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INTRODUZIONE
Negli anni della crisi economica globale, con una crescita della produttività
ancora stagnante e l’economia in lenta ripresa, le politiche attive per il lavoro
rappresentano uno dei principali strumenti per consentire l’ingresso e il
reinserimento nel mercato del lavoro della popolazione disoccupata e inattiva.
Il mercato del lavoro, infatti, diventa sempre più mutevole e flessibile e, per
fronteggiarlo, occorre facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro; puntare
sulla formazione e sulla riqualificazione; supportare i lavoratori nei percorsi di
carriera che, purtroppo, diventano sempre più frammentari e discontinui.
Nonostante sia da tempo unanimemente condivisa la necessità di un pieno rilancio
del sistema delle politiche attive, ancora oggi il nostro Paese stenta ad affrontare
risolutivamente una serie di criticità.
Tra tutte, preoccupa in particolare l’elevata percentuale dei disoccupati di lungo
periodo, che rappresentano ben il 59% di tutti quelli degli stati membri dell’Ocse,
nonché il grave divario di genere, che si contraddistingue per numeri decisamente
scoraggianti: nel 2017, il tasso di occupazione delle donne in età lavorativa si è
attestato al di sotto di circa 20 punti percentuali rispetto a quello degli uomini.
Non solo: anche l’occupazione giovanile non è ancora risalita dalla crisi e le basse
qualifiche e competenze della forza lavoro causano dequalificazione e frenano la
produttività
1
.
Inoltre, il compiuto inquadramento dello stato di salute del sistema di politiche
attive italiano non può prescindere dall’esame di alcune questioni culturali, che
contrappongono dei veri e propri ostacoli alla prospettiva di sviluppo e
ammodernamento del nostro mercato del lavoro
2
.
Recenti dati Eurostat, infatti, mostrano come in Italia l’82% della popolazione
ricorra ancora a parenti e amici come canale principale per la ricerca del lavoro. Si
tratta di un dato culturale importante, che mostra come in Italia si fatichi a
sviluppare una cultura dei servizi per il lavoro.
1
Comitato Occupazione, Lavoro e Affari Sociali dell’OCSE, Rafforzare le politiche attive del
lavoro in Italia, 2019.
2
In questo senso, Seghezzi F., Tiraboschi M., La falsa promessa delle vecchie politiche attive, in
Bollettino ADAPT, 2018, n. 5.
2
Esso, però, è anche il risultato di caratteristiche proprie dell’economia italiana: la
dimensione delle imprese; le radicate differenze territoriali; l’uso distorto degli
ammortizzatori sociali. A tal proposito, si sottolinea che negli anni della crisi, il
forte aumento delle risorse destinate alle politiche del lavoro è interamente dovuto
all’espansione delle politiche passive, mentre in rapporto al PIL il peso delle
politiche attive è leggermente diminuito
3
.
Ad ogni modo, nonostante le criticità esposte, le più recenti riforme in materia di
politiche per il lavoro hanno tentato di favorire gli interventi di politica attiva,
vincolando l’accesso agli ammortizzatori sociali a meccanismi di condizionalità,
che prevedono che il beneficiario si impegni attivamente nella ricerca di un nuovo
impiego.
Si assiste, dunque, ad una generale inversione di tendenza e gli interventi
riformatori investono anche l’assetto istituzionale del mercato del lavoro italiano.
In particolare, le numerose riforme di questi anni sono state caratterizzate
dall’alternanza tra spinte al decentramento ed aspirazioni neocentraliste, con
risultati non sempre coerenti.
Resta il fatto che attualmente – e forse ancor di più in prospettiva – le regioni sono
protagoniste assolute nella definizione delle strategie in materia di politiche per il
lavoro, sebbene la programmazione degli interventi di politica attiva, dopo il
decreto legislativo n. 150/2015, attuativo del Jobs Act, debba muoversi all’interno
di indirizzi e criteri stabiliti a livello centrale.
Per questo motivo, nel corso del presente lavoro l’esposizione della tematica
privilegerà il punto di vista regionale, analizzando la spesa sostenuta dalle regioni
in materia di politiche del lavoro e della formazione professionale, al fine di
comprendere se le scelte di investimento da esse sostenute siano la ragione di un
così differenziato quadro nazionale, caratterizzato da buone prassi e gravi
inefficienze.
Senza trascurare l’attualità, inoltre, si tenterà di valutare il possibile impatto del
regionalismo differenziato sul sistema delle politiche attive per il lavoro,
esponendo i vantaggi – e gli svantaggi – che accompagnano ogni processo di
decentramento.
3
Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Spesa per le politiche occupazionali e del lavoro, in
Quaderni di studi e statistiche sul mercato del lavoro, n. 4, 2015.
3
CAPITOLO I
LE POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO IN ITALIA
1.1 Le politiche del lavoro: aree di policy, classificazioni e destinatari
Le politiche del lavoro riguardano un insieme composito di interventi pubblici
diretti al raggiungimento e al mantenimento di un elevato e stabile livello
occupazionale
4
. Nel perseguire tale scopo, gli interventi di politica del lavoro
modificano e correggono gli assetti complessivi del mercato, favorendo categorie
svantaggiate.
In un'ottica più ampia, le politiche del lavoro possono essere considerate un
sottoinsieme delle politiche sociali, ossia corsi di azione volti a definire norme,
standard e regole per una più equa distribuzione di risorse ed opportunità, al fine
di garantire il benessere (welfare) dei cittadini.
Come spesso accade, tuttavia, alla chiarezza della formula definitoria non
corrisponde un’altrettanto limpida delimitazione dei confini di questo settore di
policy. L’obiettivo della crescita dell’occupazione, infatti, può essere perseguito
attraverso una pluralità di misure in campo economico, sociale e fiscale.
Nonostante le sovrapposizioni e le reciproche relazioni con altri settori, in dottrina
sono state elaborate diverse classificazioni delle politiche del lavoro, la
maggioranza delle quali ricorre al criterio distintivo dell’obiettivo perseguito
5
.
Una delle classificazioni più note è senz’altro quella tra “interventi passivi”,
indirizzati alla mera tutela del reddito della persona in cerca di occupazione, ed
“interventi attivi”, finalizzati a rendere più efficiente il mercato del lavoro,
incrementando i livelli occupazionali.
La diffusione della schematizzazione citata è dovuta principalmente al suo
frequente impiego da parte di organizzazioni sovranazionali, quali la
Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e l’Unione
4
Beveridge W., Full Employment in a Free Society, 1944.
5
In questo senso, Reyneri E., Introduzione alla sociologia del mercato del lavoro, Bologna, il
Mulino, 2017.
4
Europea
6
; ciononostante, la dottrina più consapevole è da tempo fortemente critica
nei confronti della tradizionale dicotomia tra politiche attive e passive. Come
segnalano alcuni autori
7
, infatti, la rigidità di una simile classificazione appare
problematica oltre che parziale, escludendo di fatto le norme che presiedono alla
definizione dei rapporti di lavoro, ovvero quelle che stabiliscono le procedure di
assunzione e licenziamento. Queste ultime, a ben vedere, esercitano una
significativa influenza sulla struttura dell’occupazione e della disoccupazione
8
e,
dunque, sugli assetti complessivi delle cosiddette “misure passive” e “misure
attive”.
Per queste ragioni, sembra preferibile accogliere la schematizzazione di seguito
proposta
9
, nell’intento di individuare quattro sottogruppi di politiche del lavoro
sulla base dei principali compiti che esse si prefiggono di assolvere:
1. le misure indirizzate alla regolazione dei rapporti di lavoro;
2. le misure di sostegno o mantenimento del reddito, dirette ad assicurare i
lavoratori contro i rischi della disoccupazione involontaria o della sospensione
o riduzione delle attività lavorative;
3. le misure volte ad aumentare l’occupazione di particolari categorie di
lavoratori (giovani, donne, disoccupati di lunga durata);
4. infine, gli interventi diretti a modificare quantità e qualità dell’offerta di
lavoro (ad esempio, la formazione e la riqualificazione professionale).
Le politiche del lavoro, inoltre, si distinguono dalle politiche occupazionali di
portata generale – come, ad esempio, gli interventi tesi alla riduzione dei costi del
6
Rosati L., Progettare per l'Europa, in Lulu.com, 2007. Nell'ambito delle strategie comunitarie
per la lotta alla disoccupazione, si è giunti, durante la programmazione 1994-99, alla definizione di
una linea strategica comune, centrata sui principi dell'approccio preventivo ed attivo alle
problematiche dell'occupazione. Tale strategia ha inteso integrare e superare le passate politiche di
approccio "passivo" centrate su misure assistenziali e previdenziali. La SEO (Strategia Europea
per l’Occupazione) ha condotto, quindi, ad una nuova impostazione delle programmazioni
specifiche, ratificata nel 1997 dal Consiglio Europeo Straordinario di Lussemburgo.
7
Vesan P., La politica del lavoro, in Ferrera M. (a cura di), Le politiche sociali, Bologna, il
Mulino, 2012.
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A tal proposito, occorre evidenziare come studi recenti (Forges Davanzati G., Mongelli L., La
precarizzazione del lavoro e la recessione italiana, in MicroMega online, 2017) abbiano smentito
il convincimento – a lungo dominante nel dibattito accademico – secondo il quale la
deregolamentazione del mercato del lavoro sia uno strumento di policy necessario per accrescere
l’occupazione. Secondo gli autori, la relazione tra il grado di protezione del lavoro (Employment
Protection Legislation Index) e il tasso di occupazione non è necessariamente inversa; al contrario,
le misure di deregolamentazione del mercato del lavoro possono avere effetti di segno negativo
sull’andamento del tasso di occupazione, costituendo un fattore di freno alla crescita economica.
9
Gualmini E., Rizza R., Le politiche del lavoro, Bologna, il Mulino, 2013.
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lavoro o la riduzione generalizzata delle tasse e/o dei contributi sociali – perché
caratterizzate dal principio di selettività, in base al quale ogni intervento è
orientato ad un gruppo specifico di individui (target group).
In particolare, possono essere individuate almeno tre categorie alle quali gli
interventi di politica del lavoro sono generalmente orientati:
1. i disoccupati, ossia le persone senza lavoro, ma attivamente impegnate nella
ricerca di un’occupazione e disponibili ad accettare eventuali proposte
lavorative;
2. gli occupati a rischio di disoccupazione, ossia coloro i quali rischiano di
perdere involontariamente il proprio impiego a causa della congiuntura
economica negativa o di un periodo di crisi aziendale e/o settoriale;
3. la quota di inattivi
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detta “forza di lavoro potenziale”
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, formata da individui
che sarebbero disponibili, a determinate condizioni, ad entrare a far parte della
forza di lavoro. Rientrano in questa categoria i cosiddetti scoraggiati, ossia
coloro i quali avendo cercato lavoro senza successo hanno perso la speranza di
accedere ad un’occupazione; ovvero persone gravate da compiti di cura – il
più delle volte donne – che, alleviate dagli obblighi legati alle attività
domestiche, si offrirebbero sul mercato del lavoro.
Ebbene, riferendoci ai quattro programmi di politiche del lavoro più sopra
evidenziati, è possibile osservare come il secondo sia certamente riconducibile
alle politiche del lavoro di tipo passivo, mentre il terzo e il quarto riguardino le
politiche cosiddette attive o proattive
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. Il secondo programma, infatti, svolge
essenzialmente una funzione di garanzia del reddito per chi è senza lavoro; il terzo
e il quarto, invece, puntano a rendere più efficiente il funzionamento del mercato
del lavoro.
Più nel dettaglio, l’adeguamento delle caratteristiche professionali dell’offerta; la
definizione di una rete di servizi per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro; la
creazione di particolari occasioni di lavoro; gli incentivi alle assunzioni ed il
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Un’altra quota di inattivi è rappresentata da coloro che non cercano lavoro e non sono
disponibili a lavorare.
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Le forze di lavoro potenziali comprendono due segmenti di inattivi: gli individui che non
cercano attivamente un lavoro, ma sono disponibili a lavorare; le persone che cercano lavoro ma
non sono subito disponibili.
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Vesan P., op. cit.