II
contesto e le istituzioni, a livello locale, sono diventate più che
nel passato un’articolazione fondamentale per l’avvio e la
sostenibilità dei processi di sviluppo.
Quindi, l’analisi di quest’importante fenomeno della nostra
società a cavallo tra i due millenni va portato avanti
parallelamente ai concetti di decentramento partecipativo e di
sviluppo locale per un verso, e di globalizzazione dell’economia
per un altro.
Nella prima parte della dissertazione che andrà a seguire saranno
approfonditi, attraverso la stesura di tre capitoli le diverse
tipologie di organizzazioni non profit, gli aspetti di
organizzazione interna e di “governance” delle ONP, e infine uno
studio sul fund raising (reperimento di fondi nelle organizzazioni
non profit). Nella seconda parte viene trattato il caso di una
polisportiva non profit operante in diverse discipline, seguendo i
principi e le delucidazioni della prima parte. Ritengo, che proprio
grazie a quest’approfondimento, a mio parere molto utile e
interessante, si riescano a cogliere i valori, i principi e i problemi
caratterizzanti un’organizzazione di questo tipo.
1
CAPITOLO PRIMO: IL TERZO SETTORE IN ITALIA
1.1 Origini e cenni storici
Contrariamente a quanto molti ritengono il settore non profit in
Italia non è un fenomeno di recente formazione, né è importato
dai paesi anglosassoni. Ha, infatti, una tradizione plurisecolare
che affonda le sue radici nelle grandi istituzioni d’epoca
medievale
1
. Riguardo a realizzazioni sociali in alcuni settori
come la sanità, l’educazione, o l’assistenza ai più sfortunati,
l’Italia può vantare a buon diritto una primogenitura.
Il settore non profit può essere considerato, per molti aspetti,
come l’esito giuridico di una doppia battaglia che si è combattuta
nella seconda metà del XIX secolo; in questo periodo si concluse
il processo d’unificazione nazionale (Risorgimento), partì la
rivoluzione industriale ed avvenne una durissima lotta per il
potere tra l’elite del nuovo stato nazionale, la chiesa cattolica ed
il nascente movimento socialista. Da un lato, infatti, la nuova
elite politica nazionale tentò di limitare il potere e l’influenza
della chiesa, dall’altro, lottò per integrare il movimento socialista
allora agli esordi, nelle strutture politiche di un’economia
capitalista.
Nel 1860, la nascita del nuovo stato italiano portò con sé
l’affermazione di una nuova elite politica laica che interpretò la
riduzione della forza, dell’influenza della Chiesa cattolica e delle
sue istituzioni come principale compito per la stabilizzazione del
proprio ruolo e del proprio potere.
In quegli anni, gran parte dei servizi sanitari e d’assistenza erano
amministrati da Istituzioni religiose, molte delle quali frutto di
una tradizione secolare che può essere fatta risalire al Medioevo.
1
Vedi Cova A., La situazione italiana: una storia di non profit, in Il non profit dimezzato, a
cura di Vittadini G., Perugina, 1998.
2
L’assistenza sociale e sanitaria di matrice cattolica rivolta ai
soggetti più indigenti era fornita principalmente dalle Opere Pie,
enti morali il cui patrimonio consisteva principalmente in lasciti e
donazioni accumulate nel corso dei secoli; quasi tutte le opere pie
erano sotto il controllo diretto delle congregazioni religiose. Nel
1861 se ne contavano quasi 18.000 ed i servizi che esse
fornivano erano assai superiori a quelli erogati dalle istituzioni
pubbliche; questi istituti rappresentano gli autentici precursori del
settore non profit italiano.
Tra il 1866 ed il 1890 lo stato italiano emanò leggi che miravano
a confiscare i patrimoni di diversi ordini e congregazioni
religiose, obbligando inoltre le Opere Pie a sottomettersi al
controllo pubblico. Nel 1866, in un primo tentativo di ridurre
l’influenza cattolica sulla vita pubblica, il Parlamento approvò
una legge per la soppressione di circa 1800 ordini e
congregazioni religiose e per la confisca dei loro beni. Gli edifici
espropriati furono assegnati alle autorità locali per ospitarvi
scuole, ospedali ed istituzioni assistenziali; i libri e le opere
d’arte andarono a biblioteche e musei pubblici. Nel 1867, con la
seconda delle cosiddette “leggi eversive”, altre 25.000 istituzioni
di matrice religiosa si videro confiscare e vendere all’asta i
patrimoni; in questo caso non furono toccate le parrocchie e le
chiese locali, ma solo le istituzioni che non offrivano cura alle
anime, in larga misura assistenziali e sanitarie.
Una terza, ed ultima legge che ebbe l’effetto di ridurre
l’influenza cattolica sulla società italiana e di creare un sistema
assistenziale controllato dallo Stato, fu approvata nel 1890 e
divenne nota come legge Crispi dal nome del Presidente allora in
carica. La legge Crispi sottometteva al controllo pubblico le
Opere Pie che fornivano servizi di tipo assistenziali, sanitario,
educativo e di formazione professionale ed imponeva ad ogni
istituzione di assistenza che avesse una qualche rilevanza
economica di assumere la natura giuridica pubblica; inoltre
costituì il primo passo verso la trasformazione in IPAB
3
(Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza) delle Opere
Pie, trasformazione che completò nel 1923 sotto il Regime
Fascista.
Il settore non profit di matrice cattolica cessò di operare come
settore autonomo, ed iniziò una storia centenaria di relazioni
peculiari con l’ente pubblico. Lo sforzo di secolarizzazione della
società italiana intrapreso con queste leggi, fu assai lontano
dall’essere completo; in effetti, nel corso dei decennio successivi,
le èlite religiose ed i servizi assistenziali che esse gestivano,
conservarono un consistente grado di autonomia.
Quest’autonomia si accrebbe ulteriormente nel corso del
ventennio fascista (1922-1943) quando, con la firma del
concordato del 1929, cessarono le ostilità tra lo Stato e la Chiesa
Cattolica. Il Concordato non solo concesse alla Chiesa una
consistente autonomia d’azione, ma dichiarò anche il
cattolicesimo religione nazionale, ponendo seriamente in
discussione il principio liberale della separazione tra chiesa e
Stato; si può forse affermare che da allora le istituzioni cattoliche
sono state considerate come istituzioni pubbliche o semi
pubbliche. Come risultato della lotta tra Stato e Chiesa, molte
organizzazioni di matrice religiosa che avevano sino ad allora
soddisfatto la gran parte dei bisogni della popolazione in tema di
salute, educazione ed assistenza divennero parte del sistema
pubblico della sicurezza sociale, assumendo con ciò una
peculiare natura giuridica. Il loro status può oggi essere descritto
come una sorta di via di mezzo tra il pubblico ed il privato,
oppure tra il secolare e il religioso.
Dopo l’approvazione della costituzione repubblicana, avvenuta
nel 1948, la legge Crispi restò a lungo immutata, nonostante
l’articolo 38 della stessa costituzione stabilisse che “l’assistenza
privata è libera”, consentendo con ciò ai privati di fornire servizi
assistenziali senza dover assumere la veste giuridica dell’ente
pubblico. Alcuni ritengono che l’incongruenza tra il dettato
costituzionale, che dichiarava libera l’assistenza privata, e la
4
legge Crispi, che imponeva la natura pubblica a chiunque si
occupasse d’assistenza fu a lungo tollerata dalla chiesa perché la
legge 1890 aveva, di fatto, garantito molti vantaggi alle IPAB.
Tra questi bisogna menzionare il finanziamento pubblico per
l’acquisto di beni capitali, come la strumentazione medica, o per
la ristrutturazione ed il risanamento degli edifici, nonché un
facile accesso ai fondi pubblici per la gestione dei servizi
assistenziali e sanitari attraverso contratti e convenzioni. Inoltre,
la natura pubblica delle IPAB non rappresentò un grave
impedimento all’allora Amministrazione, che continuò ad essere
attuata in accordo con la volontà dei fondatori, la Chiesa
Cattolica in particolare. E’ solo nel 1981 che la Corte dichiarò
incostituzionale l’art. 1 della legge Crispi che, di fatto, proibiva
la prestazione di servizi assistenziali da parte di soggetti privati.
L’integrazione politica della classe operaia, può essere
considerata come la seconda sfida che la nuova elite nazionale si
trovò ad affrontare dopo l’unificazione soprattutto con l’avvio
dell’industrializzazione (1890-1914). L’obiettivo era di ridurre il
livello dello scontento e della protesta sociale e, in questo modo,
di aprire la via al processo d’industrializzazione del paese. Per
ottenere questo risultato fu intrapresa in modo assai graduale e
per certi versi contraddittorio, la costruzione di un sistema
pubblico di sicurezza sociale; questa politica portò con sé anche
il superamento graduale delle istituzioni autonomamente create
dai lavoratori, le società di mutuo soccorso, che andavano
sviluppandosi verso la fine del XIX secolo. Il processo, che
incontrava il favore della classe lavoratrice (che pian piano si
vedeva più tutelata) e consentiva di attenuare la carica
contestatrice, ebbe l’effetto di lungo periodi di fare
progressivamente sparire le istituzioni assistenziali e sanitarie
autonomamente create dai lavoratori, per sostituirle in modo
pressoché totale con istituzioni pubbliche.
5
Come risultato di questo duplice conflitto (tra Stato unitario e
Chiesa Cattolica e tra nuova elite nazionale e classe operaia), lo
Stato Italiano ha assunto su di sé la responsabilità di soddisfare i
bisogni collettivi dei cittadini e di aumentare il loro benessere o il
benessere generale della collettività. Così, con un’equazione
ritenuta quasi automatica nella mente di molti, bisogno collettivo
corrisponde spesso ad intervento pubblico.
Il trend storico dell’evoluzione italiano di sicurezza e protezione
sociale è andato dunque nella direzione di limitare il ruolo delle
organizzazioni private (e quindi anche delle non profit),
integrandole quanto possibile dentro il contenitore nella Pubblica
Amministrazione.
Gli anni più recenti sembrano però mostrare un’inversione di
questa tendenza; la cosiddetta “crisi fiscale dello Stato” ha spesso
indotto la Pubblica Amministrazione ad affidare ad
organizzazioni non profit la gestione di alcuni servizi,
principalmente nell’area dei servizi sociali, ma in misura
crescente anche in quella sanitaria. Molte delle organizzazioni,
alle quali sono appaltati i servizi hanno una matrice cattolica;
altre tuttavia, soprattutto quelle nate in epoca a noi più vicine
sono l’espressione di una nuova consapevolezza laica della
necessità di promuovere i valori dell’altruismo e della solidarietà.
6
1.1.1 Il principio di sussidiarietà e le sue applicazioni
Sempre più rilevante per il Terzo Settore è il principio di
sussidiarietà, il quale risponde alle esigenza della partecipazione
dei cittadini alla vita sociale e della comunità. Il concetto della
sussidiarietà affonda le radici nella dottrina sociale della chiesa e
trova una sua formulazione compiuta nella Enciclica Pontificia
“Rerum Novarum” 1891 di Leone XIII.
In base al concetto di sussidiarietà i cittadini e le loro
organizzazioni sociali rivestono la centralità di soggetti primari
della vita pubblica: compito delle istituzioni è di valorizzare e
sostenere la capacità di questi soggetti di rispondere ai bisogni
dei cittadini e della comunità.
Nella terminologia militare romana, la parola “subsidium” si
riferiva alle truppe di riserva, pronte ad intervenire in aiuto di
quelle impegnate in prima linea; in latino, “subsidium ferre”,
significa “portare aiuto”. Quando parliamo di “sussidiarietà” ci
riferiamo ad un concetto presente da lungo tempo nella
riflessione filosofica e politica, ma recentemente tornato di
grande attualità, sia per la crisi dei sistemi di Welfare, sia per
l’importanza che ad esso riconosce la Comunità Europea nei suoi
recenti trattati. Già San Tommaso D’Aquino, rifacendosi al
pensiero aristotelico, formulò alcune considerazioni sul principio
di sussidiarietà e sul concetto, ad essa collegato, di “bene
comune”; lo definì come il frutto dei contributi di tutti i membri
di una comunità, siano essi individui o gruppi. E’ solo in un
contesto collaborativo basato su solidarietà e convivenza
pacifica, che la personalità umana può svilupparsi liberamente.
Si possono dare interpretazioni molto diverse della sussidiarietà:
una visione più tradizionale, conservatrice, vede tale principio
come “difesa delle comunità più piccole dall’invasione delle
comunità più grandi”, mentre un’interpretazione positiva, meno
difensiva, afferma che “una comunità più grande ha l’obbligo di
7
dare gli strumenti per l’autonomia sociale delle comunità più
piccole e di non togliere quest’autonomia”.
2
Il singolo non agisce socialmente in modo autonomo, ma ha
bisogno del “subsidium” offerto dalle diverse formazioni sociali
e dal potere pubblico, il quale deve però essere limitato, i confini
della sua azione devono essere definiti chiaramente. Deve avere
limiti per quanto riguarda la struttura e l’estensione, poiché
l’uomo in quanto uomo è dotato di alcuni diritti che sono
antecedenti rispetto all’organizzazione statale (diritto alla vita,
alla proprietà, libertà di religione).
Per quanto riguarda invece le funzioni del potere pubblico, esse
devono essere limitate, poiché, in virtù del suddetto principio, lo
Stato raggiunge i suoi scopi solo quando rispetta e promuove le
finalità naturali delle persone, delle famiglie e dei gruppi
associati, non quando si sostituisce a loro pretendendo di
rappresentarli in toto.
Quando si parla dell’organizzazione dei rapporti tra Stato,
formazioni sociali e individui, abbiamo a che fare con la
dimensione “orizzontale” della sussidiarietà, mentre se conside-
riamo il criterio di distribuzione delle competenze tra Stato e
autonomie locali, abbiamo a che fare con quella “verticale”. Tale
principio verticale arricchisce il concetto tradizionale di principio
federale: le competenze attribuite al governo di livello superiore
sulla base di inadeguatezze del livello inferiore devono essere
“giustificate”, poiché ci si trova in un contesto in cui non è lo
Stato centrale ad avere la preminenza, ma è la società civile nelle
sue articolazioni territoriali.
Attraverso la sussidiarietà orizzontale, invece, viene riconosciuta
alla persona la capacità creativa di agire, di associarsi, per
rispondere ai bisogni sociali in modo responsabile ed efficace. In
questa sua accezione, il principio ha un’importante valenza
antiautoritaria: consente di affermare la preminenza della persona
2
Donati P., “I beni relazionali del Terzo Settore”, in Impresa sociale, n.29, 1996, pp. 19-23
8
contro la pretesa moderna del potere statale di porsi come
l’esclusiva fonte di conoscenza dei bisogni dell’individuo e,
quindi, come l’unica autorità in grado di rispondere a questi in
modo appropriato
3
.
Solo nel caso di inadeguatezza di questi ad esercitare tale ruolo lo
Stato interviene per supplire ad inefficienze strutturali. Lo stato
viene così ad avere un ruolo sussidiario a quello delle
organizzazioni sociali, o corpi intermedi che si presuppongono
liberi e capaci di rispondere ai bisogni dei cittadini e della
comunità.
La sussidiarietà si finalizza all’efficacia dei servizi di pubblica
utilità integrando la verticalità dell’azienda pubblica nella sua
funzione sussidiaria in determinate “competenze assolute” e
l’orizzontalità dell’azienda privata non profit/profit sussidiaria
rispetto a “competenze concorrenti”. In questo caso si da spazio e
applicazione al ruolo orizzontale del principio che si espleta nel
trasferimento all’autonomia privata di compiti e funzioni non
strettamente dipendenti dall’esercizio di poteri autoritativi. Con
questa strategia di governance l’azienda pubblica, rilevando costi
tendenzialmente contenuti, evidenziati dall’affidamento ad
un’azienda privata non profit/profit, riesce a conciliare il rispetto
dei vincoli di bilancio, cui è soggetto in modo inderogabile,
dovendo a far fronte in modo ineludibile alla domanda della
popolazione di riferimento.
La realizzazione della sussidiarietà avviene attraverso il
paradigma della “concorrenza collaborativa” fra gli attori
pubblici e privati e ciò avviene a fronte del contesto di
sussidiarietà orizzontale e verticale che rappresentano importanti
pilastri del sistema.
Le aziende pubbliche e private non profit/profit, in una realtà
multistakeholders, di manifestazione di interessi di contesto con
variabili di diversa natura e complessità, si inseriscono in una
3
Questo tipo di posizioni risentono di una concezione di stampo hegeliano dello “Stato”
come compimento assoluto della libertà e fonte di ogni diritto alla persona.
9
funzione spesso unitaria in termini di risultati non solo riguardo
al welfare, ma anche rispetto al contesto di mantenimento e
sviluppo economico ed occupazionale delle varie aree-sistema
del territorio. L’allargamento dei settori storici ove il rapporto fra
il pubblico e il privato ha trovato la migliore implementazione
(assistenza, sanità, utenze di utilità pubblica) sottolinea che il
principio di sussidiarietà pervade tutte le valenze dell’agire
economico e sociale (attività educative, culturali, sportive, di
tutela dei diritti dei cittadini, di sicurezza ambientale).
Per gestire la “concorrenza collaborativa” le aziende pubbliche e
le aziende private non profit/profit assumono modelli valoriali e
culturali omologhi, ma non omologati; hanno relazioni
partecipate vicendevolmente che tendono a conseguire risultati a
somma maggiore di zero, negoziano la “sussidiarietà” reciproca,
si strutturano in termini economico-finanziari con modalità
simmetriche sia riguardo alle forme di rilevazione sia riguardo
alle forme di controllo di gestione e accountability e le modalità
di negoziazione contrattuale.
Possono anche tendere a gestire in modo integrato la stessa
“funzione pubblica” con distinte modalità di gestione (strategica
da parte delle aziende pubbliche e operativa da parte delle
aziende non profit) dei servizi e ciò con lo scopo di raggiungere
risultati superiori rispetto ad una situazione dove l’operatività
fosse non integrata; si danno, quindi, opzioni organizzative e di
struttura autonome e originali che incrementano il valore della
specificità aziendale.
Inoltre le aziende non profit/ profit hanno una vocazione spesso e
prevalentemente collegata al localismo ed agli interventi dello
Stato nella gestione delle “ funzioni potestative e proprie”,
diventando anche preventiva e riparativa rispetto ad eventuali
patologie sociali, ritardi e sospensioni congiunturali di tipo
economico.
Le conseguenze che ne derivano sono che il sussidiante è
obbligato dal principio a non assumersi compiti che possono
10
essere svolti dal sussidiato. L’autorità interessata dal principio si
esercita solo nella misura in cui si accompagna ad una forma di
aiuto e, relazionata all’autonomia del sussidiato, presuppone in
qualche misura una comunità d’intenti sulle finalità dell’aiuto,
sui risultati e sulle modalità.
Inoltre, il carattere sia attivo sia passivo del sussidiante
permettono a questo, in sede regolamentare, di decidere di
assegnare una dimensione negoziale più o meno attiva alla
controparte; e in sede operativa, di definire in modo preciso e
trasparente il proprio operato e i propri poteri di controllo,
pretendendo la medesima trasparenza anche dal sussidiato.
Quindi, in termini di principio, la sussidiarietà si formula come
criterio di organizzazione sociale ed economica in base al quale
le funzioni e i compiti di governo e di gestione dell’offerta di
beni e servizi di utilità pubblica debbono essere svolti da quello,
tra tutti i livelli di potere istituzionale e operativo astrattamente o
concretamente idonei, più vicino al cittadino.«In questo senso il
ruolo di ogni singolo livello deve essere sussidiario rispetto a
quello del livello immediatamente “inferiore”: il primo, cioè,
deve intervenire solo in caso di incapacità del secondo
nell’affrontare una determinata questione, nonché nei limiti di
tale incapacità».
Oltre alla funzionalità orizzontale o verticale, la sussidiarietà può
esprimersi anche come:
• Sussidiarietà di scopo: nella compartecipazione di più
soggetti al raggiungimento di un medesimo scopo,
integrando la sussidiarietà verticale con quella orizzontale
per raggiungere lo stesso obbiettivo di utilità pubblica. Si
pensi all’integrazione operativa e gestionale fra aziende
pubbliche e aziende private, ambedue sussidiate e
convergenti a risultati che raggiungono lo stesso scopo.
• Sussidiarietà di progetto: nelle varie fasi suddivise fra
enti diversi, della realizzazione di un progetto; con
alternanza di ruolo fra sussidiante e sussidiato.
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La “sussidiarietà aziendale”, quindi, è lo strumento operativo
globale del principio di sussidiarietà e integra le attività delle
aziende che ad esso partecipano ponendosi in “filiera
sussidiaria”. Sussidiare significa proteggere e prestare aiuto, ma
anche rinforzare e quindi tutelare nel rispetto dell’autonomia
altrui.
Il principio di sussidiarietà possiede tuttavia implicazioni più
ampie ed è applicabile ai rapporti fra un’entità sussidiante e una
sussidiata, se l’aiuto ha caratteri economici e fini di pubblica
utilità e se, naturalmente, il sussidiante può esercitare un’autorità
gestita con “autorevolezza” nei confronti del sussidiato.