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1 Introduzione
Lo stato di qualità dell’aria è una delle problematiche ambientali che più
preoccupano gli amministratori locali e regionali e che coinvolge quotidianamente tutti i
cittadini. Se il concetto di benessere (wellness) un tempo era sinonimo di ricchezza
materiale e sviluppo economico, oggi è riconducibile ad aspetti - quali stato di salute,
ambiente, relazioni sociali - più strettamente collegati alla percezione soggettiva dei
singoli individui.
L’inquinamento atmosferico nelle aree urbane è diventato un problema ambientale
di notevole entità, a causa degli effetti negativi che si osservano sulla salute umana,
quindi sul benessere. Le condizioni di vita dell’uomo dipendono direttamente da quelle
dell’ecosistema territoriale in cui vive, pertanto è necessario proteggere e preservare
l’ambiente per assicurare una qualità di vita sostenibile per le generazioni attuali e
future. Gli effetti dell’esposizione all’inquinamento possono variare dalla morte
prematura a molti effetti cronici come la riduzione delle abilità fisiche, problemi
respiratori, ecc., effetti evidenziati dai costi sociali dovuti alla perdita della produttività
e all’aumento delle spese mediche (Escobedo, 2009).
L’ecosistema naturale, costituito dagli spazi verdi urbani e dagli spazi agronaturali
che la città ha incorporato nella propria frangia periurbana, è un capitale prezioso che la
città costruita incorpora in se stessa; una buona gestione ambientale della città non può
trascurare questo patrimonio e soprattutto non può prescindere dalla sua natura di
ecosistema, cioè di entità vivente, costituita di parti interdipendenti, di cui la città ha
bisogno per assicurare ai suoi abitanti uno standard di vita salubre.
Il concetto di “verde pubblico” nasce con l’Illuminismo per elevarsi, dalla
rivoluzione francese in poi, a simbolo di apparente eguaglianza sociale: nei boulevardes
e nelle aree verdi il piccolo borghese e il proletario possono liberamente passeggiare a
fianco del possidente e dell’aristocratico, cosa che non sarebbe mai potuta accadere nei
giardini della reggia di Versailles (ISPRA, 2009).
In questo studio, tra la varietà di fattori, si sono scelti quelli che sono stati ritenuti
idonei a mostrare nel suo insieme e in modo semplificato le problematiche relative
all’inquinamento atmosferico in ambiente urbano. La metodologia seguita, parte da una
classificazione degli indicatori inerenti tali problematiche, in base allo schema Pressione
Stato Risposta (PSR), che con il concetto di causa/effetto segue la tendenza a livello
internazionale (OECD, 1993).
Questo modello si basa su una relazione di causalità: le attività umane esercitano
una pressione sull'ambiente e cambiano la qualità e la quantità delle risorse naturali (lo
stato). La società risponde successivamente a questi cambiamenti attraverso politiche
settoriali o generali, tenendo presente il rischio di fornire una relazione lineare del
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processo causa-effetto che, nella realtà della relazione uomo-ambiente, può essere
invece molto più complessa.
Al modello PSR, è seguito l’ampliamento denominato DPSIR (Driving force-
Pressure-State-Impact-Response), introdotto nel 1995 dall’Agenzia Europea per
l’Ambiente (EEA), che aggiunge gli indicatori di causa e quelli di impatto. Questo
modello non verrà considerato in questo studio, se non marginalmente (come nel caso
degli effetti sulla salute), ma si seguirà il modello originario come descritto.
In base al modello PSR vengono individuati dapprima i fattori di pressione, ovvero
quei parametri che rappresentano quanto le attività umane influenzano lo stato
dell’ambiente, ed in particolare verranno valutate le emissioni dei diversi inquinanti per
tipologia di fonte. A questi fattori primari, si vogliono affiancare anche quelli legati alle
condizioni meteorologiche, che influenzando la distribuzione e l’accumulo degli
inquinanti.
In seguito si prendono in esame i fattori di stato, che fanno riferimento alle
condizioni dell’ambiente quindi alle concentrazioni
1
degli inquinanti, con particolare
riferimento ad indicatori del rischio per la salute.
Infine, come esempio delle azioni intraprese per limitare il degrado ambientale,
viene considerata la capacità della vegetazione arborea presente nel trattenere gli
inquinanti, individuando dei fattori di risposta che possano riassumere la capacità e
l’efficienza all’abbattimento degli inquinanti atmosferici, di alberature, formazioni
lineari e aree verdi urbane. A questo scopo si è proceduto seguendo, con opportuni
adattamenti, il modello UFORE (acronimo di “Urban Forest Effects”), che, sulla base
degli studi condotti dai Servizi Forestali americani, insegue l’obbiettivo di stimare il
valore del verde urbano analizzandone le diverse funzioni (USDA NRS et al., 2004).
1
Intesa come quantità di inquinante presente in un volume unitario di aria. La misura della
concentrazione in aria di un inquinante è sempre associata all'intervallo di tempo a cui questa
concentrazione è riferita. Il tempo di mediazione è un parametro essenziale nella valutazione delle
concentrazioni, in quanto i valori associati per esempio a medie orarie (NO
2
) sono diversi da quelli
associati a medie giornaliere (PM10) o annuali (NO
2
, SO
2
).
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2 Agenti inquinanti
2.1 Monossido di carbonio (CO)
Il monossido di carbonio è un composto inodore e incolore, che si genera perlopiù
dalla combustione incompleta di composti contenenti carbonio, soprattutto in ambienti
poveri di ossigeno.
La più importante sorgente di emissione di monossido si carbonio (circa il 90%) è il
trasporto stradale
2
. La produzione di inquinante dai motori dipende da:
rapporto aria – combustibile: più “ricca” è la miscela
3
, più CO è emesso (Manahan,
2000); si spiega così perché il diesel, che utilizza miscele povere, ha emissioni di
CO molto ridotte;
temperatura dell’acqua di raffreddamento del motore;
caratteristiche tecniche della camera di combustione;
stato di usura del motore;
condizione di marcia: al diminuire della velocità le emissioni di CO aumentano
raggiungendo i valori massimi con il motore al minimo.
L'introduzione delle marmitte catalitiche ha migliorato la situazione, anche se non
ancora a sufficienza per il rispetto completo della normativa.
Le emissioni industriali di CO sono dovute essenzialmente ai processi di
lavorazione della ghisa e dell’acciaio ed ai processi di rigenerazione dei catalizzatori
utili nella trasformazione del petrolio. Le industrie del legno e della carta emettono CO
durante la distillazione per il recupero di prodotti chimici pregiati e di energia calorifica
dal liquido nero che si forma nel processo di trattamento del legno; altre emissioni di
CO provengono da forni usati per rigenerare la calce dal carbonato di calcio. Si
aggiungono poi le emissioni dovute alla combustione in impianti fissi che impiegano
carbone, olio combustibile e legno, mentre la combustione di gas naturale produce
emissioni trascurabili.
2
In mancanza di analisi più recenti, si può solo presumere che la situazione, nella migliore delle ipotesi,
sia rimasta costante, anche se è assodato che il trasposto su gomma sia aumentato negli ultimi anni,
portando con sé un aumento dell’inquinamento atmosferico.
3
Per miscela “ricca” o “grassa”si intende quella con un rapporto aria/carburante inferiore a 14,7
(rapporto stechiometrico), mentre per miscela “povera” o “magra” si considera quella con rapporto
inferiore a 14,7. Mentre i motori a benzina hanno in genere un rapporto prossimo a quello
stechiometrico, per i motori a diesel il rapporto aria/carburante e sempre molto più alto (20-100).
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Dato che il CO ha un lungo tempo di persistenza nell’aria (circa 3 anni) e le
emissioni sono costantemente in aumento, ma non si registrano valori significativi
nell’aria, si ipotizza sia la capacità di alcuni microrganismi (in particolare funghi capaci
di metabolizzare CO) comunemente presenti nel terreno di rimuovere molto rapidamente
il CO presente nell’atmosfera (Manahan, 2000), sia un rilevante coinvolgimento del CO
in reazioni con il radicale ossidrile (creando un processo esotermico con formazione di
HOCO) o, come agente riducente, con il NO (Manahan, 2000; Baird e Cann, 2006).
Il monossido di carbonio è tossico perché legandosi saldamente agli atomi di ferro
nell'emoglobina del sangue forma un complesso molto più stabile di quello formato
dall'ossigeno. La formazione di questo complesso fa sì che l'emoglobina sia stabilizzata
nella forma di carbossiemoglobina (COHb) che, per le sue proprietà allosteriche, rilascia
più difficilmente ossigeno ai tessuti (circa 250 volte di meno).
A causa del traffico automobilistico la popolazione urbana è spesso soggetta a
lunghe esposizioni a basse concentrazioni. La lenta intossicazione da ossido di carbonio
prende il nome di ossicarbonismo e si manifesta con sintomi nervosi e respiratori.
Nel sangue è presente una percentuale di carbossiemoglobina che dipende dalla
concentrazione di CO alla quale una persona è esposta (sono considerate fisiologiche
concentrazioni di carbossiemoglobina minori dell’1% dell’emoglobina circolante nel
sangue): per ogni mg/m
3
di CO presente in aria, lo 0,14 % di emoglobina viene
trasformato in carbossiemoglobina. Quando nell’aria la concentrazione di CO è di
14-36 mg/m
3
si arriva al 2-5 % di carbossiemoglobina e si manifestano i primi segni con
aumento delle pulsazioni cardiache, aumento della frequenza respiratoria e disturbi
psicomotori.
2.2 Ossidi di azoto (NOx)
In riferimento all’inquinamento atmosferico gli ossidi di azoto che destano
maggiore preoccupazione sono il monossido di azoto (NO) e il biossido di azoto (NO
2
).
Tali prodotti si ottengono dalla reazione di azoto e ossigeno comunemente presenti
nell’aria e di cui sono i maggiori costituenti; i due gas reagiscono solamente ad elevate
temperature, per cui tipicamente le combustioni sono le maggiori produttrici (circa il
90%).
La tossicità del monossido di azoto è limitata, al contrario di quella del biossido di
azoto che risulta invece notevole (circa 4 volte maggiore di quella del NO). Il biossido
di azoto è un gas di colore rosso bruno, di odore pungente e più denso dell'aria, quindi i
suoi vapori tendono a rimanere a livello del suolo.
La principale fonte di ossidi di azoto di origine naturale (soprattutto con emissione
di N
2
O) è l’azione batterica (livello di fondo , che possono essere considerati naturali
9
sono nell’intervallo 0,4 - 9,4 µg/m
3
), mentre le emissioni da fonti antropiche derivano
sia da processi di combustione (centrali termoelettriche, riscaldamento, traffico), che da
processi produttivi senza combustione (produzione di acido nitrico, fertilizzanti azotati,
ecc.). Il tempo di permanenza medio degli ossidi di azoto in atmosfera è breve: circa tre
giorni.
Riguardo agli effetti sull’uomo, il maggior pericolo deriva dal coinvolgimento degli
ossidi di azoto nella formazione dello smog fotochimico, come precursore dell'ozono
troposferico. L’inalazione del biossido di azoto provoca irritazioni all'apparato
respiratorio e agli occhi; a concentrazioni elevate può causare bronchiti fino anche a
edemi polmonari e decesso in quanto è in grado di combinarsi con l'emoglobina
modificandone le proprietà chimiche e fisiologiche con formazione di metaemoglobina
che non è più in grado di trasportare ossigeno ai tessuti.
Lunghe esposizioni anche a basse concentrazioni provocano una drastica
diminuzione delle difese polmonari con conseguente aumento di rischio di affezioni alle
vie respiratorie.
2.3 Ozono (O3)
L’ozono è un gas naturalmente presente nella troposfera in concentrazioni
dell’ordine di 20 - 80 µg/m
3
, costituito da molecole instabili formate da tre atomi di
ossigeno (O
3
); queste molecole si scindono facilmente liberando ossigeno molecolare
(O
2
) ed un atomo di ossigeno estremamente reattivo. La presenza dell’ozono nella parte
alta della stratosfera è di particolare importanza per la salute dell’ambiente, in quanto
assorbe buona parte delle radiazioni ultraviolette dirette sulla terra, mentre a livello del
suolo la presenza in alte concentrazioni può provocare effetti dannosi sull’organismo.
L’O
3
è un agente inquinante secondario, poiché non è prodotto direttamente
dall’attività dell’uomo, ma in genere è generato nell’aria dalla reazione di inquinanti
primari in condizioni climatiche caratterizzate da una forte radiazione solare,
temperature elevate, in presenza di alta pressione e bassa ventilazione. Nella stagione
calda l’azione della luce solare può quindi innescare reazioni fotochimiche con
produzione di ozono, condizioni aggravate dall’aumento - dovuto alla temperatura -
della concentrazione degli idrocarburi reattivi (in particolare NMHC - Non Methanic
Hydro Carbons).
La molecola dell’ozono è estremamente reattiva, in grado di ossidare numerosi
componenti cellulari, fra i quali amminoacidi, proteine e lipidi; gli effetti sull’uomo di
una eccessiva esposizione all’ozono riguardano essenzialmente l’apparato respiratorio e
gli occhi.
10
Alla concentrazione di 15-40 µg/m
3
(8-20 ppb) è possibile già rilevarne l’odore; a
200 µg/m
3
provoca una irritazione agli occhi ed alla gola per la sua azione nei confronti
delle mucose (Compagnin, 2010). Concentrazioni più elevate causano irritazioni
all’apparato respiratorio, tosse ed un senso di oppressione al torace che rende
difficoltosa la respirazione. I soggetti più sensibili, come gli asmatici e gli anziani
possono essere soggetti ad attacchi di asma anche a basse concentrazioni. Alla
concentrazione di 2 mg/m
3
provoca mal di testa e a 3,4 mg/m
3
può produrre edema
polmonare.
Oltre agli effetti acuti e diretti si possono osservare anche effetti legati a una lunga
esposizione che determina una diminuzione della funzione respiratoria, con
infiammazione del tessuto polmonare ed un invecchiamento precoce dei polmoni.
Elevate concentrazioni di ozono in atmosfera recano danni anche alla vegetazione;
infatti l’ozono è assorbito dalle piante a livello fogliare con un’azione dannosa al
metabolismo fotosintetico.
2.4 Ossidi di Zolfo (SOx)
Normalmente gli ossidi di zolfo presenti in atmosfera sono l’anidride solforosa
(SO
2
) e l’anidride solforica (SO
3
); questi composti vengono anche indicati con il termine
comune SO
x
.
L’anidride solforosa o biossido di zolfo è un gas incolore, irritante, non
infiammabile, molto solubile in acqua e dall’odore pungente. Dato che è più pesante
dell’aria tende a stratificarsi nelle zone più basse.
Il biossido di zolfo si forma nel processo di combustione per ossidazione dello zolfo
presente come impurezza nei combustibili solidi e liquidi (carbone, olio combustibile,
gasolio). Le principali fonti di emissione sono legate alla produzione di energia, agli
impianti termici, ai processi industriali e al traffico.
L'SO
2
è tra i responsabili delle "piogge acide", in quanto tende a trasformarsi in
anidride solforica e, in presenza di umidità, in acido solforico. In particolari condizioni
meteorologiche e in presenza di quote di emissioni elevate, può diffondersi
nell'atmosfera ed interessare territori situati anche a grandi distanze (inquinamento
transfrontaliero). Il biossido di zolfo è anche componente secondario nella formazione di
PM10.
Per l’elevata solubilità in acqua, il biossido di zolfo viene facilmente assorbito dalle
mucose del naso e del tratto superiore dell’apparato respiratorio ed è estremamente
irritante a causa dell’elevata reattività. È stato notato un effetto sinergico con le polveri
sospese per la capacità che queste hanno di veicolare gli inquinanti nelle zone più
profonde dell’apparato respiratorio.
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A basse concentrazioni gli effetti del biossido di zolfo sono principalmente legati a
patologie dell’apparato respiratorio come bronchiti, asma e tracheiti e ad irritazioni della
pelle, degli occhi e delle mucose.
Analisi epidemiologiche hanno evidenziato un aumento dei ricoveri ospedalieri,
specie di anziani e bambini, a concentrazioni superiori a 300 µg/m
3
. Già a
concentrazioni di 60 µg/m
3
come valore medio annuale si verificano episodi di bronchite
e infezioni alle prime vie respiratorie.
2.5 I particolati
I particolati consistono in particelle solide e liquide di diametro variabile, perlopiù
fra 100 µm e 0,1 µm, che in Italia, secondo la WHO/OMS - Organizzazione Mondiale
della Sanità, sono responsabili della morte di 106 persone al giorno ovvero di una
speranza di vita diminuita di nove mesi. (Cianciullo, 2005)
In base alla natura e alle dimensioni delle particelle, possiamo distinguere:
gli aerosol, costituiti da particelle solide o liquide sospese in aria e con un diametro
inferiore a 100 µm;
le foschie, date da goccioline con diametro inferiore a 2 µm;
le esalazioni, costituite da particelle solide con diametro inferiore ad 1 µm e
rilasciate solitamente da processi chimici e metallurgici;
il fumo, dato da particelle solide di solito con diametro inferiore ai 2 µm;
le polveri (vere e proprie), costituite da particelle solide con diametro fra 0,25 e 500
micron;
le sabbie, date da particelle solide con diametro superiore ai 500 µm.
Il particolato si distingue anche per l’origine: le particelle primarie sono quelle che
vengono emesse come tali dalle sorgenti naturali ed antropiche, mentre le secondarie si
originano da una serie di reazioni chimiche e fisiche in atmosfera.
In ambienti extraurbani, i particolati presenti in atmosfera provengono in buona
parte da processi naturali, quali le eruzioni vulcaniche e l’azione del vento sulla polvere
e sul terreno. L’attività dell’uomo è invece responsabile dell’inquinamento più
pericoloso perché collegato al particolato più fine (fumi), derivante dai processi di
combustione incompleta. Per quanto riguarda gli impianti fissi, il maggior contributo è
fornito dalle centrali termoelettriche, mentre tra i processi industriali quelli metallurgici
occupano il primo posto nell’emissione di polveri inquinanti, seguiti dalle industrie di
lavorazione delle pietre e del cemento, mentre al terzo posto si trova l’industria delle
lavorazioni e dello stoccaggio del grano.
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In condizione di calma di vento esiste una relazione tra dimensione e velocità di
sedimentazione, per cui il periodo di tempo in cui le particelle rimangono in sospensione
può variare da pochi secondi a molti mesi.
Le polveri PM10 rappresentano il particolato che ha un diametro inferiore a 10
micron, mentre i PM2,5, che costituiscono circa il 60% delle PM10, rappresentano il
particolato che ha un diametro inferiore a 2,5 micron.
In particolare si distinguono:
Particolato grossolano – particolato sedimentabile di dimensioni superiori ai 10 µm,
costituito esclusivamente da particelle primarie, non è in grado di penetrare nel
tratto respiratorio superando la laringe, se non in piccola parte.
PM10 – particolato formato da particelle inferiori a 10 µm, è una polvere inalabile,
ovvero in grado di penetrare nel tratto respiratorio superiore (naso e laringe). Le
particelle fra circa 5 e 2,5 µm si depositano prima dei bronchioli.
PM2,5 – particolato inalabile con diametro inferiore a 2,5 µm, è una polvere
toracica, cioè in grado di penetrare profondamente nei polmoni, specie durante la
respirazione dalla bocca. Negli ultimi anni ha acquistato una notevole importanza
nella valutazione della qualità dell’aria, soprattutto in relazione agli aspetti sanitari
legati a questa frazione di particolato in grado di giungere fino al tratto inferiore
dell’apparato respiratorio.
Per dimensioni ancora inferiori (particolato ultrafine, UFP o UP) si parla di polvere
respirabile, cioè in grado di penetrare profondamente nei polmoni fino agli alveoli.