V
anche la sopravvivenza politica ed economica della nostra società,
nonché la stessa vita degli individui.
E' attraverso la riflessione -o forse sarebbe meglio dire
interrogandoci- sul futuro della comunità internazionale che si é
scelto in questo lavoro di volgere lo sguardo all'Europa, ed in
particolare al ruolo che l'Unione europea come entità politica
potrebbe svolgere nella lotta al terrorismo internazionale.
Secondo tale prospettiva, l'idea che ha inizialmente stimolato questo
lavoro riguardava quasi esclusivamente il settore della politica estera
europea e la necessità, nonché l'urgenza, dello sviluppo di
un’identità, prima, e di mezzi concreti, dopo, nell’ambito della
sicurezza comune e della difesa europea.
Si é scoperto, invece, che fino all'11 settembre l'Unione europea
interpretando il terrorismo come una forma grave di criminalità
transnazionale, ha focalizzato i suoi sforzi in difesa della sicurezza
interna e ciò ha indotto, di conseguenza, ad agire principalmente nel
settore della Giustizia e degli Affari Interni. Ma, guardando alla
rapidità dei risultati raggiunti nel suddetto settore, si é potuto
dimostrare che l'Europa era già precedentemente sensibile alla
problematica ed attenta ai profondi cambiamenti che l’epoca globale
stava imponendo anche al terrorismo, e quindi si è dedotto che l'11
settembre é stato un evento acceleratore, o secondo altri studiosi, é
servito indirettamente a ridare impulso all'integrazione europea.
Per quanto riguarda il ruolo dell'Europa nel mondo, i risultati concreti
raggiunti restano scarsi: ma la prospettiva e l'interesse da parte della
Ue di un impegno più efficace ed incisivo in tale settore, proprio
attraverso l'urgenza e la necessità della comune reazione al
problema rappresentato dal terrorismo globale, hanno aperto e
continuano ad aprire nuove opportunità all'Europa. Senza
considerare in secondo piano l'esperienza quasi trentennale che
l’Europa ha acquisito per mezzo della scelta cooperativa nella
VI
repressione della violenza terroristica, si deve notare che nel
prossimo futuro l'Unione europea ha scelto -e sta iniziando a mettere
in pratica recentemente- di dedicare i suoi sforzi nel porsi come
ponte verso il mondo arabo-musulmano, per conservare o ricreare
un dialogo politico pacifico col mondo islamico.
Il primo capitolo é stato concepito con la finalità di delineare -
seppur a grandi linee e con numerose incognite- un quadro
concettuale della situazione internazionale emersa con gli attentati
dell'11 settembre. Si è considerato ed analizzato il terrorismo come
fenomeno proteiforme che conserva come essenza immodificabile
nel tempo, il riferimento, in ultima analisi, alla violenza. Questa
premessa metodologica è stata dettata sia dalla volontà di evitare
qualsiasi implicazione ideologica, in virtù del fatto che il terrorismo è
per essenza un fenomeno dal carattere intrinsecamente politico, sia
perché ci ha permesso di analizzare quali vesti il terrorismo ha scelto
di indossare per manifestarsi concretamente nel corso del XX
secolo.
La necessità di definire il terrorismo è stata considerata di centrale
importanza per comprendere ciò che ai nostri occhi si é manifestato
l’11 settembre. A tale scopo si è ritenuto essenziale il riferimento ai
cambiamenti avvenuti dalla fine della Guerra Fredda, additando la
globalizzazione come principale causa. Così, il nesso tra
globalizzazione e conflittualità odierna ci ha permesso di qualificare
come globali sia il terrorismo sia le guerre della nostra epoca, per
giungere alla conclusione che il terrorismo attuale in parte può
essere spiegato dalla mancanza di democratizzazione delle relazioni
internazionali. Dunque, data la difficoltà nell'analizzare un fenomeno
in continuo e travolgente divenire, nel lavoro si é ritenuto importante
gettare lo sguardo, ai fini della comprensione della situazione
attuale, sulla interrelazione che potrebbe esistere tra democrazia,
terrorismo e relazioni internazionali.
VII
Il secondo capitolo è stato dedicato alle azioni messe in atto per
reprimere il terrorismo nelle tre decadi che hanno preceduto la
tragedia dell’11 settembre. Proprio a partire dal dicembre 1974 viene
istituito il Consiglio europeo, organo di cooperazione
intergovernativa dei capi di Stato e di Governo della maggior parte
dei paesi europei che ha avuto un ruolo fondamentale non solo nel
dare nuovo impulso alla costruzione comunitaria, ma anche, ai fini di
questo lavoro, nella promozione della collaborazione in materia di
lotta al terrorismo attraverso l’istituzione della Conferenza TREVI,
durante il suo vertice di Roma del dicembre 1975. Viene delineato il
percorso storico della repressione del terrorismo tramite l’analisi
delle strutture messe in atto dagli Stati dell’Europa Occidentale
prima e dall’Unione europea poi, nella repressione del terrorismo:
dalla concertazione si è gradualmente passati alla cooperazione. A
tal proposito, a partire dal 1992 vengono analizzate le azioni
finalizzate alla repressione del terrorismo che l’Unione europea ha
posto in essere nell’ambito del Pilastro della Giustizia e degli Affari
Interni.
Il terzo capitolo è stato dedicato ad una dettagliata analisi della
reazione europea all’11 settembre, analizzando, secondo una
prospettiva il più ampia possibile, tutti i settori che sono stati
mobilitati direttamente in virtù della repressione del terrorismo o che
semplicemente ne hanno subito gli effetti.
La tragedia dell’11 settembre si è verificata in un momento
storico particolarmente cruciale e già di per sé complesso per
l’Unione stessa: la sua attenzione infatti doveva essere destinata
quasi esclusivamente alla realizzazione di progetti “interni”, come ad
esempio, l’allargamento ai paesi dell’Est o la Conferenza
intergovernativa. Ciò nonostante, la lotta al terrorismo è stata inserita
sin da subito e per lungo tempo tra le priorità dell’ordine del giorno,
VIII
conoscendo una lieve inflessione, in realtà più ufficiale che
sostanziale, con la guerra preventiva in Iraq.
Ciò che l’analisi condotta lungo i tre capitoli mostrerà è che un
bilancio conclusivo risulta molto difficoltoso da stabilire, in particolare
non solo perché molti dei progetti e delle politiche che l’Unione
europea ha messo in moto all’indomani dell’11 settembre non hanno
ancora conosciuto una piena realizzazione, ma anche perché solo
ora si inizia a riflettere su quali nuove politiche e quale nuovo ruolo
dell’Unione stessa sia ipotizzabile nel mutato quadro della sicurezza
nazionale ed internazionale.
1
CAPITOLO I
IL TERRORISMO IN ETÁ GLOBALE
Due immagini simili, vicine cronologicamente ma opposte nel loro
significato e nelle conseguenze, hanno attratto lo sguardo dell’intera
umanità a prescindere dalla cultura, dall’etnia o religione
d’appartenenza: da un lato il crollo del Muro di Berlino, e al suo
opposto il crollo delle Twin Towers. Entrambi gli avvenimenti hanno
provocato reazioni di sconcerto nel sistema internazionale; ma,
mentre il primo con la sua scia d’illusorio pacifismo ha gettato le basi
per un potenziale riavvicinamento del mondo, il secondo, al contrario,
lo ha riallontanato generando opposizioni insicurezze ed instabilità
per tutto il sistema. Questi due momenti della storia a noi recente
possono essere considerati a pieno titolo come le due facce di una
stessa moneta -la globalizzazione- che lanciata in aria gravita ora
sulle nostre esistenze: il suo esito è per ora ancora incerto, di sicuro,
resta la precarietà e la paura dell’ennesimo incombente rischio.
Tanto e tanto diversamente analizzata, la globalizzazione, che
investe tutti i campi dell’umana esistenza, non ha ancora ottenuto
un’unica e accettata interpretazione: in termini generali, è vista come
quell’insieme di processi ancora in fieri, contradditori e tuttora incapaci
di dar vita ad un sistema di pensiero logico e coerente, in cui tutte le
tensioni della modernità esplodono dando vita a configurazioni
necessariamente post-moderne
1
; o ancora, come quel contesto, frutto
1
Più propriamente come “il darsi immediato delle mediazioni razionali moderne”, C. Galli,
Spazi Politici. L’età moderna e l’età globale. Bologna, il Mulino, 2001, pg 148.
2
di casualità e volontà, in cui da un lato, si danno relazioni sociali
umane sempre più regressive e distruttive
2
, crisi dello Stato nazionale
moderno e di conseguenza crisi dei modelli politici, economici e di
sicurezza che lo avevano caratterizzato nella modernità; e dall’altro
l’emergere di nuove forme che cercano di sostituirvisi: il punto di
contatto-scontro tra i vecchi ed i nuovi modelli è l’attuale ed incerta
fase di transizione, che con la fine della Guerra Fredda ha lasciato in
eredità ai posteri un vuoto di potere politico, dei buchi neri
3
nel
sistema internazionale. Ma, poiché “la storia ha orrore del vuoto”
4
,
essendo gli spazi vuoti in politica sempre stati sinonimi di conflitto, se
ne può dedurre che l’era globale è un’epoca d’esplosione di violenza,
in cui i conflitti che vi si danno non sono più di tipo convenzionale:
terrorismo e guerra sono ormai definibili globali, poiché, anch’essi,
adeguandosi o sfruttando la globalizzazione risultano esserne una
funzione. All’ordine del giorno di ogni riflessione sul futuro tanto
dell’assetto internazionale quanto dell’umana esistenza, si presentano
come due fenomeni uno all’altra opposto, –dal momento che il
terrorismo internazionale, così come si è presentato ai nostri occhi
con l’attentato dell’11 settembre 2001 è stato perlomeno ufficialmente
additato come la causa scatenante la guerra globale- ma alla prova
dei fatti entrambi ricollegabili al variegato quanto secolare genus della
violenza.
2
M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale. Roma, Carocci,
1999, pg 122
3
L. Incisa di Camerana, Stato di guerra. Conflitti e violenza nella post-modernità. Roma,
Ideazione Editrice, 2001, pg 113.
4
Fejto, Le passager du siècle. Guerres, révolutions, Europes, Paris, Hachette, 1999, pg
337.
3
1.1 La globalizzazione dei conflitti:
dalle “Nuove Guerre” alle “Guerre Globali”
La fenomenologia dei conflitti contemporanei ha imposto, ed in parte
tuttora continua ad imporre, un profondo cambiamento nel modo
moderno di pensare la guerra: l’accelerazione degli eventi, quel “far
correre la storia”
5
che dalla fine del sistema bipolare all’11 settembre
2001 non ha conosciuto momenti di riposo riflessivi per nuove e più
adeguate concettualizzazioni politico-filosofiche sulla realtà in
trasformazione, è stata in sostanza determinata dal vortice della
mobilitazione globale e dalle scoperte tecnologiche ed informatiche ad
essa ricollegabili. L’incertezza, come caratteristica latente di ogni
società e di ogni periodo storico, è oggi soppiantata da un più temibile
e pericoloso “disordine subsistemico”
6
dettato, anche e soprattutto,
dall’escalation di violenza e di conflitti.
La globalizzazione ha aumentato il numero di conflitti nel mondo,
ha contribuito all’emergere di una nuova e diversificata semantica, di
nuove tipologie, di nuove forme di combattenti non solo ufficiali ed ha
imposto la ricerca di nuove risposte al fenomeno da parte degli Stati e
della comunità internazionale.
Prima di tutto, per definizione, come la globalizzazione non conosce
confini, così la violenza e la sua maggiore incarnazione, la guerra, non
si possono contenere geograficamente: tale “sfondamento dei
confini”
7
è, a ben vedere, parte di un processo più generale ed
imponente che coinvolge lo Stato travolgendolo come entità nazionale
e sovrana.
5
C. Stefanachi, Il futuro dell’ Europa, in B. Biancheri, Il nuovo disordine globale dopo l’11
settembre, Milano, Università Bocconi Editore, 2002, pg 28.
6
G. Romeo, Eurosicurezza. La sfida continentale…Dal disordine mondiale ad un ordine
europeo, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino Editore, 2001, pg 29.
7
C. Galli, Spazi Politici. L’età moderna e l’età globale, cit., pg 133.
4
La crisi dello Stato, pur trovando le sue radici in un passato
lontano, si manifesta in tutta la sua pericolosità nella morsa della
globalizzazione: come Galli
8
ci fa notare, lo Stato -di principio e di
fatto- eroso e perforato tanto “dall’alto” –dalle Organizzazioni
sovranazionali e transnazionali, dai processi di regionalizzazione,
ecc.- quanto “dal basso” –dai migranti, dalla deregulation
amministrativa, ecc.- restando privo della sua centralità nello spazio
politico, non solo acconsente ai diversi ambiti (quali il sociale, il
giuridico e l’economico) di rendersi autonomi, ma peggio ancora, in
ambito militare perde il monopolio dell’uso legittimo della forza a
causa del duplice processo di transnazionalizzazione delle forze
militari iniziata alla fine della Grande Guerra, e quello più recente di
privatizzazione della violenza organizzata
9
. Una delle conseguenze,
che nei conflitti degli anni ’90 si è tragicamente manifestata, è, come
affermato da Romeo
10
, che la diffusione del potere politico riduce le
possibilità d’intervento dei governi –già di per sé delegittimati- nello
spazio sociale, che diviene dunque difficilmente controllabile,
vulnerabile, insicuro per lo stesso cittadino ed in definitiva uno dei
luoghi maggiormente privilegiato dai conflitti più recenti. A sostegno di
tale idea, c’è anche chi
11
definisce tale processo come fenomeno di
“interiorizzazione delle crisi”: infatti, i conflitti più recenti localizzando
le linee di frattura, non più lungo i confini territoriali tra gli Stati o le
unità politiche omogenee, bensì all’interno dei gruppi –etnici, sociali,
culturali, linguistici, ecc.- arrecano il maggior livello di sofferenza
proprio perché colpiscono le comunità al loro interno, de-umanizzando
8
Ibidem
9
M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, cit.
10
G. Romeo, Eurosicurezza. La sfida continentale…Dal disordine mondiale ad un ordine
europeo, cit., pg 24.
11
F. Casadio, Conflittualità mondiale e relazioni internazionali, Padova, Ed. CEDAM-SIOI,
1982.
5
le relazioni sociali
12
e socializzando gli individui alla diversità come
causa di violenza
13
.
All’opposto, ponendo l’accento sull’incapacità dello Stato di controllare
i propri confini in un sistema internazionale globalizzato, si parlerà
piuttosto di “esternalizzazione delle crisi”
14
.
L’unica conclusione accettata ed ovvia sembra essere, allora, che la
minaccia di crisi si presenta come trasversale e multidirezionale
Le relazioni internazionali, anch’esse, sono condizionate dalla
globalizzazione: in linea teorica e generale, accantonati lo jus
publicum europaeum e il sistema bipolare della Guerra Fredda, lo
spazio internazionale -dominato dal policentrismo politico- privo di
ogni riferimento normativo sulla gestione dei conflitti che emergono al
suo interno in un vertiginoso crescendo, risulta, in sostanza, ancora
più conflittuale e contraddittorio
15
. La conflittualità, come pure la
contraddittorietà, derivano dalla transitorietà delle forme politiche che
dominano la scena internazionale e dalla presenza di attori
internazionali attivi ma non statali: gli occupanti lo spazio
internazionale sono oggi numerosi, e la tendenza è all’aumento.
Accanto alle Organizzazioni internazionali, transnazionali e regionali di
tipo formale, appaiano Ong e movimenti di contropotere, che come
categoria altamente includente -secondo Romeo- ricomprende i No
Global, le gangs criminali, i movimenti irredentisti e nazionalisti, ed i
gruppi terroristici. Lo Stato dal canto suo, nonostante l’evidente deficit
di governabilità di cui soffre internamente ed esternamente, abituato
nella modernità ad essere l’unico attore riconosciuto in ambito
internazionale, non facilmente cederà il passo ad una nuova realtà
post-nazionale
16
, al contrario, Incisa di Camerana immagina che esso
12
M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, cit., pg 122.
13
G. Romeo, Eurosicurezza. La sfida continentale…Dal disordine mondiale ad un ordine
europeo, cit.,pg 192.
14
Cfr. vedi nota 18.
15
C. Galli, Spazi Politici. L’età moderna e l’età globale, cit., pg 142.
16
Habermas, Après l’Etat-nation, une nouvelle constellation politique, Paris, Fayard, 2000.
6
cercherà con tutti i mezzi possibili di far parte del mondo globalizzato
come attore privilegiato divenendo più competitivo non solo nell’
ambito economico e politico, ma soprattutto in quello militare e
tecnologico.
Ma, se si guarda più nel dettaglio le conseguenze della
globalizzazione sulle relazioni inter-statali il riferimento più ovvio
riguarda le relazioni tra il Nord ed il Sud del mondo. Tra le diverse ed
opposte posizioni in merito, chi scrive condivide l’idea che la
globalizzazione è sì interdipendenza economica, sociale, culturale, e
militare ma è un’interdipendenza ineguale, dove il divario tra i ricchi
paesi industrializzati e tecnologizzati ed i poveri sprovvisti del know-
how informatico tenderà ad aumentare e non a diminuire. Inoltre,
l’interdipendenza ineguale contribuisce, per lo meno in parte, a
spiegare perché e come la globalizzazione faciliti la conflittualità nel
mondo: gli squilibri prodotti dall’interdipendenza asimmetrica
perpetuano l’instabilità del sistema e promuovono la violenza
strutturale, poiché gli Stati della periferia non possedendo le risorse
per entrare nella competizione globale, né per garantire un ordine
stabile politico-sociale al loro interno, sono più vulnerabili e possono
diventare facilmente, essi stessi, fonte di minaccia “esternalizzando” le
proprie tensioni interne
17
. I profughi economici, e più in generale i
17
Si veda ad esempio: E. Arielli e G. Scotto, I conflitti. Introduzione a una teoria generale,
Milano, Mondatori, 1998, pg 151; e L. Incisa di Camerana, Stato di guerra. Conflitti e
violenza nella post-modernità, cit., pg 111. Quest’ultimo in particolare parla propriamente di
“Nuovo apartheid ed illusione cartografica”: i rapporti internazionali tra Paesi Avanzati e
non, oggi, sono condizionati dallo sviluppo e l’utilizzo dei sistemi di comunicazione e delle
tecnologie informatiche. Così succede che lo scarto tra ricchi e poveri invece di ridursi
continua con una progressione sempre più vorticosa ad aumentare; nuovi Stati emergono
ma risultano immediatamente degli Stati-ghetto poiché isolati sin dalla loro nascita a causa
dell’assenza o insufficienza delle comunicazioni con i Paesi Avanzati. Il problema
evidenziato dall’autore riguarda in particolare il moltiplicarsi della formazione di Stati-ghetto,
nuovi come nascita, ma vecchi nel modello a cui fanno riferimento, l’entità statuale
nazional-sovrana. In prospettiva tale moltiplicarsi potrebbe aumentare a tal punto che il
numero elevato di nuovi Stati-ghetto potrebbe tramutarsi in una tradizione consolidata. Ma,
una tradizione che a livello internazionale si consolida può diventare mito, e quest’ultimo a
sua volta può servire a creare identità politiche che una Comunità sfrutta per garantire la
propria sopravvivenza. Dunque, seguendo questo cammino logico, l’autore arriva alla
ipotetica conclusione che le differenti identità politiche emergenti, ma anche quelle già
esistenti, racchiuse in cartine geografiche e geopolitiche illusorie, sia perché create ad hoc
7
migranti che dal Sud si spostano al Nord, sono la vera mina vagante
delle società occidentali: è un flusso di persone, merci, culture e modi
di vivere diversi che si muove, e che purtroppo, spesso viene accolto
e sfruttato dalle bande criminali o si scontra con una società che
timorosa della diversità non li accetta
18
.
Che cos’è la guerra oggi?
Il termine guerra può ancora rappresentare ciò che ha sino ad ora
significato?
La tendenza, che dalla fine del comunismo ed in particolare attraverso
la Guerra del Golfo e la Rivoluzione negli Affari Militari elaborata dal
governo americano si è a noi manifestata, mostra che il temine guerra
non basta più ad esprimere la sua essenza, e che in mancanza di una
e non originarie, sia perché comunque attraversate trasversalmente dalle differenti forme di
globalizzazione dell’esistenza e, quindi, non “pure”, sopravvivono (nel caso già esistenti) o
diventano realtà (nel caso di nuove identità) prevalendo sulla globalizzazione tecnologica.
18
La tematica dei migranti meriterebbe una trattazione a sé stante date le complesse
conseguenze che può arrecare proprio attraverso la globalizzazione. Ritengo interessante
in merito accennare all’interpretazione che è stata data della figura del migrante in epoca
globale da parte di A. de Giorgi, Enduring control. Fronti di guerra e strategie di controllo, in
AA.VV, La guerra dei mondi. Scenari d’Occidente dopo le Twin Towers, Roma,
DeriveApprodi, 2002. Secondo l’autore le guerre che si stanno scatenando all’indomani
dell’11 settembre, a cominciare dall’operazione Enduring Freedom americana, sono
costituite da diversi livelli, e due fronti sono evidenti: uno esterno, militare che si è
concretizzato nel caso americano nella war on terrorism; e uno interno che nato molto
prima dell’attentato si protrarrà con grande probabilità all’infinito, la guerra alle classi
pericolose ed ai migranti. Questo fronte interno è la conseguenza di una guerra
permanente e latente che mai è stata dichiarata: i migranti e le classi pericolose sono i
“nemici interni”, categoria innovativa ed ambigua che si pone a metà strada tra il
tradizionale nemico esterno e il criminale interno. La risposta a tali nuovi nemici si è
concretizzata sino ad ora e non solo negli Usa con politiche repressive, con la sorveglianza
e la criminalizzazione degli stranieri. Si è così creato un campo di battaglia all’interno della
società messo in atto dallo Stato stesso contro suoi potenziali cittadini. In questa
prospettiva, de Giorgi si interroga sulla possibilità di considerare l’organizzazione
terroristica Al-Qaeda come una trasposizione su scala globale delle classi pericolose: la
risposta a tale domanda retorica deve essere riallacciata ad un concetto più generale
riguardante la questione terminologica. Come le più classiche definizioni d’origine moderna
sono state messe in crisi dalla globalizzazione, così la ricerca di nuove definizioni è
necessaria, come indispensabile dovrebbe essere anche la lucidità mentale nel cogliere
nella prassi le similitudini che, invece, la società si ostina a definire con termini diversi.
Così, la risposta conclusiva di de Giorgi afferma che Enduring Freedom, e le guerre che
sulla stessa scia seguiranno, sono sostanzialmente un déja vu: una trasposizione
all’esterno del fronte interno della war on crime.
Ulteriore fattore messo in evidenzia dall’autore è la trasformazione in atto delle strategie di
controllo: si verifica, cioè, una tendenziale simbiosi tra il militare ed il poliziesco, tra
l’intervento militare dispiegato globalmente e le prassi di controllo attivate localmente. Si
possono così spiegare i concetti di “polizia internazionale”, “missione umanitaria” in ambito
internazionale e i gated communities (spazi artificiali di massima sicurezza)o la sicurezza
privata in ambito interno.
8
nuova formulazione aumentano gli aggettivi che la qualificano
19
:
asimmetrica, infinita, invisibile, simbolica, a morti zero, post-eroica,
sporca, permanente, senza limiti, civile mondiale, ecc. Senza
addentrarci nel numero infinito di possibili qualificazioni della guerra,
ed accettando come precetto tutt’ora valido l’idea clausewitziana che
ogni epoca conosce una propria teoria della guerra, o meglio, che la
guerra non è un prodotto immutabile del genere umano, bensì un
prodotto della storia e della società
20
, e poiché –sebbene nel volgere
di pochi anni- la percezione del cambiamento in ambito conflittuale è
stata evidente ed incisiva tanto per la comunità internazionale quanto
soprattutto per ogni singolo individuo, in questo lavoro si è scelto di
definire come “Nuove” le guerre che hanno sconvolto il mondo
nell’ultimo decennio del XX secolo, e “Globali” le manifestazioni
conflittuali successive all’11 settembre
21
.
Una precisazione s’impone come prioritaria: con il crollo del Muro
di Berlino si è aperta una fase transitoria -esplosa, forse, con più
cruenta evidenza solo con gli attentati alle Twin Towers-
caratterizzata dal confuso sovrapporsi di vecchio e nuovo, e dalla
ormai incontestabile certezza che la guerra da anomia stia sempre più
divenendo una normalità nella società, se non perfino lo strumento
naturale per rispondere alle crisi, intese come quell’emergenza
strutturale interiorizzata socialmente e normalizzata in ambito politico-
culturale
22
.
Le nuove guerre da Mary Kaldor
23
, sono definite “nuove” rispetto alla
concezione moderna della guerra subordinata all’interesse dello Stato,
19
U. Rapetto, R. Di Nunzio, Le nuove guerre. Dalla Cyberwar ai Black Bloc, dal sabotaggio
mediatico a Bin Laden, Milano, RCS libri, 2001.
20
J. Galtung, Peace and peaceful means, London, Sage, 1996.
21
Tale distinzione non è universalmente accettata in dottrina. Una posizione contraria è
quella, ad esempio, di D. Zolo, Dalla guerra moderna alla guerra globale, in L. Bimbi (a
cura di), Not in my name. Guerra e diritto, Roma, Editori Riuniti, 2003.
22
A. de Giorgi, Enduring control. Fronti di guerra e strategie di controllo, in AA.VV, La
guerra dei mondi. Scenari d’Occidente dopo le Twin Towers, cit., pg 151.
23
M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, cit.
9
e “guerre” per sottolineare l’importanza del fattore politico insito in
questo tipo di violenza, benché risulti sempre più difficile distinguere,
secondo i canoni del pensiero tradizionale, tra guerra (concepita di
solito come violenza tra Stati, o tra gruppi politici organizzati a scopi
politici), crimine organizzato (inteso come violenza tra gruppi privati
organizzati per scopi privati) e violazione dei diritti umani su larga
scala (definita come violenza dello Stato o di gruppi politici organizzati
rivolta conto i civili). Così, le nuove guerre non potendo distinguere
questi tre elementi, li inglobano amalgamandoli. Sempre secondo
l’autrice questa nuova tipologia, pur ereditando molto dalla moderna,
mostra la propria peculiarità in tre ambiti principalmente: i metodi di
combattimento, il tipo di finanziamento economico di cui si serve e gli
scopi che si prefigge.
La prima differenza che le fa apparire come nuove è l’abbandono
degli schemi convenzionali di lotta: nuove forme e tecniche di violenza
organizzata –l’uso di tecniche terroristiche ed anche la combinazione
di principi tradizionalmente considerati antitetici, quali la guerriglia e la
controinsurrezione- che contribuiscono a rendere tali guerre come a-
formali
24
data la scomparsa o solo acuta deficienza della dimensione
giuridica regolamentatrice; nuovi attori combattenti
25
soprattutto di tipo
privato, i cosiddetti “signori della guerra” che si affiancano agli attori
regolari e allo Stato condividendo con essi le strategie dell’economia
di guerra e promuovendo un processo di privatizzazione della violenza
24
E Greblo, Guerra senza frontiere. Il terrorismo globale, in Filosofia Politica, Anno XVI,
numero 3, dicembre 2002.
25
La Kaldor, ad esempio, individua diverse unità: le forze armate regolari, gli eserciti¸
gruppi paramilitari che, si presentano come gruppi autonomi di uomini armati incentrati
intorno ad un unico leader; le unità di difesa che sono composte solitamente da volontari
che si pongono come scopo la protezione del proprio territorio; i mercenari stranieri, sia
come singoli individui sia come bande; le compagnie di sicurezza privata spesso reclutate
da soldati occidentali in pensione, ricollegabili ai loro governi o a società multinazionali;
infine, le truppe regolari straniere che operano in nome delle organizzazioni internazionali
nelle zone di guerra, e che pur non condividendone le logiche teoriche sono spesso
costretti a condividerne quelle pratiche. Cfr. M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza
organizzata nell’età globale, cit., pg 109.
10
in antitesi netta con il carattere pubblico e regolare delle guerre
moderne.
Il tipo di finanziamento di cui le nuove guerre si servono è, secondo
alcuni, la più plausibile causa delle guerre stesse. La modernità ci
aveva abituati ad un’economia di guerra come sistema centralizzato,
totalizzante ed autarchico; l’economia delle nuove guerre si pone
all’opposto, essendo completamente informale.
Il dissolvimento delle strutture statuali e il carattere globale
dell’economia mettono in evidenza come la produttività formale e
legata al territorio dello Stato crolla, come crollano pure le entrate
provenienti dalle tasse e da tutte le attività formali di uno Stato
funzionante. Quindi, le unità combattenti devono necessariamente
cercarsi altre fonti di finanziamento: i “trasferimenti di beni”. Tali
trasferimenti, secondo la formula di Mark Duffield
26
, sono
sostanzialmente di due tipi: la redistribuzione dei beni esistenti per
sovvenzionare i combattenti e l’aiuto dall’esterno.
La redistribuzione può avvenire attraverso rapine, estorsioni,
saccheggi, razzia, cattura di ostaggi, furti di denaro, di oggetti di
valore, di bestiame e di proprietà immobili; attraverso la pressione sul
mercato tramite i posti di blocco piazzati sul territorio; attraverso tasse
di guerra e la protezione di coloro che producono beni di primaria
necessità, che non possono essere uccisi come gli altri ricchi; infine
attraverso le attività criminali ed il commercio illegale di armi, droga e
riciclaggio del denaro sporco. Gli aiuti esterni, invece, possono
derivare dalle rimesse di singole famiglie, da comunità della diaspora
o da governi stranieri, ma anche indirettamente dall’assistenza
umanitaria. Così, ne risulta che la guerra fornisce una legittimazione a
diverse forme criminali di privato arricchimento, che sono al tempo
stesso le fonti necessarie per sostenere le nuove guerre: infatti, per
26
M Duffield, The Political Economy of International War: Asset transfer, complex
emergiencies and international aid, in J. Macrae, A. Zwi (eds), War and Hunger. Rethinking
international responses, London, Zed Press, 1994.