio, il
Trattato costitutivo dell’Unione Europea parla di disparità regionali, quando quest’ultima costituisce,
invece, un’unica regione dal punto di vista economico (seppur nel caso ancora imperfettamente integrata,
dato che il “mercato unico” è stato completato solo da pochi anni). Per chiarezza espositiva, ribadiamo
che nel prosieguo della trattazione ci si riferirà a disparità intraregionali, seppur talvolta definite
semplicemente come regionali, o, facendo riferimento alla struttura amministrativa di uno Stato, anche
come interregionali.
10
di alcune delle principali dottrine economiche che, analizzando gli aspetti
geografici dello sviluppo economico di una regione, offrono diversi strumenti
interpretativi per la comprensione del fenomeno in parola.
Si inizierà dall’esame dei modelli tradizionali, storicamente elaborati dagli
economisti classici per identificare i benefici derivanti dal commercio
internazionale, che sono stati poi ripresi, perfezionati e formalizzati dal pensiero
economico neoclassico. Di questi, ne verrà criticata l’idoneità a spiegare la
disomogenea distribuzione geografica delle attività economiche sul territorio di
un paese, notando come l’elaborazione formale di modelli teorici determini una
rappresentazione spesso troppo semplificata dei sistemi economici: ne derivano
palesi incongruenze con il loro reale funzionamento e limiti interpretativi che si
traducono però in utili indicazioni per l’ulteriore sviluppo della teoria.
Concluderemo individuando nella letteratura legata alla “Nuova Geografia
Economica” una più realistica e plausibile giustificazione teorica per i fenomeni
di agglomerazione e di polarizzazione dello sviluppo secondo quel modello di
tipo “nucleo-periferia”, che caratterizza la distribuzione delle attività economiche
sul territorio sia dei paesi avanzati che dei paesi in via di sviluppo.
11
1.2. Le teorie tradizionali
Nel modello di Ricardo-Torrens
3
, noto anche come modello dei vantaggi
comparati, le disparità territoriali in termini di sviluppo economico-produttivo
sono ricondotte alle diverse conoscenze tecnologiche di cui si dispone in
ciascuna area geografica. Si suppone, pertanto, che le tecnologie produttive non
siano equamente distribuite sul territorio, cosicché la produttività del lavoro
(unico fattore di produzione considerato nel modello) varia da regione a regione.
Il modello dimostra come, in un regime di concorrenza perfetta, pur in presenza
di un vantaggio assoluto (maggiore produttività in tutti i settori) di un’area
rispetto ad un’altra, è comunque desiderabile
4
che ciascuna di esse si specializzi
nella produzione delle merci in cui è relativamente più efficiente (per cui gode,
cioè, di un vantaggio comparato), per poi “trasformarne” la parte eccedente i
fabbisogni locali in beni prodotti da altre regioni mediante un interscambio
commerciale, accrescendo così il benessere complessivo delle società.
La teoria neoclassica ha successivamente ripreso il concetto ricardiano dei
vantaggi comparati, estendendone però il contenuto: essi possono originare, oltre
che da disparità di tipo tecnologico, anche dalla diversa dotazione fattoriale che
caratterizza ogni regione. È in particolare il teorema di Heckscher
5
e Ohlin a
costituire il paradigma della concezione neoclassica della specializzazione
produttiva interregionale
6
: esso dimostra che in un contesto di concorrenza
perfetta e di libero scambio
7
, ciascun paese esporta il prodotto che impiega più
intensivamente rispetto agli altri, il fattore produttivo che è in esso relativamente
più abbondante.
3
Dal nome dei due noti economisti a cui si attribuisce la paternità della teoria: David Ricardo (1772-
1823) e Robert Torrens (1780-1864).
4
Il modello dimostra infatti che il libero scambio non è mai inferiore alla situazione autarchica.
5
Heckscher (1933).
6
Anche in questo modello si tratta di commercio interregionale, in quanto i fattori produttivi si ipotizzano
mobili intersettorialmente ma non geograficamente.
7
Le ipotesi del modello non considerano nemmeno i costi di trasporto; le funzioni di produzione e le
preferenze dei consumatori sono ipotizzate essere uguali nei diversi paesi: a parità di tecnologie
disponibili, questo significa che i fattori produttivi sono impiegati secondo lo stesso rapporto e i beni
consumati nelle stesse proporzioni.
12
Questo significa che, nonostante le tecnologie produttive disponibili siano le
stesse, ciascun paese intraprende un sentiero di specializzazione a seconda delle
proprie caratteristiche fattoriali.
A questo punto, occorre chiedersi in che misura possano rivelarsi utili per la
comprensione delle difformità di sviluppo intranazionali, modelli invece
concepiti per l’analisi del commercio internazionale (essi ipotizzano, infatti, che i
fattori di produzione siano mobili intersettorialmente ma non geograficamente).
Pur ammettendo che all’interno di uno stesso paese possano emergere, così come
a livello internazionale, disparità tecnologiche o fattoriali tali da differenziare
geograficamente la produttività del lavoro
8
, una tale condizione non è destinata a
perdurare nel tempo, date le stesse ipotesi del modello neoclassico: diverse
dotazioni di capitale, forza lavoro o livello tecnologico potrebbero generare,
infatti, dislivelli intraregionali di crescita solo nel breve periodo, poiché
nell’ambito di un sistema economico integrato, come quello di una regione, il
livello di offerta dei fattori dipende, oltre che dalle dotazioni proprie, anche dai
relativi spostamenti intraregionali. Capitale e forza lavoro affluiranno, infatti,
laddove maggiore è la loro remunerazione, così che il primo si muoverà verso le
aree a basso livello salariale e in direzione opposta il secondo, conducendo il
sistema ad una condizione di sviluppo territorialmente equilibrato.
Il paradigma neoclassico deve assumere, invece, che i fattori produttivi siano
interregionalmente immobili, altrimenti verrebbe meno la stessa “abbondanza
fattoriale regionale” su cui fonda la propria analisi. In un contesto interregionale,
una tale ipotesi è in parte ammissibile per alcuni fattori (materie prime), ma
totalmente irragionevole per altri (per i capitali e, almeno in parte, per il lavoro).
L’unica spiegazione che le teorie tradizionali possono allora offrire al fenomeno
della disomogenea distribuzione intraregionale delle attività economiche riguarda
8
L’evidenza dimostra, infatti, che le conoscenze tecnologiche si diffondono molto rapidamente;
ciononostante la struttura socioeconomica che deve recepirle per renderle produttive, può richiedere tempi
aggiuntivi per l’acquisizione delle competenze necessarie allo scopo.
13
le diverse caratteristiche morfologiche (clima, terreni, ossia fattori produttivi che
rispondo al requisito dell’immobilità spaziale) di ciascuna area geografica: è,
quindi, la stessa disomogeneità territoriale dello spazio fisico, ad essere
all’origine di quella dello spazio economico. Simmetricamente, all’interno di una
regione uniforme per caratteristiche fisiche e geografiche non dovrebbero
emergere disparità intraregionali di sviluppo.
Le conclusioni non cambiano neanche “migliorando” le ipotesi neoclassiche
mediante l’introduzione dei costi di trasporto nell’attività di scambio
commerciale: in questo caso, infatti, allo scopo di minimizzare i costi, le imprese
tenderebbero a servire i mercati locali, stabilendosi, per evitare pressioni
concorrenziali che ne riducano i profitti, proprio nelle aree meno ricche di attività
produttive, promovendo, così, una diffusione equilibrata delle imprese sul
territorio.
La teoria economica tradizionale, basata su ipotesi di concorrenza perfetta,
perfetta flessibilità dei prezzi e rendimenti di scala costanti non è, pertanto, in
grado di spiegare perché le attività economiche tendano ad agglomerarsi, tanto
meno perché regioni originariamente simili in quanto a dotazioni fattoriali
possano poi conoscere uno sviluppo economico-produttivo tanto diverso.
Una teoria economica più recente che riprende in considerazione la teoria dei
vantaggi comparati per spiegare la polarizzazione dello sviluppo economico
intraregionale, è quella dell’export-base approach
9
, in base alla quale la domanda
mondiale, ad esempio per una specifica risorsa naturale, determina l’iniziale
sviluppo delle regioni che più ne dispongono: essendo la regione un sistema
libero da restrizioni commerciali (almeno all’interno dei confini nazionali),
questa può specializzarsi nella produzione di quei beni che sfruttano più
intensivamente il fattore che è in essa più abbondante, per ricavarne benefici
tramite il commercio interregionale, in linea con quanto dimostrato dal teorema
9
Innis (1920)
14
Heckscher-Ohlin. La distribuzione geografica delle risorse naturali, quindi, può
in certi casi spiegare i differenziali di crescita economica regionale: l’abbondanza
di fattori produttivi immobili (quali appunto le risorse naturali) stimola l’iniziale
sviluppo della regione, che a sua volta vi attrae fattori produttivi “mobili”, quali
il capitale e la forza lavoro, determinando una crescita progressiva di attività
economiche ausiliari, volte al soddisfacimento dei bisogni di un sistema
produttivo e di una popolazione in espansione.
È però evidente la dipendenza del processo di sviluppo dai quantitativi
disponibili del fattore richiesto e dall’andamento della domanda mondiale dei
prodotti regionali. Ed essendo quest’ultima una variabile esogena al modello,
questo non offre che una mera descrizione dello sviluppo storico di regioni ricche
di materie prime senza fornire una spiegazione generalmente valida dei
differenziali di sviluppo regionali.
1.2.1. Le origini degli squilibri economici regionali e i limiti delle teorie
economiche tradizionali nella comprensione del fenomeno
Date le ipotesi della teoria economica neoclassica, la libera concorrenza e la
perfetta mobilità dei capitali e della forza lavoro, determinano, a livello
nazionale, un progressivo livellamento dei rendimenti dei fattori di produzione,
cosicché le forze di mercato sono autonomamente in grado di condurre ad un
processo di sviluppo territorialmente omogeneo. Ma le condizioni assunte dalla
teoria non sussistono nella realtà: rigidità, imperfezioni e fallimenti del mercato,
e, soprattutto, la presenza di economie di scala, provocano, al contrario, un
progressivo aumento dei gap territoriali.
Innanzitutto, evidenze empiriche mostrano che la mobilità del fattore lavoro è
molto più limitata di quanto teoricamente ipotizzabile: ne è un chiaro esempio la
presenza nel territorio di uno stesso paese di zone ad alti tassi si disoccupazione e
di altre che invece lamentano carenze di forza lavoro.
15
Il fatto che il fattore lavoro non risulti così sensibile ai differenziali salariali o di
livello di disoccupazione prova che il mercato del lavoro è geograficamente
segmentato. Ciò è dovuto al fatto che i differenziali salariali non possono
riflettere le effettive differenze di produttività del lavoro nelle diverse regioni, a
causa della contrattazione collettiva dei salari
10
, centralizzata a livello nazionale.
Tale rigidità - verso il basso - genera maggiore disoccupazione in tutte le
situazioni di eccesso di offerta di lavoro. A ciò si aggiunga l’esistenza di forme di
sostegno economico a favore dei disoccupati che ne scoraggiano la mobilità.
Al contrario di quanto assunto dalla teoria, l’emigrazione ha inoltre dei costi -
pecuniari e psicologici - né vi è sempre perfetta informazione sulle possibilità
occupazionali e sulle condizioni remunerative vigenti in altre regioni. Inoltre i
movimenti migratori anziché riequilibrare le differenze regionali di livello
salariali e di tasso di disoccupazione, finiscono per avere un effetto del tutto
opposto nel lungo periodo: poiché è la componente più giovane, abile e
specializzata della popolazione ad essere la più disponibile a spostarsi in cerca di
possibilità occupazionali, la migrazione di manodopera produce sì una maggior
concentrazione di individui nelle aree più sviluppate - e conseguentemente una
più equa distribuzione pro capite della ricchezza a livello regionale - ma può
determinare un ulteriore declino delle regioni arretrate, in cui verosimilmente
rimangono i lavoratori più anziani e meno produttivi, accentuandosi così lo
svantaggio competitivo originario
11
.
In secondo luogo, l’afflusso di immigrati accresce la domanda di beni e servizi
(effetto di dimensione del mercato), generando, mediante un’espansione del
livello di spesa (con i conseguenti effetti moltiplicativi), un’ulteriore crescita
della domanda di lavoro e quindi maggiore sviluppo proprio nelle regioni, di già
più prospere, in cui si sono stabiliti.
10
L’art. 39 della Costituzione Italiana, che sancisce la libertà dell’organizzazione sindacale, prevede
infatti che “…i sindacati…possono…stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per
tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”
11
Salassa B. (1975).
16
Le ipotesi di perfetta informazione e possibilità di movimento a costo zero,
invece, sono sicuramente più adeguate per il fattore capitale. Ciononostante
anche qui la teoria neoclassica mostra i suoi limiti: il rendimento dei capitali non
dipende esclusivamente dal livello dei salari reali da corrispondere ai lavoratori,
ma anche da altre voci di costo. Per questo motivo è possibile che tale fattore si
muova non verso le regioni a basso salario, bensì in direzione delle aree
economicamente più evolute, in grado di offrire esternalità positive, pecuniarie o
tecnologiche, ossia condizioni operative che garantiscano una elevata
remunerazione agli investimenti (prossimità ai mercati finali, economie esterne,
manodopera qualificata, accesso alle innovazioni tecnologiche, etc.).
Sono inoltre presenti delle rigidità in specifici mercati: nelle aree ad alta
concentrazione industriale monosettoriale (tipicamente tessile, metallurgico,
cantieristico o minerario) ad esempio, rigidità salariali e sistema di prezzi
amministrati comportano, nelle situazioni di disequilibrio, aggiustamenti
esclusivamente quantitativi - almeno nel breve periodo - da cui derivano
situazioni di crescente declino. Viceversa, le stesse aree sono le più favorite nei
periodi di espansione economica: la concentrazione geografica di impianti di uno
stesso settore, e i loro rapporti reciproci, generano economie di localizzazione
derivanti dal maggior grado di specializzazione, e quindi di efficienza produttiva,
attraendo nell’area nuovi investimenti.
Un simile meccanismo gravitazionale opera anche per i centri urbani più evoluti,
dove una serie di fattori creano le condizioni più favorevoli ai nuovi insediamenti
industriali: reperibilità della manodopera, concentrazione di attività economiche,
finanziarie e commerciali, adeguata presenza di infrastrutture, servizi di trasporto
e la prossimità dei mercati finali, permettono di realizzare rilevanti economie
esterne, definite appunto come economie da agglomerazione.
17
In condizioni di libero mercato, dunque, la crescita dell’economia nazionale nel
suo complesso non costituisce affatto una condizione sufficiente a garantire uno
sviluppo economico territorialmente equilibrato; al contrario, essa si concentra
nei “poli di sviluppo”, ossia nelle aree in grado di fornire vantaggiose economie,
esterne ed interne, ai nuovi investimenti.
A causa dell’imperfetta mobilità dei fattori e delle rigidità presenti nel mercato
del lavoro (e, seppur meno frequentemente, nei mercati di beni e servizi), da una
parte, e delle economie di scala, di localizzazione e di agglomerazione dall’altra,
la crescita economica genera quindi un processo di polarizzazione intranazionale,
in cui le aree maggiormente sviluppate crescono più velocemente e a scapito
delle altre che, non disponendo delle condizioni necessarie per attrarre gli
investimenti necessari per il loro stesso sviluppo, sono condannate ad una
condizione di persistente arretratezza.
Tale viziosa spirale evolutiva non è neppure esente dal produrre guasti all’interno
degli stessi poli di sviluppo: le economie d’agglomerazione offerte dai centri più
evoluti, causano una concentrazione demografica e produttiva eccessiva,
provocando tipici problemi urbani (con i danni economici e sociali che ne
derivano) quali l’inquinamento acustico e atmosferico, la congestione nei
trasporti, la sovrappopolazione, etc.: i crescenti costi sociali legati a tali
esternalità negative determinano una discrepanza tra ottimo di mercato e ottimo
sociale. Ci troviamo dunque di fronte ad un fallimento del mercato, con la perdita
di benessere e l’inefficiente allocazione delle risorse che ne derivano.
Se ne può concludere che, in condizioni di libero mercato:
- si creano situazioni di sottoccupazione delle risorse produttive nelle
aree arretrate e in declino industriale;
- le disparità regionali tendono ad autoalimentarsi, approfondendosi
progressivamente;
- l’allocazione territoriale delle risorse non è ottimale.
18
Le considerazioni appena svolte sono rintracciabili nella letteratura economica
già a partire dagli anni ’50. Tuttavia, tali teorie non poterono per un lungo
periodo ottenere una formalizzazione anche matematico-quantitativa, a causa
della indisponibilità di modelli teorici che descrivessero le imperfezioni del
mercato su cui esse pur si basavano.