INTRODUZIONE Il presente lavoro studia il fenomeno mafioso dalle origini al 1993. E’ stato
importate conoscere le origini dell’organizzazione malavitosa, perché attraverso il
suo excursus storico si è potuto evidenziare meglio la complessità
dell’organizzazione criminale, e le sue ramificazioni nella società civile.
Nella ricostruzione ho utilizzato i lavori degli storici Salvatore Francesco
Romano, Nicola Tranfaglia, Paolo Pezzino, Giovanni Tessitore, Giuseppe
Casarrubea, Salvatore Lupo, Max Polo, Anton Blok, Henner Hess e John Dickie ed
anche di politici e giornalisti, quali Michele Pantaleone, Luciano Violante, Umberto
Santino.
La ricerca si è avvalsa, oltre che del dibattito storiografico, anche dei
resoconti parlamentari delle Commissioni Antimafia e delle inchieste giornalistiche
del quotidiano «La Sicilia».
La tesi è suddivisa in sette capitoli, il primo dei quali è dedicato agli studi
sugli apparati giuridici del fenomeno.
Il secondo capitolo affronta la mafia dalle origini all’Unità d’Italia
evidenziando gli aspetti della società siciliana durante il periodo borbonico in cui gli
storici hanno individuato l’esistenza di un fenomeno pre-mafioso.
Il terzo capitolo è dedicato al periodo 1861 – 1882 cioè dalla formazione del
Regno d’Italia, evidenziando come la mafia abbia avuto un ruolo nel processo di
unificazione, nell’affermazione di una nuova mafia che aveva accresciuto il suo
potere di mediazione tra i grandi latifondisti e i contadini.
Il quarto ricostruisce l’evoluzione della mafia tra Otto e Novecento, dalla
"legalizzazione" della mafia all’età giolittiana e ai «block bosses». In questo periodo
il potere mafioso s’inserisce nelle varie sfere istituzionali della società siciliana,
partecipando alla politica, all’economica e ai "salotti", un’altra parte fu preda di
feroci repressioni di polizia che portò alla fuga in America di alcuni suoi esponenti,
i quali poi diedero vita alle associazioni dei "block bosses".
Nel quinto capitolo si individua la formazione della "nuova mafia" ovvero,
quella che operò durante il periodo 1915 - 1939. Si evidenzia come il fenomeno abbia
5
avuto una radicale trasformazione dovuta a nuovi aspetti generazionali, partecipando al
regime fascista e resistendo alle repressioni del prefetto Mori.
Il sesto capitolo studia il comportamento mafioso manifestatosi durante la
seconda guerra mondiale, fino alla strage di Portella della Ginestra, ed analizza fatti e
circostanze inerenti la sua attiva partecipazione nella liberazione della Sicilia da parte
degli Alleati Il settimo capitolo esamina il periodo caratterizzato dal boom economico degli
anni Cinquanta fino alle stragi degli anni Novanta. Si analizza come la mafia siciliana e
quella americana abbiano sfruttato lo sviluppo economico per aumentare gli affari in
vari settori economici. Inoltre si evidenziano alcuni aspetti dell’intreccio fra mafia,
massoneria e terrorismo rosso, che ha rappresentato uno dei momenti più difficili della
storia repubblicana; un periodo che si concluse con le lotte intestine di Cosa Nostra e la
guerra con lo Stato nei primi anni Novanta, che ricordano l’arresto di Salvatore di Riina,
di alcuni politici per mafia.
Secondo Salvatore Lupo e Nicola Tranfaglia, la mafia viene percepita
dall’opinione pubblica come un aspetto che identifica una parte della classe politica
nazionale, della «partitocrazia» o, come sostiene Tranfaglia, quella della degenerazione
della vita pubblica italiana.
Lo studio comparativo della tesi si ferma al 1993 perché, come postulato da
Lupo, antecedente a tale data, con la morte di Falcone e Borsellino, muore anche lo
Stato, per poi resuscitare subito dopo con gli arresti di politici e mafiosi 1
.
1 Salvatore Lupo, Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Donzelli, Roma 1996, p. 21.
6
CAPITOLO I
GLI STUDI SULLA MAFIA Salvatore Francesco Romano fu uno dei primi storici contemporanei che,
negli anni Settanta, si cimentarono con gli studi sulla mafia in Sicilia. Egli
individuava nella mafia, prima ancora che un’organizzazione, il modo di vita di una
società feudale, obbediente ad una legge in cui la forza e il coraggio personale
conservavano una importanza decisiva, dove il legame con il ricco e il potente
assicurava al debole vantaggi e protezione; viceversa, assicurava al potere lo
strumento di una potenza che si poneva di al sopra della legge 2
.
Analogamente Henner Hess, altro studioso del fenomeno mafioso, in una sua
ricerca pubblicata nel 1970, ha precisato la distinzione tra la mafia, il banditismo e il
brigantaggio, fenomeni che alimentavano la cosiddetta mafia "bassa".
La mafia, precisava Hess, non era un’organizzazione, non era una società segreta, ma
un metodo che si era sviluppato in determinati rapporti sociali, nei quali il mafioso
attraverso la minaccia e la violenza fisica non si procurava soltanto un profitto
materiale o di prestigio, ma assolveva anche a funzioni che rientravano nel sistema
subculturale, perché si poneva al servizio di altri soggetti sociali 3
.
Per Hess le cause dei comportamenti mafiosi determinavano la debolezza
della struttura politica della Sicilia e degli organi del potere ufficiale e dipendevano
dalla diffidenza, anzi dall’ostilità, verso le istituzioni dei siciliani, i quali si ritiravano
nel loro sistema informale di auto-soccorso basato sulla famiglia e sulla clientela 4
.
Quanto alle funzioni sociali fondamentali per l’ascesa sociale del mafioso, Hess ne
indicava quattro: di mediazione, di protezione, di regolamentazione economica e la
funzione politica attraverso la quale il mafioso consolidava la sua protezione,
affermandosi anche nel potere istituzionale.
Le funzioni di protezione e di mediazione sono, nell’interpretazione di Hess,
quelle originarie della mafia, che rivelavano come l’assenza di fiducia tra privati, e
tra privati e Stato, fosse alla base di un fenomeno che non sembrava essersi verificato
2 Salvatore Francesco Romano, Storia della mafia, Arnoldo Mondadori, Verona 1966, p. 169.
3 Henner Hess, Mafia. Le origini e la struttura, Laterza, Roma - Bari 1993, p. 173.
4 Ibidem 7
nei paesi in cui lo stato di diritto si fosse formalizzato subito dopo la caduta
dell’ordinamento preunitario 5
.
Secondo Hess il mafioso era un uomo il cui agire era determinato dall’attitudine
mafiosa e che agiva nell’ambito della cosca. Il mafioso, anche se con le sue azioni di
violenza privata infrangeva il diritto codificato, era un "uomo di rispetto", cittadino
onorato del paese. Egli non viveva, come il bandito, in una situazione precaria
d’eccezione. La sua posizione era legittimata dalla morale popolare ed era
particolarmente consolidata dal fatto che la sua attività non mirava soltanto a soddisfare
i propri bisogni, ma rivestiva in tutto, il sistema subculturale, esercitando precise
funzioni di protezione e di mediazione. Egli non cadeva, come il bandito, in contrasti
sempre più forti con i poteri dello Stato, ma si adoperava con successo, durante la sua
carriera, a legalizzare la propria posizione perché disponeva di un «partito», di una rete
di relazioni con i detentori del potere istituzionalizzato che venivano mantenute da
continue prestazioni reciproche.
Hess credeva che la figura del mafioso non sarebbe esistita se non si fosse
verificata la decadenza dell’ordinamento feudale unitamente al fallimento dello Stato
nell’attuare, efficacemente, il «legittimo monopolio di coercizione fisica»; nel senso che
il ruolo del mafioso si affermava quando la disciplina feudale avesse perso la propria
legittimità e lo Stato non avesse ancora promulgato e imposto le nuove norme.
Infine, secondo Hess, allorquando lo Stato riuscisse a far accettare le proprie
leggi e la morale della comunità locale coincideva con la morale dello Stato, il mafioso
diventava un delinquente 6
.
Anton Blok, in uno studio pubblicato nel 1974, riteneva che le azioni dei mafiosi
non erano solamente espressioni di un peculiare carattere siciliano, ma un insieme di
fattori economici e politici che spiegano perché la mafia fosse virtualmente scomparsa
nel periodo fascista, per poi riemergere dopo la seconda guerra mondiale.
Secondo Blok il fenomeno mafioso va studiato individuando i legami causali tra
la prevalenza della violenza privata e la struttura della vita economica e politica.
A questa teoria Blok è giunto analizzando la struttura sociale locale, secondo cui
essa era divisa in tre classi, quella dei contadini senza terra o con poca terra; quella dei
contadini che cedevano al proprietario del fondo la maggior parte della produzione,
5 Ibidem 6 Ivi, pp. 20 - 23.
8
quella dei proprietari fondiari i quali pur risiedendo a Palermo e in altre città,
possedevano la maggior parte delle terre e vivevano di rendita. Tra i lavoratori e i
proprietari s’intercalavano una serie di mediatori e imprenditori, i cosiddetti gabellotti,
gli ispettori e coloro che venivano ingaggiati per proteggere i beni del proprietario
terriero controllando affittuari e lavoratori agricoli e reprimendo le loro azioni e diritti,
imprenditori e mediatori assicuravano le entrate del proprietario terriero difendendone il
potere locale; in cambio ottenevano ampia libertà di sfruttare e reprimere i lavoratori per
propri scopi.
Blok ritiene che i mafiosi non avrebbero potuto tiranneggiare la gente comune se
non avessero vantato la protezione di persone più ricche e potenti di quanto non lo
fossero loro, mentre i grandi proprietari terrieri, che proteggevano i mafiosi, non
avrebbero potuto godere della loro libertà di azione se non avessero stabilito una specie
di accordo di non intervento con le autorità regionali e nazionali.
Se lo Stato nazione fosse vissuto meno, sarebbe diminuito la capacità delle
persone che si trovavano nel sistema del clientelismo, di protezione e di dominio 7
. Blok
osserva che i rapporti tra i mafiosi e le autorità costituite erano profondamente
ambivalenti. Da un lato, essi non rispettavano la legge e erano in grado di opporsi alla
pressione dell’apparato giudiziario e governativo; dall’altro, agivano in connivenza con
l’autorità ufficiale e rafforzavano il proprio controllo attraverso rapporti occulti ma
concreti, con coloro che ricoprivano cariche ufficiali. Questa simbiosi li differenziava
dal fenomeno del banditismo, le cui aree di potere erano fondate sull’uso della forza in
aperto conflitto con le autorità dello Stato 8
. Il mafioso poteva considerarsi come una
sorta d’intermediario politico o mediatore del potere dal momento che la sua ragion
d’essere risiedeva nella capacità di ottenere e mantenere il controllo dei canali che
collegavano la struttura locale del villaggio alla sovrastruttura della società più vasta.
Il ruolo del mediatore è stato così formalizzato da Richard Adams:
«Il suo effettivo controllo su ciascuna delle due sfere è subordinato al successo che ottiene nell’altra; il
controllo su un livello dell’articolazione fornisce la base del controllo su un altro…Egli controlla un
determinato ambito solo in forza del potere che gli deriva da un altro più vasto» 9
.
7 Anton Blok, La mafia di un villaggio siciliano. 1860 -1960 . Imprenditori, contadini, violenti , Einaudi,
Torino 2000, pp. XI - XVI.
8 Ivi, p. 14.
9 Richard Adams, in «Anton Blok», La mafia di un villaggio siciliano. 1860 -1960. Imprenditori,
contadini, violenti , cit. p. 15.
9
In un’altra osservazione, da Blok, sottolineava come esistesse un’immensa
letteratura sulla mafia siciliana, ma che solo pochi studi contenessero dati empirici,
dettagliati e sistematici, e come mancasse un’opera organica sulla mafia.
Una delle ragioni per cui la mafia siciliana era meno conosciuta di quanto ci si
potrebbe aspettare dipendeva dalla sua stessa natura, che era un’organizzazione segreta,
rafforzata dalla violenza.
La violenza sistematica e la relativa separazione della mafia dalla scena pubblica
ispiravano terrore all’interno delle comunità. La segretezza e la paura ostacolavano il
dibattito e la ricerca e contribuivano ad assicurare la persistenza del fenomeno nel corso
del tempo. Una seconda ragione che spiega le insufficienti conoscenze del fenomeno era
legata allo scarso sviluppo delle scienze sociali in Italia. Blok critica la sociologia
italiana, incapace di osservare il fenomeno mafioso, e ritiene che la mafia siciliana sia
stata studiata a distanza solo da studiosi di altre discipline 10
.
Raimondo Catanzaro, alla fine degli anni Ottanta, ha sostenuto che «il rapporto
clientelare ha una serie di elementi in comune con la relazione di tipo mafioso».
Egli ha affermato che la clientela creava le potenzialità sociali, economiche,
politiche ed istituzionali all’interno delle quali il comportamento mafioso trovava
alimento e modalità di riproduzione, trasformazione e stratificazione.
Nell’azione mafiosa, e in quella clientelare, l’iniziativa del soggetto avesse il
fine di suscitare aspettative, privilegi o vantaggi sebbene si distinguevano per i modi di
legittimazione.
Nelle appartenenze clientelari il consenso nasceva principalmente dalla
manipolazione della cultura e dei valori solo marginalmente dalla paura della pena,
mentre invece le appartenenze mafiose trovavano omertà anzitutto sulla base della paura
della pena e solo di conseguenza tramite la manipolazione delle culture e dei valori 11
.
Catanzaro definisce i mafiosi «imprenditori della protezione violenta» 12
. La
protezione mafiosa, ossia l’offerta di garanzie in transazioni delicate, rappresentava un
10 Anton Blok, La mafia di un villaggio siciliano. 1860 -1960. Imprenditori, contadini, violenti, cit., p. 22.
11 Raimondo Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Leviana, Padova 1988, p. 119.
12 ID., La mafia le mafie: la mafia tra mercato e stato una proposta di analisi, in Aa.Vv ., in La mafia le
mafie , a cura di G. Fiandaca e S. Costantino, Laterza, Roma - Bari 1994, p. 144.
10
mercato proficuo per la famiglia mafiosa. La protezione scoraggiava la concorrenza a
favore di un protetto, puniva un raggiro con l’uso della violenza 13
.
Egli sostiene la tesi secondo la quale, se i titolari di questo tipo di violenza
conseguissero effettivamente posizione di monopolio, verrebbe a cadere ogni domanda
di protezione da parte dei soggetti, perché non ci sarebbe più il rischio connesso alla
minaccia dei propri beni o alla propria incolumità fisica. Di conseguenza la protezione
dovrebbe essere dispensata come un bene pubblico, nel modo in cui lo dispensa lo
Stato.
Viceversa, siccome i mafiosi erano imprenditori della protezione violenta, come
ogni buon imprenditore, essi facevano pubblicità e sollecitavano la domanda. Il loro
modo specifico di sollecitare la domanda consisteva nel mantenere elevato il ricorso alla
minaccia e alla violenza.
In una sentenza che suscitò scalpore, la cosiddetta sentenza Fava del 1991, un
magistrato catanese assolse alcuni imprenditori dall’accusa di associazione mafiosa con
l’argomentazione che non si trattava di un rapporto di associazione, bensì di un rapporto
di «assicurazione impropria», in cui cioè la fonte del rischio era costituita dallo stesso
assicuratore. Dunque, gli imprenditori della protezione dovevano necessariamente
essere imprenditori della violenza, perché se non avessero esercitato la violenza anche
nei confronti dei propri protetti non avrebbero potuto avere i frutti della loro attività.
Catanzaro afferma che la mafia non è un anti-Stato, come spesso, erroneamente
si pensa; essa, infatti, ha bisogno dello Stato, cioè (e in tale prospettiva è concorde con
la stessa tesi di Hess) di un soggetto che pretende di avere il monopolio della violenza
pubblica legittima, ma senza essere in grado di esercitarlo efficacemente 14
.
Come ha osservato Piero Fantozzi, all’inizio degli anni Novanta del 900,
secondo l’analisi weberiana i comportamenti di tipo clientelare e di tipo mafioso sono
diversi, ma contigui, al punto da risultare sovrapponibili e non separabili. In uno Stato
razionale, inteso in senso weberiano, dove esiste un ordinamento giuridico razionale ed
un apparato amministrativo legittimato e preposto all’osservanza delle norme, le forme
di appartenenza clientelare e mafiosa potrebbero svilupparsi. Le società tradizionali
riflettono un senso comune di appartenenza e funzionano e sono organizzate come una
13 Raimondo Catanzaro, La mafia le mafie: la mafia tra mercato e stato una proposta di analisi, in
Aa.Vv ., in La mafia le mafie , a cura di G. Fiandaca e S. Costantino, cit., p. 222.
14 Ivi, pp. 144 -146.
11
"famiglia". Al contrario, le società più avanzate e sviluppate, registrano un peso
prevalente delle relazioni sociali fondate sull’identità d’interessi. Ne consegue che la
società tradizionale funziona secondo modelli di appartenenza mentre la società
moderna funziona secondo criteri razionali. Il passaggio dalla società tradizionale a
quella moderna avviene attraverso un processo economico, politico e sociale, attraverso
il quale le varie forme di organizzazione assumono connotati sempre meno fondati
sull’appartenenza caratterizzata dalla razionalità 15
.
Paolo Pezzino, inserendosi nel dibattito sulla definizione di mafia, osserva come
già nelle definizioni più diffuse della pubblicistica ottocentesca gli si riconosceva il
riferimento alla "sicilianità", cioè a caratteri specifici della cultura e della mentalità di
quel contesto, indicando come elementi caratterizzanti del fenomeno i comportamenti
antropologici, prima ancora che i fatti di delinquenza, un sinonimo di arretratezza,
criticando le interpretazioni che tendevano a definire la mafia come espressione di una
società feudale 16
.
Sul concetto di Hess relativo al «legittimo monopolio di coercizione fisica»,
Pezzino ritiene che lo Stato non aveva il consenso necessario delle classi dirigenti per
combattere quelle "élites violente" che agivano prevalentemente per conto dei
proprietari terrieri. Per tale motivo la legalità restava un concetto astratto e la violenza
privata non veniva contrastata da un «legittimo esercizio di autorità dello Stato».
Mancava, insomma, un criterio condiviso dalla maggior parte della popolazione per
distinguere la violenza legittima dello Stato da quella illecita; di conseguenza, le
relazioni sociali si basavano sull’uso della violenza privata.
Per Pezzino, le "virtù" che legittimavano la violenza privata erano: «la ricchezza,
la posizione sociale, ed anche le doti individuali di coraggio e spregiudicatezza» 17
.
Nicola Tranfaglia sostiene che le teorie di Hess siano riconducibili a quelle di
Max Weber in relazione alla legalità come elemento indispensabile allo Stato
moderno 18
.
15 Piero Fantozzi, Appartenenza clientelare e appartenenza mafiosa. Le categorie delle scienze sociali e la
logica della modernità meridionale, in «Meridiana» n.7-8, a. 1989-90, pp. 303 - 304.
16 Paolo Pezzino, Una certa reciprocità di favori , Franco Angeli, Milano 1990, p. 34.
17 ID., Le mafie , Giunti, Firenze 1999, p.15.
18 Secondo Weber, in uno Stato moderno, il potere razionale non poggia più sull’autorità di alcune
persone, ma viene esercitato, in un modo impersonale e secondo determinate regole, da una gerarchia
burocratica di specialisti suddivisi in sfere di competenza. Questo esercizio del potere conforme alla legge
è più razionale di ogni altro, per «precisione, continuità, rigore, affidamento, e quindi per l’assegnamento
che possono farvi sia il detentore del potere sia gli interessati, per l’intensità e l’estensione della
12
Lo stesso Tranfaglia, nella prefazione all’edizione italiana dello studio di Hess,
individua l’origine delle associazioni mafiose nell’incompiutezza del processo
formativo dello Stato moderno nella società siciliana, ed attribuisce alla debolezza del
potere esercitato dal nuovo Stato la sfiducia dei siciliani verso il nuovo organismo
politico 19
.
La mafia siculo-americana, per Tranfaglia, ha esercitato un influsso sui
confratelli siciliani dalla seconda metà del Novecento, accentuando tendenze
gangsteristiche che erano assenti, o poco presenti, nell’esperienza italiana precedente
alla seconda guerra mondiale.
Egli sostiene che Hess individua nella famiglia e nella clientela istituzioni
fondamentali di quella società che finisce per favorire, appunto, la nascita di una
struttura come quella mafiosa che si sostituisce allo Stato, imponendo proprie regole, e
rendendo ancora più difficili i tentativi successivi dello Stato ad esercitare il proprio
legittimo potere 20
.
Riprendendo il concetto di funzione sociale della mafia, cioè quella di
mediazione e protezione, Gambetta, sostiene che la professione del mafioso ha ruotato
intorno al ruolo di garante. Il ruolo di garante si è manifestato in una varietà di
controversie, riguardanti beni sia legali che illegali, nei quali i mafiosi sono intervenuti,
come i crediti non riscossi, le «truffe» ricevute, contratti non rispettati, gli accordi
fragili e rischiosi.
Un esempio attuale di protezione mafiosa è sicuramente la mafia degli appalti,
secondo quanto raccontato da Baldassarre di Maggio, autista di Salvatore Riina.
Baldassarre riferisce come il costruttore Angelo Siino si rivolse ai mafiosi,
proponendo loro di aiutarlo in sede di offerte nei concorsi pubblici, con lo scopo di
ottenere margini di guadagno maggiori. Cosa fecero i mafiosi alla richiesta? Dopo una
certa indecisione da parte di Riina, decisero di aiutare l’imprenditore.
Il primo problema, dunque, era «accreditare Siino presso le altre imprese».
«Accreditare» significava dare a Siino la licenza di fare uso di un marchio che gli desse
prestazione, per la possibilità d’impiego formalmente universale per ogni compito». Inoltre secondo
Weber questo tipo di potere razionale corrisponde alle idee leggittimatrici di libertà e uguaglianza, come
anche alle dinamiche del commercio economico capitalistico; cfr. Hasso Hoffman, La libertà dello Stato
Moderno, a cura di Agostino Carrino, Guida, Napoli 2009, pp. 70 -71.
19 Nicola Tranfaglia, Prefazione , in Henner Hess: Mafia: le origini e la struttura , Laterza, Roma - Bari
1993, p. VI.
20 Ivi, p. IX.
13
credibilità, la licenza in altre parole di «spendere» il nome dei mafiosi quando
proponeva agli altri imprenditori di organizzare un accordo di collusione. Una delle
forme di accordo più diffuse era una specie di «coda», secondo cui solo un’impresa
presentava un’offerta tale da vincere un determinato appalto, mentre le altre o si
astenevano o presentavano offerte in eccesso a quella prescelta per candidarsi invece ad
appalti successivi. Affinché gli imprenditori potessero fidarsi della collaborazione di
ciascuno, dovevano essere sicuri che se qualcuno si fosse sottratto a tale sistema,
sarebbe stato punito; occorreva in altre parole una garanzia e la vendita di protezione
consisteva nell’assicurargli quella garanzia.
Gambetta racconta che un imprenditore gli disse: «e credi che senza una mano
forte noi teniamo in coda 160 imprenditori? Perché la coda funzioni, venga rispettata, e
si arrivi all’appalto uno per volta, occorre la minaccia credibile dell’uso della forza» . E
questa minaccia la offriva Cosa nostra.
Il geometra Giuseppe Li Pera, coinvolto nella stessa inchiesta, dichiarò:
«l’organizzazione, cioè, Cosa Nostra, si cura di come i vari appalti siano distribuiti in
modo equamente fra le ditte interessate» 21
.
L’interpretazione più autentico dei fenomeni mafiosi nel XX secolo, l’ha data il
giudice Giovanni Falcone, il primo che si sia occupato in modo continuo, con metodo
scientifico e con impegno assoluto di Cosa nostra. Fu il solo in grado di comprendere e
spiegare perché la mafia siciliana costituisce un mondo logico, razionale, funzionale e
implacabile.
Il suo metodo di contrasto alla mafia, passato alla storia come «metodo
Falcone», riusciva a trasformare gli elementi di accusa in elementi probatori, gli indizi
in prove, le prime allusioni e confidenze in testimonianze decisive.
Il metodo Falcone si caratterizzava non tanto per la logica o per la tecnica, ma
per l’indagine, la prudenza nell’avvicinarsi al fenomeno, la diffidenza verso le prime
congetture, l’intelligenza di vagliarle e pesarle, il rigore nel valutarle.
Falcone fu il massimo sostenitore dell’istituto della collaborazione e dell’uso
delle dichiarazioni dei cosiddetti «pentiti ». Il suo modo di indagare ha portato a risultati
21 Diego Gambetta, La mafia le mafie: la protezione mafiosa, in Aa.Vv ., La mafia le mafie , a cura di G.
Fiandaca e S. Costantino, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 221 - 229.
14
che nessuno mai era riuscito ad ottenere prima come ad esempio le operazioni «Pizza
Connection, Iron Tower e maxiprocesso del 1986»
22
.
Salvatore Lupo riferendosi all’osservazione di Pezzino, sulla sicilianità, ha
sostenuto che essa debba intendersi come la diffidenza dei siciliani nei confronti dello
Stato e dunque l’abitudine a farsi giustizia da sé, conseguenza di un sistema culturale in
cui l’onore, il clientelismo, il familismo caratterizzano un sistema sociale chiuso che
sottrae l’individuo alle proprie responsabilità nei confronti della collettività.
Sul concetto di Hess, relativo al momento storico in cui il mafioso viene
considerato dallo Stato come un delinquente, Lupo ha sostenuto che ciò si verifica, negli
anni dopo la prima guerra mondiale, quando i mafiosi vennero sostituiti da feroci
delinquenti 23
, come accadde col capomafia siculo-americano Nick Gentile, il quale
disse: «morì in Sicilia l’onorata società, la mafia che aveva le sue leggi, i suoi principi,
che proteggeva i deboli» e «fu lasciato il campo a gente senza onore avvezza a rubare
senza freno e a uccidere per denaro» 24
.
In un’intervista sulla storia della mafia condotta da Gaetano Savatteri, pubblicata
nel 2010, Lupo ha discusso anche le tesi di Gambetta e Catanzaro, sottolineando come
nelle loro tesi non viene considerato un elemento fondamentale, cioè quello
dell’estorsione, perché molte volte la mafia protegge da minacce create ad arte da essa
stessa 25
.
Nella stessa intervista, Lupo ha raccontato di aver consigliato a Einaudi la
pubblicazione in italiano degli studi di Henner Hess, su " la Mafia " e di quello di Anton
Blok, "The Mafia of a Sicilian Village : 1860 - 1960"
26
.
22 Giovanni Falcone, in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose di cosa nostra, Fabbri, Bergamo
1993, pp. 16 - 18.
23 Salvatore Lupo, Storia della mafia, Donzelli, Roma 2004, pp. 22 - 24.
24 Ibidem 25 ID., intervista a cura di Gaetano Savatteri, Potere criminale, intervista sulla storia della mafia, Laterza,
Roma - Bari 2010, p. 43.
26 Ivi, pp. 32-33.
15
CAPITOLO II LA MAFIA DALLE ORIGINI ALL’UNITA’ D’ITALIA All’inizio del XVIII secolo il banditismo in Sicilia trionfava perché i viceré
regnavano sull’isola privi di convinzione nell’esercizio del potere e consentendo il
dilagare dell’anarchia in tutto il territorio. Nel 1734, la Sicilia fu conquistata da don
Carlos 27
, che divenne re col titolo di Carlo III, tuttavia egli se ne andò dalla Sicilia
senza farvi più ritorno; i siciliani, come scrisse lo storico Max Polo «non avrebbero
visto di lui che la sua statua» 28
.
Il popolo siciliano non solo era vessato dalle continue richieste di tributi da
parte del governo centrale di Napoli, ma era anche esasperato dalle continue
incursioni ad opera dei calabresi .
Secondo lo storico francese Jacques Kermoal, le invasioni dei cosiddetti
«scacciapagliari», calabresi mietitori di grano, rappresentarono una causa del
fenomeno mafioso 29
, in quanto i contadini e i piccoli proprietari siciliani si
ribellarono e si rifiutarono di pagare i tributi che crescevano a dismisura. Per frenare
questa ribellione, don Carlos inviò da Napoli i soldati per proteggere i funzionari
incaricati di riscuotere i tributi.
Dopo un’ennesima razzia, compiuta dai calabresi, nel 1739 gli intendenti
decisero di intervenire e di organizzare l’ordine siciliano mediante la creazione di
gruppi di protezione; ogni gruppo si chiamò cosca , il cui nome derivava da
«cacocciola», foglia del carciofo 30
.
I nobili napoletani delegarono il potere agli intendenti, dando loro facoltà di
trovare ogni utile mezzo per proteggere il bestiame ed i raccolti, purché facessero
arrivare i tributi a Napoli.
27 Don Carlos fu duca di Parma e Piacenza negli anni 1731-1735, re di Napoli e di Sicilia negli anni 1735-
1759. Negli anni 1758 -1788, divenne re di Spagna col titolo di Carlo III. Sposò Maria Carolina
d’Asburgo di Sassonia. Carlo III, dopo salito al trono a Madrid, consegnò i regni di Napoli e di Sicilia al
figlio Ferdinando, che a sua volta divenne re di Napoli negli anni 1759-1806 e negli anni 1815-1816 col
titolo di Ferdinando IV.Ferdinando acquisì anche il titolo di Ferdinando III re di Sicilia, negli anni 1759 -
1816, e Ferdinando I re delle due Sicilie negli anni 1816 -1825; Pier Gusto Jaeger, Francesco II il
Borbone: l’ultimo Re di Napoli , Arnaldo Mondadori, Milano 1982, pp. 1 - 2.
28 Max Polo, Storia della mafia, vol. 1, Ferni, Ginevra 1974, cit., p. 36.
29 Jacques Kermoal, L'onorata società; la véritable histoire de la mafia, La Table Ronde, Paris 1971, p. 10
30 Max Polo, Storia della mafia, cit., pp. 37 - 39.
16
Gli intendenti o fattori avevano ricevuto in passato, dai signori proprietari,
l’investitura di amministrare il loro feudo, e questi, per la guardiania dei latifondi,
utilizzavano i corpi di guardie private, detti picciotti e successivamente chiamati
campieri, i quali, secondo Michele Pantaleone, avevano la solo attitudine alla violenza 31
.
Dopo la nascita delle cosche, gli intendenti organizzarono le milizie locali di autodifesa,
supportati da soldati inviati da Napoli, dei quali gli intendenti stessi divennero capi
naturali. L’organizzazione della cosca assunse una struttura di tipo militare: ogni
cavaliere o picciotto veniva dotato di una lupara, un fucile di solito usato dai pastori per
uccidere i lupi, che si avventuravano in mezzo alle greggi.
Nel 1739 le cosche divennero un vero e proprio esercito, composto da 2000
cavalieri e 3000 picciotti; nello stesso anno iniziò la rappresaglia contro i calabresi,
particolarmente nei confronti degli scacciapagliari 32
.
Gli attacchi, seppure provocarono la fine degli scacciapagliari, non
determinarono lo scioglimento delle milizie di protezione, anzi queste rimasero sotto la
guida degli intendenti consapevoli di gestire una forza paramilitare perfettamente
addestrata e sanguinaria.
Max Polo ritiene che nel 1742 ebbe luogo in una località sconosciuta, a circa 20
km di Palermo, quello che si potrebbe chiamare il primo congresso della mafia, dove
l’oggetto della discussione fu l’amministrazione dell’isola e l’organizzazione del potere
tra cosca e cosca.
I capi cosca, cioè ex-intendenti, presero il soprannome di «ziu», successivamente
«zii», i quali divennero a tutti gli effetti capi famiglia, rimpiazzando i nobili impotenti e
declassati che, nel momento del pericolo, avevano dimostrato la loro debolezza. Risolto
il problema dei calabresi, i siciliani dovettero affrontare il ritorno degli esattori delle
tasse che, accompagnati a loro volta dai gendarmi, giravano per l’isola per riscuotere i
tributi non soltanto dell’anno in corso, ma anche gli arretrati.
Gli zii-intendenti sfruttarono la situazione di disagio economico dei contadini e
dei proprietari terrieri proponendo ad essi protezione contro gli esattori; per tale motivo
gli zii misero a disposizione di costoro depositi di granai per nascondere una parte dei
raccolti e sottrarli così ai funzionari del re e, analogamente, avvenne anche per le greggi
31 Michele Pantaleone, La mafia: perché è nata, come si organizza, chi la sostiene , Einaudi, Torino 1975,
p. 10.
32 Max Polo, Storia della mafia, cit., p. 40.
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