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CAPITOLO 1 – LE POLITICHE DI COESIONE DELL’UNIONE
EUROPEA
1.1 Uno sguardo d’insieme
L’articolo 174 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea prevede che: per
promuovere uno sviluppo armonioso dell'insieme dell'Unione, questa sviluppa e
prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione
economica, sociale e territoriale. In particolare, l'Unione mira a ridurre il divario tra i
livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite.
Tra le regioni interessate, un'attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle zone
interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti
svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più settentrionali con bassissima
densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna. (TFUE)
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Lo scopo della politica di coesione è quindi favorire la crescita economica e il
miglioramento della qualità della vita dei cittadini, concentrando la sua azione nelle
regioni in ritardo di sviluppo, affinché si possano ridurre le disparità economiche, sociali
e territoriali tuttora esistenti nell’ Unione europea (UE).
Le Politiche di Coesione dell’Unione Europea sono oggetto di analisi e studi sin dalla
loro introduzione, all’inizio degli anni ’70. In particolare, gli studi si sono spesso
concentrati sulla loro efficacia come stimolo alla crescita economica regionale e come
elemento capace di migliorare il livello di coesione economica e sociale delle regioni che
compongono l’Unione Europea. A differenza della Politica Agricola Comune (PAC), che
era inizialmente la fonte di spesa primaria della Comunità Europea, la rilevanza in termini
di spesa dei Fondi è aumentata notevolmente nel tempo ed il loro obiettivo è sempre stato
legato ad un’ottica di crescita, convergenza e riduzione delle disparità.
La politica di coesione sociale, economica e territoriale, risulta essere ad oggi il canale
fondamentale attraverso il quale passa la politica di investimento della UE. In seguito
alla contrazione degli investimenti pubblici nazionali dovuta alla crisi economica e
finanziaria degli ultimi anni, la politica di coesione è diventata una fonte molto importante
di investimenti pubblici. Nei paesi beneficiari del Fondo di coesione i finanziamenti della
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Articolo 174, Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea
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politica di coesione sono aumentati dall’equivalente del 34% degli investimenti pubblici
totali al 52%, dal periodo di programmazione 2007-2013 al periodo di programmazione
2014-2020%. (VIII Relazione sulla coesione, 2022, p. 19)
Si è registrato quindi un aumento del 18% della percentuale degli investimenti della
politica di coesione sul totale degli investimenti pubblici nelle regioni “meno sviluppate”
e “mediamente sviluppate” rispetto al precedente periodo di programmazione.
Dall’ottava relazione sulla coesione pubblicata il quattro febbraio 2022 dalla
Commissione Europea, emerge che la politica di coesione ha contribuito notevolmente a
ridurre le disparità territoriali e sociali tra le regioni dell'Unione Europea. Alla luce di tali
progressi, è stato stimato che, entro il 2023, il PIL pro capite delle regioni meno sviluppate
aumenterà di una percentuale pari al 5% in più rispetto agli scorsi anni. (VIII Relazione
sulla coesione, 2022, p. 267)
1.2 Il modello economico della Comunità Europea: l’economia sociale di mercato
L’articolo 3 del Trattato sull’Unione Europea dispone che: “L’Unione instaura un
mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una
crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di
mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale,
e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa
promuove il progresso scientifico e tecnologico. L’Unione combatte l’esclusione sociale
e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociale, la parità tra donne e
uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove
la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri.” (TUE)
Dalla lettura dei principi in esso contenuti, che si concretizzano in programmi ed obiettivi
specifici, l’articolo sembrerebbe volto a porre in equilibrio e ad armonizzare il mercato
con la solidarietà; la concorrenza con i diritti sociali; le libertà economiche con la giustizia
sociale; la crescita economica con lo sviluppo sociale; le liberalizzazioni con la gestione
pubblica dei servizi pubblici essenziali, così come ben delineato negli articoli 106 e 107
del TFUE (Lucarelli, 2019).
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Sin dall’inizio, l’organizzazione normativa della Comunità Europea ha assunto la difesa
dei valori di un’economia sociale di mercato, ovvero un modello di società fondato su un
sistema di organizzazione economica incentrato sulle forze di mercato con dei valori di
solidarietà interna e di sostegno reciproco. Sin dal Trattato di Roma del 1957,
l’evoluzione normativa dell’Europa comunitaria è stata sempre improntata su due principi
fondamentali: il principio della libera concorrenza e il principio solidaristico della
coesione. Il principio della libera concorrenza trova difficile applicazione all’interno dei
Paesi membri a causa dei profondi divari economici esistenti, non compensati da aiuti ad
hoc, ed a causa della conseguente mancanza di pari opportunità. Per tale motivo, la
realizzazione della Comunità Europea è avvenuta con politiche in grado di agevolare il
superamento degli svantaggi strutturali presenti in alcuni Paesi membri, in assenza delle
quali la promozione di una vera “coesione economica e sociale” non si sarebbe potuta
realizzare.
1.3 Le politiche di coesione prima della Riforma dei Fondi Strutturali
Prima della Riforma dei Fondi Strutturali, avvenuta nel 1988, l’obiettivo di migliorare la
convergenza fra le regioni della Comunità era affidato alla politica regionale (non prevista
originariamente dal Trattato di Roma) e alla politica sociale. Nel Trattato di Roma del
1957 non vi erano specifici riferimenti alla politica di coesione e alla necessità di
prevedere una politica regionale comune. L’assenza di una base legislativa rifletteva il
pensiero circa l’espansione economica, che avrebbe risolto il divario di crescita, di reddito
e di sviluppo tra regioni più ricche e regioni in ritardo. Nonostante il mercato comune, il
Trattato di Roma riconosceva agli Stati la possibilità di favorire le regioni attraverso aiuti
pubblici nazionali destinati allo sviluppo economico, ove il tenore di vita fosse troppo
basso o vi fossero gravi forme di sottoccupazione, e assegnava alla Commissione
solamente il compito di vigilare sulla loro erogazione (Art. 107, TFUE).
Tale possibilità veniva interpretata più come un’eccezione concessa agli Stati membri che
non come una loro prerogativa autonoma. (Triulzi, 2016).
Allo scopo di ridurre tali diseguaglianze, furono istituiti il Fondo Sociale Europeo (FSE)
e la Banca europea degli investimenti (BEI).
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Il riconoscimento della necessità di una vera e propria politica regionale comune si
affermò tra i paesi membri con estremo ritardo. Nel 1968, venne creata la “Direzione
generale per la politica regionale” della Commissione Europea, alla quale vengono
affidate competenze specifiche sul tema. Il secondo presidente della Commissione
europea Jean Rey (1968), affermò: “La politica regionale deve essere per la Comunità
ciò che il cuore è per l’organismo umano, deve tendere a infondere nuova vita nelle
regioni in cui questa è stata negata”. Nel 1972, a conclusione del Vertice di Parigi, fu
affidato alla Commissione il compito di elaborare un rapporto sulla politica regionale
(Rapporto Thompson dal nome dell’allora commissario britannico preposto alle politiche
regionali) e si invitarono le istituzioni comunitarie a creare un Fondo di sviluppo regionale
dotato di risorse proprie. Venne così istituito, con il regolamento n. 724/75, il Fondo
Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) per un periodo di prova triennale, al fine di
correggere gli squilibri regionali dovuti alla predominanza dell’agricoltura, ai
cambiamenti industriali e alla disoccupazione strutturale. (Bruzzo, 2000)
Nei primi anni di applicazione, il FESR non fu arbitro della politica regionale della
Comunità, la quale rimase di esclusiva competenza statale. Il Fondo subiva una profonda
limitazione nella sua effettiva capacità di intervento, assumendo carattere meramente
complementare e limitando la sua azione al sostegno delle singole politiche regionali
nazionali. Nel 1975, le zone maggiormente sottosviluppate della CEE erano l’Italia
meridionale, la maggior parte dell’Irlanda, le regioni occidentali e sudoccidentali della
Francia, l’Olanda del nord, parte della Germania occidentale e gran parte del Regno
Unito, in particolare il Galles e la Scozia.
L’intervento del Fondo era previsto esclusivamente nelle regioni depresse o in ritardo di
sviluppo e le risorse erano state ripartite secondo le seguenti percentuali: Belgio 1,5 %,
Danimarca 1,3 %, Francia 15 %, Irlanda 6 %, Italia 40%, Lussemburgo 0,1 %, Paesi Bassi
1,7 %, Germania 6,4 % e Regno Unito 28 %.
I programmi comunitari non risultarono efficaci e gran parte dei contributi continuò a
essere utilizzata per la realizzazione di singoli progetti di investimento, mentre gli Stati
continuarono a utilizzare le risorse comunitarie a copertura delle proprie spese nazionali
a finalità regionale.
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1.4 La Riforma dei Fondi Strutturali
Negli anni ’80, l’adesione di Grecia (1981), Spagna e Portogallo (1986) alla Comunità
accentuò le disparità regionali e fece emergere la necessità di disporre di strumenti
finanziari specifici per il riequilibrio interregionale. La modalità di intervento, proposta
dalla Commissione europea in occasione della Conferenza tenutasi a Parigi nel 1972,
consisteva nell’attuazione di una politica regionale comunitaria aggiuntiva e non
sostitutiva a quelle nazionali.
In tale scenario, un episodio cardine fu l’approvazione dell’Atto Unico Europeo nel 1986,
il quale fu di fondamentale importanza per il processo d’integrazione europea.
L’Atto Unico pose le basi per una prima riforma dei Fondi Strutturali nel 1988, segnando
la nascita delle politiche strutturali. In esso, le disparità regionali furono riconosciute
come dei veri e propri freni per il raggiungimento del mercato unico europeo e quindi per
l’integrazione europea stessa. Fu ritenuta necessaria, quindi, un’intensificazione degli
strumenti finanziari messi a disposizione degli Stati per la politica di coesione.
Nel 1988, vennero adottati dal Consiglio della Comunità Europea una serie di regolamenti
volti a riformare il funzionamento dei Fondi strutturali comunitari e vennero stanziati dal
Consiglio europeo 64 Miliardi di ECU
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ai Fondi Strutturali per un periodo di cinque anni.
La riforma dei Fondi Strutturali entrò in vigore nel 1989 con lo scopo di rafforzare
l’azione comunitaria nel suo complesso.
In particolare, vennero introdotti quattro principi fondamentali:
⮚ Concentrazione: l’azione dei Fondi strutturali doveva essere concentrata su un
numero limitato di aree e obiettivi per ottimizzare gli interventi a favore delle
aree e delle fasce svantaggiate della popolazione. Vennero definiti quattro livelli
di concentrazione in riferimento a: obiettivi prioritari di sviluppo; tipologie di
aree (concentrazione geografica); tipo di interventi (concentrazione finanziaria);
settori (concentrazione tematica).
⮚ Complementarità e partnership: l’azione comunitaria doveva intendersi
complementare alle azioni nazionali ed attuata in collaborazione con la
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L’ECU, acronimo di European currency unit, è l’unità monetaria europea che ha preceduto l’euro fra il
1979, anno della messa in opera del Sistema monetario europeo (SME), e l’avvio dell’Unione economica
e monetaria, il 1° gennaio 1999. A differenza dell’euro, l’ECU rappresentava una semplice unità di conto,
vale a dire una moneta fittizia che non è mai stata in circolazione, e la cui funzione fondamentale era quella
di esprimere i valori delle prestazioni facenti capo al sistema della Comunità economica europea.
(AA.VV., 2018)