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è la Politica Industriale Comunitaria nel settore Tessile. Un settore - come
detto in precedenza - tradizionale, per l’Europa storicamente molto importante,
la cui caratteristica peculiare è una crisi profonda e diffusa, che lo affligge in
modo costante per tutta la seconda metà del secolo. Analizzeremo le cause di
questo declino, identificabili principalmente nelle pressioni concorrenziali
esterne, e analizzeremo le politiche ed i provvedimenti attraverso i quali hanno
cercato di porvi un freno le singole imprese, gli Stati, ma soprattutto la
Comunità Europea. Politiche riassumibili per gran parte in un solo concetto, il
protezionismo, attuato in tutte le sue forme e in tutti i suoi diversi gradi di
intensità.
Per meglio comprendere le diverse modalità di azione scelte e poste in
atto dalla Comunità Europea nei confronti dell’Industria Tessile utilizzeremo
come filo conduttore della nostra analisi la Politica Industriale comunitaria
nella sua connotazione più generale: attraverso una scansione per decenni
descriveremo il passaggio da una politica sostanzialmente debole e inefficace
ad una politica più forte e coordinata, così come da un approccio di tipo
passivo e negativo, cioè orientato principalmente ad un’azione di protezione e
di chiusura, ad uno maggiormente positivo e costruttivo, orientato alla
costruzione di un ambiente adatto all’apertura dei mercati ed alla competizione
internazionale. E vedremo come il settore Tessile rispecchi, anche se in misura
spesso ridotta e sempre con un certo ritardo, questa metamorfosi, passando da
un regime di elevatissima ed incontrollabile protezione verso l’esterno, basato
principalmente su accordi restrittivi, sistemi di quote sulle importazioni e
sussidi statali (e quindi in netto contrasto con i principi fondamentali della
Comunità), ad un regime di crescente liberalizzazione, soprattutto attraverso lo
smantellamento dell’Accordo Multifibre. Un processo difficile e graduale che è
tuttora in atto.
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INTRODUZIONE
- Una Politica Industriale Comunitaria: presupposti e problematiche
aggiunte.
A livello nazionale la Politica Industriale è da sempre al centro di un
costante dibattito. La questione fondamentale è, innanzitutto, quella di stabilire
se si tratti realmente di un’azione “economicamente necessaria”, e a quali
precise condizioni. La seconda questione è invece quella di stabilire l’entità e
le modalità della sua migliore attuazione. Per questo all’interno di ogni Stato
possiamo ritrovare, malgrado problemi simili, argomentazioni ed approcci
sempre diversi. Lo stesso dibattito si estende naturalmente anche a livello
Comunitario, ma ulteriormente problematico ed aggravato.
Per quanto riguarda l’opportunità o meno di una Politica Industriale vi
sono alcune argomentazioni che potremmo definire tradizionali a favore
dell’intervento: si tratta principalmente di argomentazioni economiche quali il
market failure (il fallimento di una struttura fondata sulle dinamiche del libero
mercato rende necessaria una regolamentazione dall’alto, da parte dello Stato),
la difesa delle cosiddette infant industries (le industrie poste al di sotto della
loro dimensione ottimale non usufruiscono delle necessarie infrastrutture
fisiche né delle necessarie opportunità finanziarie, e si pongono pertanto al di
sopra della loro potenziale curva dei costi medi di lungo periodo; un iniziale
sussidio può ovviare a queste difficoltà permettendo all’industria di
raggiungere la sua dimensione critica), la tutela dell’occupazione (sostenere le
industrie in crisi significa anche tutelarne i lavoratori, e quindi in generale il
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tasso d’impiego), il miglioramento della bilancia dei pagamenti (attraverso
politiche di import substitution ed export promotion). Non mancano poi
argomentazioni non-economiche quali ad esempio la “difesa nazionale”, cioè
l’importanza politica di acquisire un ruolo di nazione autosufficiente (El-Agraa
A.M.,1990).
Non valuteremo qui la minore o maggiore fondatezza di tali
argomentazioni. Ciò che invece ci interessa sottolineare è che tutti gli Stati
europei hanno sempre adottato, pur con presupposti diversi, una loro specifica
Politica Industriale nazionale (generalmente infatti viene accordata una
preferenza all’Industria rispetto agli altri settori dell’economia nazionale: la
sua grande rilevanza per la produzione, l’occupazione e la crescita lo rende in
pratica un settore ad alta priorità, e pertanto soggetto ad un trattamento
particolarmente attento), e che tali politiche nazionali si sono sempre rivelate
particolarmente eterogenee, con due estremi individuabili nel massiccio
interventismo della Francia e nell’approccio tendenzialmente liberistico della
Germania (Gowland D.-James S.,1991).
A livello Europeo, dunque, il problema della Politica Industriale non può
che accentuarsi. Si ripropone infatti, più ampio, lo stesso dibattito che abbiamo
visto a livello nazionale, con posizioni altamente contrastanti sia
sull’opportunità o meno di un intervento comune, sia sui relativi tempi e
modalità. Pertanto l’elemento assolutamente necessario per un’azione
propriamente comunitaria, cioè il consenso degli Stati, è risultato spesso - e
inizialmente per lungo tempo - proibitivo. Altri due fattori, poi, hanno reso
ancor più difficile la realizzazione di una Politica Industriale coordinata. Da un
lato la scarsa propensione da parte degli Stati a devolvere la competenza e
quindi il potere decisionale all’Europa in un settore economicamente
fondamentale e, come sottolineato in precedenza, politicamente strategico.
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Dall’altro lato la necessità di coordinare ed armonizzare la Politica Industriale
con le altre politiche comunitarie strettamente connesse, come ad esempio la
politica regionale: è facile intuire in proposito le pressioni esercitate dei singoli
Stati e le conseguenti, ulteriori difficoltà nel raggiungimento del consenso.
Tutto ciò spiega il discontinuo andamento della Politica Industriale
Europea, che conosce una costante evoluzione nella sua importanza
(inizialmente non riconosciuta), nella sua efficacia (sempre crescente),
nell’approccio generale (in continua “maturazione”) e nelle misure settoriali
specifiche (spesso - come nel caso del settore Tessile - contraddittorie).
- Le dinamiche della Politica Industriale Comunitaria: una classificazione
generale.
Per meglio comprendere questo processo di trasformazione, e dunque
prima di analizzare nel dettaglio le politiche Europee per il settore Tessile,
descriviamo brevemente la Politica Industriale in generale e ne operiamo una
classificazione.
L’intervento pubblico in materia di Politica Industriale può assumere
essenzialmente due connotazioni: “attiva” - nel senso che lo Stato mira a
disciplinare attivamente il settore, con misure specifiche, concedendo in tal
modo poco spazio alle dinamiche del libero mercato - oppure “passiva” - con
lo Stato impegnato, al contrario, a minimizzare il suo intervento diretto nel
settore limitandosi ad un ruolo di supervisore. Per quanto riguarda invece le
modalità dell’intervento pubblico, lo Stato può optare per un atteggiamento di
tipo “negativo”, cioè limitato essenzialmente al controllo ed alla restrizione,
vigilando su quelle azioni che rimangono comunque esclusive delle imprese,
oppure per un atteggiamento di tipo “positivo”, cioè costruttivo, talvolta mirato
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a soggetti o settori specifici.
Sulla base di tali variabili Jacobson e O’Callaghan (1996) individuano
quattro diverse tipologie di Politica Industriale, che qui elenchiamo in ordine di
“intensità”, e che - come vedremo - hanno costituito le tappe fondamentali
nell’evoluzione della Politica Industriale Comunitaria:
• passiva e negativa: è la Politica Industriale meno interventista, che
punta a migliorare la performance industriale semplicemente attraverso la
tutela di un ambiente macroeconomico favorevole. Lo Stato esercita una
funzione di controllo, di restrizione, di penalizzazione delle posizioni
dominanti, di regolazione dei monopoli. Si tratta dunque di un approccio
minimalista, nel quale l’unico intervento è costituito dalla proibizione di ciò
che è anticompetitivo (Politica della Competizione). E’ passivo poiché non
promuove alcuna azione industriale, ma al contrario aspetta che sia l’industria
ad agire; è negativo in quanto penalizza eventuali azioni proibite, senza
incoraggiarne alcuna. E’ la Politica Industriale delineata nei Trattati Istitutivi.
• passiva ma positiva: in questo caso si vuole principalmente creare un
ambiente economico favorevole: alla Politica di Competizione lo Stato
aggiunge una specifica politica fiscale e finanziaria, nonché una forte politica
di deregulation. Si tratta dunque di un approccio in cui l’intervento è costituito
dalla “costruzione” della competizione (e non più - come nel caso precedente -
dal semplice “divieto”). E’ passivo nel senso che non promuove alcuna
specifica azione industriale, non si rivolge né a particolari soggetti né a
particolari settori (l’azione spetta sempre all’industria). E’ positivo nel senso
che crea un determinato ambiente e favorisce quindi certe azioni.
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• attiva ma negativa: è la politica industriale più diffusa ed utilizzata, e
punta esclusivamente a proteggere l’industria nazionale dalle pressioni esterne:
lo Stato intraprende a tale proposito specifiche politiche commerciali difensive
(barriere tariffarie e non) e programmi di sostegno diretto (sussidi). Dunque un
intervento mirato alla tutela della propria economia industriale. E’ attivo in
quanto lo Stato agisce direttamente e concretamente, non si limita ad aspettare
l’azione dell’industria; è negativo in quanto mira a ridurre considerevolmente il
livello del libero mercato e il grado della competizione globale. E’ la politica
comunitaria tipica del settore Tessile e, il generale, degli anni Sessanta e
Settanta.
• attiva e positiva: è caratterizzata da un sostegno all’industria attivo e
concreto: lo Stato intraprende apposite politiche (le cosiddette misure
orizzontali), con le quali coordina i settori, fornisce loro informazioni,
promuove programmi di sviluppo. Tale approccio è particolarmente attivo vista
la mole di provvedimenti di cui lo Stato si grava, ed è allo stesso tempo
positivo in quanto il sostegno all’industria non avviene intaccando la libera
competizione ma agevolando direttamente il progresso e l’acquisto di
competitività dell’industria stessa. E’ la politica comunitaria, anche per il
Tessile, degli anni Ottanta e Novanta.
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CAPITOLO 1
GLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA: L’ASSENZA DI UNA
POLITICA INDUSTRIALE COMUNITARIA. LA CRISI
DELL’INDUSTRIA TESSILE E GLI ACCORDI
PROTEZIONISTICI ALL’INTERNO DEL GATT.
1.1 - La Politica Industriale nei Trattati Istitutivi: un approccio
minimalista.
Nel Trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità Economica
Europea, sono assenti esplicite provvisioni in materia di Politica Industriale.
Non si tratta di una dimenticanza, ma di un chiaro limite posto dai governi
nazionali al ruolo e ai poteri della Comunità stessa. In questo periodo la
concezione delle politiche pubbliche, ed in particolare della Politica
Industriale, è prevalentemente quella di derivazione francese - cioè di tipo
“costruttivistico” (Bianchi P.,1995) - che noi abbiamo classificato nella nostra
introduzione come “attiva e negativa”: un intervento forte da parte dello Stato
centrale, che protegge e sostiene la propria industria al fine di rendere il paese
indipendente economicamente e forte politicamente. Proprio alla luce di questa
duplice valenza, il governo dell’industria viene ritenuto esclusivamente materia
di pertinenza politica nazionale: nessuno Stato accetta infatti l’idea di
devolvere il suo potere decisionale ad un’autorità centrale vincolante, e
l’istituzione di un organismo comune di governo può essere concepita solo ed
esclusivamente nel caso in cui emergano pericolosi conflitti economici e
politici tra gli Stati. Un’ipotesi questa che si era già verificata in precedenza,
con il Trattato della CECA: esso infatti, a differenza del Trattato di Roma,
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definiva una comune azione in materia industriale. Si era ritenuto infatti che
carbone ed acciaio fossero talmente rilevanti dal punto di vista politico ed
economico che, per assicurare la sicurezza comune ed uno sviluppo equilibrato
tra i paesi europei, fosse necessario sottoporre i due settori ad una
regolamentazione comune (Bianchi P.,1995). Nel caso della Comunità Europea
invece questo problema non sembra reale, e pertanto non si ritiene necessario
stabilire alcuna regola di azione comune a favore della crescita industriale. Del
resto va osservato come questa impostazione sia perfettamente coerente con
una visione dell’aggiustamento strutturale propria di un’unione doganale, cioè
essenzialmente basata sulla apertura incrociata dei mercati nell’ambito di un
accordo tra paesi, che singolarmente tentano di accelerare la loro efficienza
interna, per potersi avvicinare nel minor tempo possibile al riferimento
collettivo dato dal concorrente esterno più efficiente (M.Neuman, Industrial
Policy and Competition Policy, cit.). In altre parole, secondo l’impostazione
del Trattato di Roma non servono misure industriali specifiche e coordinate,
perché la principale azione a supporto della crescita industriale è data
essenzialmente dalla realizzazione stessa dell’unione doganale ed economica
prevista. Tanto più che questo processo di apertura incrociato tra i sei paesi
fondatori, così come l’azione di apertura comune verso l’esterno, sarebbe stato
graduato nel tempo, così da permettere in ogni paese quegli aggiustamenti
strutturali necessari ad evitare l’emergere di nuovi squilibri interni alla
Comunità. I governi avrebbero quindi potuto intervenire favorendo
l’aggiustamento delle rispettive industrie nazionali, e promuovendo fusioni ed
accorpamenti finalizzati alle creazione di campioni nazionali in grado di
operare efficientemente nel nuovo Mercato Comune (European Institute of
Public Administration,1993).
E’ chiaro a questo punto perché le principali provvisioni in materia di
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industria presenti nel Trattato di Roma siano da un lato i numerosi riferimenti
al processo di creazione del mercato interno all’unione doganale, e dall’altro le
norme di tutela della concorrenza, che mirano ad eliminare qualunque
comportamento - sia esso delle imprese o degli Stati - che possa falsare le
dinamiche ed il funzionamento del Mercato stesso.
Non si esagera quando si afferma che in questo momento iniziale la
Politica Industriale della Comunità Europea coincide perfettamente con la
Politica della Competizione (Bouterse R.B.,1994). E’ la Politica Industriale del
primo tipo, la politica che abbiamo classificato come “passiva e negativa”.
Il Trattato di Roma dedica a questa materia una decina di articoli (Titolo
V, Capo I), in cui emerge la filosofia della Comunità al riguardo, basata
essenzialmente sull’approccio del laissez-faire: il libero gioco di domanda e
offerta nei mercati europei è considerato come la condizione essenziale e
l’elemento fondamentale per l’efficienza economica dell’Europa.
Alcuni articoli sanciscono principi generali, e sono riferiti principalmente
alle imprese:
- Gli Artt.85 ed 86 vietano ogni accordo o strategia che distorca in
maniera apprezzabile la libera competizione, o che crei concorrenza sleale tra i
paesi membri. In particolare l’Art.85 riguarda le pratiche restrittive: tutti gli
accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese, e tutte le
pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio intra-Comunitario
e che “impediscono, limitano o falsano il gioco della concorrenza” sono vietati
come regola generale, in quanto assolutamente “incompatibili con il Mercato
Comune”. Tra le pratiche restrittive proibite ricordiamo ad esempio la
fissazione dei prezzi d’acquisto o di vendita, le limitazioni della produzione o
dello sviluppo tecnico, la ripartizione dei mercati. Il par.3 riconosce delle
eccezioni, consentendo tutti quegli accordi che, benché restrittivi,
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“contribuiscono a migliorare la produzione o la distribuzione di beni, o
promuovono il progresso tecnico ed economico". Godono di questa esenzione,
ad esempio, gli accordi tra imprese in materia di Ricerca e Sviluppo.
- L’Art.86 riguarda invece le posizioni dominanti. Tutte le azioni che
costituiscono uno “sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una
posizione dominante sul mercato comune o su una parte di questo” e che
ostacolano quindi il libero scambio tra gli Stati membri sono assolutamente
vietate. Rientrano nella categoria in questione l’imposizione di condizioni o
prezzi non equi, il trattamento dissimile dei diversi contraenti per prestazioni
equivalenti, la limitazione della produzione o dello sviluppo tecnico a danno
dei consumatori. Un aspetto va sottolineato in modo particolare: non è proibita
la semplice esistenza di una posizione dominante, ma ne viene proibito
l’abuso. Viene dunque attribuita rilevanza al “controllo economico” da parte
della Comunità, e non al suo “controllo politico” (Healey N.M.,1995).
- L’Art.89 attribuisce alla Commissione l’esplicita competenza ad
investigare sulle presunte violazioni delle regole sulla competizione sancite dai
precedenti articoli, e a proporre le misure necessarie per porvi fine: “La
Commissione vigila perché siano applicati i principi fissati […] e qualora essa
constati l’esistenza di un’infrazione propone i mezzi adatti a porvi termine”.
Altri articoli si riferiscono invece al comportamento degli Stati membri:
- L’Art.90 riguarda le imprese nazionali e i monopoli di Stato. Il Trattato
di Roma non disciplina in alcun modo il sistema della proprietà, ma qui vuole
assicurare che le imprese pubbliche operino in assoluta concordanza con le
regole comunitarie sulla competizione: “Gli Stati membri non emanano né
mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche, alcuna misura contraria
alle norme presenti in questo trattato […] Le imprese incaricate della gestione
di servizi economici di interesse generale, o avanti carattere di monopolio
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fiscale, sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle
regole della concorrenza […]”.
- L’Art.92 è relativo ai sussidi statali. Il comma 1 sancisce la regola
generale secondo cui sono vietati tutti i sussidi statali che limitino o distorcano
il libero commercio intra-Comunitario: “Sono incompatibili con il mercato
comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti
concessi dagli Stati […] sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o
talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”). Il comma 2
riconosce importanti eccezioni a tale principio: certi aiuti sono ritenuti de iure
compatibili con il mercato comune (aiuti di carattere sociale, aiuti relativi a
calamità naturali), altri invece “possono considerarsi compatibili” (aiuti
destinati alle regioni sottosviluppate, alla promozione di progetti di interesse
Europeo, allo sviluppo di specifiche attività).
- L’Art.93, infine, attribuisce alla Commissione la piena competenza a
vigilare sulle modalità e sull’entità dei sussidi statali, nonché l’eventuale potere
di imporne la sospensione: “La Commissione procede all’esame permanente
dei regimi di aiuti esistenti negli Stati membri […] e qualora constati che un
aiuto concesso da uno Stato non è compatibile con il mercato comune […]
decide che lo Stato interessato deve sopprimerlo o modificarlo nel termine da
essa fissato”.
Dunque il Trattato di Roma sintetizza alla perfezione l’approccio
minimalista della Comunità (Jacobson D.-O’Callaghan B.A.,1996), basato
unicamente sulla tutela di un ambiente macroeconomico favorevole
esclusivamente attraverso azioni di controllo e di restrizione. Si sostengono e si
difendono la liberalizzazione commerciale e l’integrazione dei mercati, centrati
sulla concorrenza estesa a livello comunitario.