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Introduzione
Non esiste una teoria che soddisfi i diversi paradigmi sulla salute mentale,
bensì leggi regionali che attuano le disposizioni della Legge n. 180/78 cosiddetta
Legge Basaglia, precursore dell’attivazione dei servizi socio-assistenziali territoriali
in questo campo.
In Italia i principi della Legge Basaglia sono stati recepiti ed osservati in modo
diverso a seconda del territorio che li ha messi in atto. La presente tesi parte da un
excursus storico a livello normativo sulla Salute Mentale per approdare alla
Psichiatria di Comunità, esaminata secondo i dettami del pionieristico studioso
Maxwell Jones fino a definire il lavoro sociale di rete. Esso dovrebbe essere
implementato in ciascuna regione del nostro paese per realizzare i servizi socio-
sanitari e psico-riabilitativi nelle strutture residenziali e semi-residenziali territoriali.
L’ultimo capitolo esamina il caso empirico studiato dalla sottoscritta
rappresentante la realizzazione di un Servizio psico-sociale territoriale secondo
l’approccio di welfare community. Questo studio nasce dall’esperienza personale di
vita come volontaria dell’associazione Psychè che, grazie alla legge n. 26 del 2006
della regione Puglia, co-gestisce il suddetto servizio nel Centro Diurno di
Manfredonia con l’ASL di Foggia.
Questa tesi illustra le contraddizioni del nostro paese che non è ancora riuscito
a realizzare pienamente, a trent’anni dalla L. 180/78, i servizi pisco-riabilitativi
territoriali e ha delegato a costose Case di Cura private l’assistenza dei disagiati
mentali senza seguire una continuità terapeutica, determinando quindi la
cronicizzazione della malattia psichica.
Gli amministratori locali devono sforzarsi di realizzare sufficienti strutture
territoriali capaci di soddisfare le numerose richieste attinenti al disagio mentale per
costruire le fondamenta reali per una Salute Mentale che guardi il disagiato mentale
come cittadino che soffre di una malattia curabile.
Ciò sarà fattibile qualora si diffonda e si sviluppi sul territorio la “cultura del
lavoro sociale di rete”, inglobando risorse formali (le istituzioni) ed informali (il terzo
settore) in grado di garantire il benessere bio-psico-sociale ai cittadini affetti da
qualsiasi forma di disagio restituendogli la dignità umana.
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CAP. I. EVOLUZIONE DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA
1.1 Excursus storico:
Fin dagli albori dell’umanità si è presentato il problema di come spiegare le
diversità e le anomalie nel sentire e nell’agire degli individui. A queste diversità e
anomalie veniva data una lettura che attingeva dalle conoscenze e dalle credenze
magiche e religiose.
Solo nel 400 a.C., con Ippocrate, il disturbo mentale trova collocazione nella
sfera della medicina. Scrive Ippocrate nella sua opera “Sulla malattia sacra
1
”:"… gli
uomini devono sapere che il piacere, la letizia, il riso, gli scherzi e così pure il dolore,
la pena, l’afflizione ed il pianto, da nessuna parte ci provengono se non dal cervello.
E sempre per opera sua diventiamo folli ed usciamo di senno ed abbiamo incubi e
terrori e, talvolta di notte, talvolta anche durante il giorno, soffriamo di sogni e di
smarrimenti ingiustificati e di preoccupazioni infondate e siamo incapaci di
riconoscere le cose solite che ci appaiono e ci sentiamo sprovveduti".
Con Ippocrate si afferma quindi una visione olistica dell’uomo, considerato
come anima e corpo.
La sua Teoria Umorale rappresenta il più antico tentativo, nel mondo
occidentale, di ipotizzare una spiegazione eziologica dell'insorgenza delle malattie,
superando la concezione superstiziosa, magica o religiosa.
Ippocrate tentò di applicare tale teoria alla natura umana, definendo l'esistenza
di quattro umori: Bile Nera, Bile Gialla, Sangue e Flegma. L'acqua corrisponderebbe
alla flegma che ha sede nella testa, la terra corrisponderebbe alla bile nera (in greco
Melàine Chole) che ha sede nella milza, il fuoco alla bile gialla (detta anche collera)
che ha sede nel fegato, l'aria al sangue la cui sede è il cuore.
Il buon funzionamento dell'organismo dipenderebbe dall'equilibrio degli
elementi per cui il prevalere dell'uno o dell'altro causerebbe una malattia.
1
Tratto dagli scritti di Ippocrate sulla “Malattia sacra” confluiti nella raccolta “Corpus hippocraticum”, Marsilio,1996
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Oltre ad essere una teoria eziologica della malattia la teoria umorale è una
teoria della personalità in quanto la predisposizione all'eccesso di uno dei quattro
umori definirebbe un carattere, un temperamento e insieme una costituzione fisica:
• il flemmatico: grasso, lento, pigro e sciocco;
• il melanconico: magro, debole, pallido, avaro, triste;
• il collerico: magro, asciutto, di bel colore, irascibile, permaloso, furbo,
generoso e superbo,
• il sanguigno: rubicondo, gioviale, allegro, goloso e dedito ad una
sessualità giocosa
Delle teorie ippocratiche sopravvivono ampie tracce anche nel linguaggio
moderno. Il cuore è comunemente indicato come la sede dei sentimenti e in
particolare dell'amore; malinconia è un sentimento di tristezza ed anche una grave
forma di depressione; collera e flemma descrivono ancora irascibilità e pigrizia; il
collerico "si mangia il fegato" oppure "è giallo dalla rabbia" (l'ittero è sintomo di
malattia epatica caratterizzata dalla colorazione giallognola).
La medicina dell’antica Roma mantiene inizialmente l’interesse per la malattia
mentale che però verrà poi contaminata dalla visione religiosa dell’uomo e
dall’affermarsi della demonologia.
In questi anni si sviluppano anche alcune idee quali il legame causale tra fattori
esterni e psicosi che tuttavia erano destinate a restare sullo sfondo di interpretazioni
irrazionali e riduzionistiche.
Nel Medioevo l'interpretazione predominante della malattia mentale resta
l’essere posseduti da parte di spiriti malvagi o dal diavolo, l’avere una morale debole
o l’essere sottoposti al castigo divino. Le donne affette da qualche disturbo venivano
frequentemente accusate di stregoneria e condotte sul rogo. Già compaiono i primi
istituti di ricovero a Bergamo, Firenze, Roma, Padova e Milano dove, a partire dal
1448, venivano tenuti sulla nuda paglia e spesso incatenati: “tocchi, mattocchi,
matochine, tarlucchi, balzani, balordi, spiritati, merloche, matterelli”.(Pontozzi, 1994,
pag 20).
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Questi ricoverati si presentavano in difficoltà sociali o economiche ed
arrecavano danno o fastidio alla società “normale”. Venivano accolti e ospitati in
modo aspecifico, ovvero senza considerazione delle diversità di età, sesso,
patologia e comportamenti, e trattati, ugualmente in modo aspecifico, ovvero
sostanzialmente sorvegliati e a volte anche puniti. L’unica attenzione di carattere
sanitario veniva posta relativamente alla qualità degli ambienti che si
caratterizzavano per le ampie finestre, l’altezza delle volte e i grandi cortili
Queste costruzioni dovevano infatti favorire l’aerazione degli ambienti
rispondendo all’idea popolare che gli spazi aperti avrebbero favorito la dispersione
della malattia ed evitato il contagio.
Con l’avvento dell’illuminismo si sviluppa un pensiero critico che permette
l’apertura alla tecnica, all’osservazione mirata, alla sperimentazione, alla scienza e
ai diritti umani.
Lo scontro con la religione, che aveva dominato il pensiero e la cultura fino a
quel momento, porta gli uomini a porsi nuove domande e a cercare nuove risposte
sull’esistenza. La malattia mentale non è più legata al peccato, si comincia a capire
che si tratta di sofferenza umana e/o patologia organica.
Si rimette l’uomo al centro del problema vedendolo come anima e corpo nella
sua interezza, nella sua realtà, con le sue emozioni e come persona inserita in una
dimensione sociale.
Nel 1793, in piena rivoluzione francese, un giovane medico che lavorava al
manicomio di Bicetre, Philippe Pinel, sfida i politici liberando i pazienti dalle catene
che li trattenevano. “Ah! cittadino, ruggì il comunardo rivolgendosi a Pinel, sei tu
stesso folle se vuoi liberare dalle catene dei simili anormali?”. Pinel gli rispose con
calma “Cittadino, ho la convinzione che questi alienati sono così intrattabili solo
perchè li si priva dell'aria e della libertà” Ebbene! fa di loro ciò che vorrai, ma temo
che tu sia vittima della tua presunzione”. (Pontozzi, 1994, pag. 38).
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Pinel il presuntuoso spezzò le catene, e inaugurò nuove modalità per trattare i
malati. Il suo grande successo lo portò solo due anni dopo a dirigere il grande
manicomio parigino La Salpetriere, vasto complesso edilizio già deposito del sale
prima di divenire ospizio per i “folli”.
Liberando i malati dalle catene Pinel oltre a difenderne la dignità, ha affermato
l’idea che l’alienato è: un uomo malato non un uomo reprobo ed è curabile da altri
uomini attraverso la comprensione delle sue ragioni e l’educazione dei suoi
comportamenti inaugurando così quella cura morale grande madre della
riabilitazione dei nostri giorni.
Trascorso un altro secolo, con il positivismo, possiamo assistere alla nascita
del manicomio di cura che sostituisce gli asili indifferenziati precedenti, e costituisce
un punto di non ritorno nel percorso di civiltà e innovazione della psichiatria. In Italia
tale modello resta praticamente immutato dal 1830 fino agli anni ’70 del secolo
successivo. I malati erano osservati in modo scientifico, curati sia con terapie fisiche
(shock elettrici o insulinici) che con presidi farmacologici (gli psicofarmaci furono
introdotti nel 1953 con la nascita della clorpromazina) e ospitati in reparti differenziati
per patologie (alcolisti, dementi, agitati) e condizioni cliniche (acuzie, subacuzie,
cronicità).
Il principale presidio terapeutico era comunque rappresentato dall’istituzione
stessa, dove, in accordo con la cura morale pineliana, il malato trovava sicurezza e
ordine. L’organizzazione pedagogica prevedeva ritmi ben precisi e un inserimento
lavorativo ante litteram nelle varie occupazioni interne al manicomio come
coltivazioni agricole, attività nella fabbrica tessile e nei vari laboratori di produzione.
Sempre all’interno del perimetro della cittadella manicomiale erano presenti anche
aule scolastiche, spazi per giochi e sport, una chiesa e alcune cappelle, una
biblioteca fissa e così via fino al cimitero, appena dietro i padiglioni più lontano
dall’ingresso, tutto al prezzo della segregazione e dello stigma: il manicomio
diveniva ed era identificato come la “città dei folli”, destinata ad accogliere questa
umanità malata dalla culla alla bara, non pochi vi nascevano da madri ricoverate e
non pochi vi morivano. (Pontozzi,1994).
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Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 si inserisce il pensiero sociale e
psicologico nella visione dell’uomo e dunque anche della malattia. Si afferma un
paradigma che considera ogni individuo come unità biologica e spirituale, fino
all’affermarsi del modello bio-psico-sociale.
Nella seconda metà del ‘900, in Francia, con l’ospedale di settore, i padiglioni
ospedalieri vengono suddivisi non solo per tipologia del malato, ma in base alla
residenza di provenienza, ponendo così le basi per quella che si sarebbe
successivamente sviluppata in molti paesi, l’Italia in primis, come “psichiatria
territoriale o di comunità”, nella quale l’enfasi viene posta sull’equilibrio tra individuo
e contesto, benessere e diritti della salute individuale e della salute collettiva.
1.2 Evoluzione dell’assistenza psichiatrica in Italia
La storia della psichiatria di ogni paese è molto legata alla sua realtà storica e
politica. Fondamentale in Francia è stato il movimento di estrema sinistra degli anni
’70, movimento come è noto supportato anche da molti filosofi, sociologi e letterati
interessati anche alla sofferenza psichica, alla devianza ed all’esclusione sociale.
Da questo movimento, si svilupparono le prime idee antipsichiatriche e socio-
psichiatriche che avrebbero trovato il loro apice nelle esperienze italiane di Trieste e
di Arezzo.
La riflessione sull’istituzione psichiatrica in Italia inizia con il 1860, quando
raggiunta l’unità nazionale, si cerca di superare le divisioni delle politiche sull’area
della medicina mentale dovuta al frazionamento del territorio in differenti Stati.
Negli ultimi 40 anni del 1800 la politica Italiana era rappresentata da uomini
importanti e sensibili all’area psichiatrica come Livi e Verga e nel 1870 si inizia a
regolamentare la materia della salute mentale. Grazie ai documenti delle Gazzette
Ufficiali del Regno d’Italia, sappiamo che per circa 80 anni ci fu un periodo fervido di
dibattito e di proposte di legge per uniformare la normativa di assistenza dei malati
di mente.
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Prima dell’Unificazione, solo Giolitti, nel Regno di Toscana, aveva approvato
una normativa sui disturbi mentali e l’Ospedale di Reggio Emilia, struttura avviata da
Livi ed ancora esistente, applicava la terapia morale.
Nel 1870 inizia dunque una lunga operazione di carattere legislativo che porta
all’emanazione di una legge, approvata nel 1904, che assorbiva tutte le normative
locali in un unico quadro nazionale. (Pontozzi, 1994).
Con la legge Giolitti del 1904 si realizza in Italia in maniera organica un modello
di assistenza psichiatrica, ovviamente ancora fondato sull’istituzione manicomiale,
ma decisamente innovativo per quei tempi.
Al fine di arginare le altre proposte di legge da parte dei deputati e per facilitare
l’approvazione della sua legge, Giolitti presenta prima una legge quadro dove lo
scontro di base si esprime essenzialmente su chi dovesse avere la gestione del
potere medico e chi dovesse pagare le prestazioni sanitarie.
La legge proposta da Giolitti demandava alle amministrazioni provinciali la cura
del paziente. Questa legge è fortemente garantista nei confronti del malato pur
essendo orientata soprattutto a proteggere la società dal malato mentale stesso.
Nel testo si parla infatti di protezione della società e si propongono delle
limitazioni alla libertà del malato, affermando i concetti di “pericolosità sociale e di
pubblico scandalo”.
La legge Giolitti n. 36/1904 attribuisce al manicomio la funzione di luogo di
custodia e di cura della malattia mentale. L’art. 1, c.1 continua sostenendo che “Le
persone affette per qualunque causa da alienazione mentale sono custodite in
questi luoghi di cura quando siano pericolose a sé e agli altri ed il loro
comportamento risulti essere di pubblico scandalo”.
Il concetto di pubblico scandalo si riferiva, in particolare, all’esibizione di nudità
e di atti osceni in pubblico e nell’ambiente domestico.
Tale elaborazione non tiene in considerazione l’evoluzione culturale del
periodo. Si era già consapevoli che il modello di assistenza basato sull’ospedale
psichiatrico era anacronistico rispetto al resto dell’Europa e al Nord America.
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Il limite di tale legge sarà proprio quello di affermare norme rigide e non
scalfibili che bloccheranno in ambito legislativo l’elaborazione e l’applicazione di
riforme legate all’evoluzione socio-culturale del pensiero.
Si affermano i manicomi come realtà immutabili che non cambiano anche se la
realtà sociale nella quale sono immersi si trasforma.
L’ospedale psichiatrico ha dunque caratteristiche organizzative, strutturali e
relazionali (rapporto medico- infermiere- paziente) particolari e assai diverse da
quelle dell’ospedale generale.
Anche a livello universitario la psichiatria sembrava essere un mondo a parte.
Solo nel 1930 si uniscono gli studi di neurologia con quelli di psichiatria, ma
bisognerà attendere il 1976 perché Carlo Cazzullo riuscisse a far legiferare la
autonomizzazione della psichiatria e fondare a Milano la prima cattedra di psichiatria
in Italia.
Negli anni sessanta essere ricoverato nell’ospedale psichiatrico comportava
l’iscrizione nel Casellario Giudiziario e conseguentemente la perdita dei diritti
fondamentali e la possibilità di avere un pubblico impiego. Era come essere bollati
definitivamente come matti e pericolosi. Intanto si sviluppava la ricerca
farmacologica e il movimento anti-istituzionale.
Dopo la clorpromazina, capostipite degli antipsicotici, è la volta delle
benzodiazepine negli anni sessanta e degli antidepressivi nel decennio successivo.
L’introduzione degli psicofarmaci nella cura delle malattie mentali iniziava a
consentire trattamenti fuori dai manicomi, finché da Gorizia si sviluppò il movimento
guidato da Franco Basaglia che darà luogo a nuove radicali riforme in ambito di
assistenza psichiatrica destinate a collegare il mondo psichiatrico alla realtà sociale.
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1.3 La legge Giolitti n. 36 del 14 febbraio 1904
La Legge del 14 febbraio 1904, n.36, consta di alcuni punti salienti ed innovativi
per il momento storico in cui fu emanata:
- L’obbligo del ricovero. Era stabilito per tutti i malati che risultassero
pericolosi o scandalosi; l’obbligo era finalizzato per motivi di custodia, di
sicurezza e di cura. Per scandaloso si intendeva l’esibizione di nudità e di atti
osceni in pubblico;
- Il ricovero semi-volontario La legge prevedeva un ricovero provvisorio su
iniziativa del malato: cioè una persona maggiorenne, cosciente del proprio stato
di alienazione, poteva chiedere di esser accolto in manicomio. Il direttore
ricoverava questa persona in osservazione, sotto la propria responsabilità,
riferendone poi alla procura del re. Seguiva, poi, il decreto definitivo del
Tribunale. In questo caso, la volontà del malato si sostituiva agli atti
amministrativi provvisori del sindaco e del pretore non agli atti definitivi del
Tribunale.
- Gli obiettivi Essi erano la cura e la custodia per tutelare gli altri
cittadini dalla pericolosità, vera o presunta, del malato mentale. L’art. 2 della
legge afferma che l’ammissione al manicomio era effettuata “nell’interesse degli
infermi e della società”.
- I luoghi di cura Oltre al manicomio, la legge prevedeva altri istituti: i
reparti separati per mentecatti inguaribili (termine che all’inizio del novecento
indicava coloro che erano infermi di mente o pazzi), gli istituti per inguaribili o
tranquilli (questi istituti erano destinati a ricoverare gli inguaribili cioè coloro che
non si potevano né curare né guarire ma che si intendeva assistere e, nei limiti,
curare), le sezioni psichiatriche negli ospedali generali e le cliniche psichiatriche
universitarie che si limitavano solo all’osservazione dei malati.
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- I responsabili dei provvedimenti di ammissione ai manicomi erano:
- il medico che forniva la certificazione riguardante la pericolosità del
soggetto;
- il sindaco che aveva il compito di segnalare coloro che apparivano di
scandalo pubblico o erano pericolosi a sé e agli altri;
- il pretore che, con un provvedimento giudiziario, sanciva l’ammissione
del malato al manicomio;
- la procura del re che aveva il dovere di interdire d’ufficio ogni malato
ricoverato definitivamente.
- I mezzi coercitivi (lobotomia2, elettroshoc3, camicia di forza, legatura ed altro).
La legge affermava che dovevano essere aboliti o usati solo in casi di assoluta
eccezionalità, senza fornire alcun criterio per determinare il senso
dell’eccezionalità;
- L’isolamento Era utilizzato nei casi in cui il malato si agitasse il cui stato
potesse coinvolgere gli altri malati;
- L’iscrizione al casellario giudiziario Il casellario giudiziario era un registro,
presente in ogni Tribunale dove venivano trascritti, per ogni cittadino ricoverato in
manicomio, tutti i provvedimenti di ricovero.
- L’interdizione obbligatoria Ogni malato ricoverato in manicomio doveva esser
interdetto per iniziativa della procura del re. Il Tribunale, contestualmente
all’ordinanza di ricovero, nominava un rappresentante provvisorio dell’infermo
mentale il quale agiva fino alla nomina del tutore. L’interdizione durava fino alla
dimissione, con essa, il malato mentale, perdeva tutti i diritti civili e politici
compreso quello elettorale.
- L’obbligo di denuncia dei malati I medici privati erano obbligati a denunciare
alle autorità ogni loro cliente che dimostrasse o desse sospetto di essere
pericoloso.
2
Con il termine lobotomia si intendeva un intervento chirurgico che aveva lo scopo di interrompere le connessioni tra il talamo e il
lobo frontale. Questo intervento era usato nel trattamento di alcune malattie mentali.
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Nell’attuazione pratica di questa normativa avvennero, comunque, delle
distorsioni e degli abusi, legati ad interessi di tipo economico, ereditario e a volte
politico che peggiorarono, ulteriormente, le condizioni dei malati mentali. Così ad
esempio alcuni sindaci approfittarono del potere loro conferito dalla legge per
internare tutti coloro che potevano compromettere la tranquillità pubblica. Una parte
dei tribunali ordinarono l’inserimento dei “tranquilli” nei manicomi, poiché non erano
state create le strutture previste dalla legge per questi. Alcune procure del re
forzarono l’interpretazione della legge interdicendo anche coloro che avevano dei
provvedimenti di carattere provvisorio. Una parte dei medici, per interesse, non si
fecero scrupoli a falsificare i certificati necessari per il ricovero. Fu così che il
numero dei ricoverati assunse, oltre quanto previsto dalla legge, proporzioni
gigantesche.
Ciò fu dovuto, anche alla mancata creazione delle strutture di cura come istituti
per mentecatti, per inguaribili ed altro, da affiancare al manicomio, per cui le
istituzioni preposte ricoverarono in manicomio anche le persone con disturbi più
lievi.
Questo tipo di struttura manicomiale rimase sostanzialmente invariata fino al
secondo dopoguerra. Con la caduta dei regimi totalitari nazifascista e con l’entrata in
vigore della Costituzione, nel 1948, basata in ogni sua norma sul principio di libertà,
di eguaglianza e di rispetto dei diritti, la Legge n. 36 del 1904 mostrò i suoi limiti ed
iniziò ad esser criticata per i suoi contenuti contrari a tali valori.
Entrata in vigore la Costituzione repubblicana, la legge del 1904 apparve
espressione di un tempo ormai passato.
Negli anni 50 si ebbero i primi progetti di legge rivolti alla riforma dell’assistenza
psichiatrica. Fu, però, negli anni ‘60, sull’onda dei movimenti studenteschi culminati
con la contestazione del ‘68 che la critica al vecchio sistema manicomiale condusse
ad una revisione del sistema precedente concretizzatosi con la legge n. 431 del
1968. (Pontozzi, 1994).
3
Con il termine elettroshock si intendeva un metodo di cura di alcune malattie mentali che consisteva nell’applicare al cervello del
paziente correnti elettriche molto brevi, di voltaggio elevato e di bassa frequenza, in modo da provocare una specie di crisi
epilettica.
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