5
Introduzione
“…noi operatrici è come se fossimo invisibili. Quando sei invisibile è logico che lo sia
anche il maltrattamento e viceversa. Per cui se non si scrive o si scrive poco di chi si
occupa in prima persona del fenomeno, e quindi non se ne mettono in evidenza gli
apporti sociali, ritengo si sia in presenza di un chiaro segno di rimozione collettiva…”
Prima del tirocinio presso la Casa delle Donne per non subire violenza di
Bologna anche io rimuovevo, inconsapevolmente forse, ma comunque non
vedevo. Non sapevo nulla del maltrattamento inteso come violenza di genere, non
ero a conoscenza dell’esistenza dei Centri Antiviolenza, guardavo con scetticismo
al movimento femminista, come fosse qualcosa di anacronistico. Il mio era,
insomma, un atteggiamento estremamente superficiale, anche se la percezione di
una falsa emancipazione femminile era già presente in me: ho sempre percepito
come irritanti certi atteggiamenti maschili e femminili, che poi ho saputo
nominare come perfomance di genere dettate, ma accettate, da matrici culturali
specifiche. Il contatto con la Casa delle donne mi ha quindi aperto non solo un
mondo, ma un vero e proprio universo, non completamente nuovo, ma totalmente
inesplorato. Ho trovato le parole per nominare tante sensazioni, ho visto con occhi
diversi le realtà immediate e ho iniziato un percorso di scoperta di genere e della
violenza di genere partendo innanzitutto da me, consapevole però della necessità
di collocarmi all’interno di uno spazio, un tempo e una cultura precisamente
connotati.
Primo risultato concreto del viaggio intrapreso è il presente lavoro di tesi e di
ricerca che ha preso avvio dal desiderio di esplorare il fenomeno della violenza in
tutte le sue forme, ma da un punto di vista innovativo: quello delle operatrici dei
Centri. L’intento è di dare un umile apporto alla trattazione della tematica,
riflettendo sulle influenze del rispecchiamento che l’appartenenza allo stesso sesso
e allo stesso genere comportano nella relazione d’aiuto che si realizza tra donna
vittima di maltrattamento e donna operatrice in un Centro Antiviolenza.
6
Da tali premesse deriva anche il titolo della stessa tesi: “Le operatrici dei Centri
Antiviolenza: che le essenziali non siano invisibili agli occhi”.
Fonte di ispirazione è la nota frase di Antoine de Saint - Exupéry che nel dialogo
tra il piccolo principe e la volpe fa recitare a quest’ultima:
“…non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi…”
1
.
La riflessione dell’operatrice prima citata ha richiamato alla memoria quel
dialogo, che è stato trasposto nella realtà indagata, cioè quella delle Case delle
donne e delle professioniste che vi operano. Per essenziale si è inteso inizialmente
il fenomeno della violenza di genere e tutti gli attori che esso coinvolge. La
rimozione agita dalla collettività è interpretata come ciò che rende invisibile lo
stesso essenziale, che quindi non è visto né con gli occhi, né tantomeno con il
cuore. Per estensione dunque, e per evidenziare ulteriormente l’importanza
dell’apporto delle operatrici dei Centri Antiviolenza, queste ultime sono state
nominate come le essenziali, con la consapevolezza che la loro visibilità veicola
quella del fenomeno della violenza di genere e quindi delle donne che ne sono
vittime. L’intento è perciò di rendere visibili le stesse essenziali, di modo da
suscitare una prima riflessione che permetta agli occhi di aprirsi e al cuore di
vedere.
Il lavoro di tesi si struttura in quattro Capitoli. I primi due propongono un
inquadramento teorico, sia dei riferimenti scientifici sottesi all’elaborato, sia della
realtà dei Centri Antiviolenza. Gli ultimi due capitoli, invece, sono dedicati
all’indagine qualitativa condotta con le operatrici e alle conclusioni a cui si è
giunti.
Nello specifico: il primo capitolo sviluppa la cornice teorica all’interno della
quale l’intero studio è collocato. Questa comprende da un lato il breve riferimento
alla Psicotraumatologia e alla Psicologia dell’Emergenza, quindi la definizione di
traumatizzazione vicaria proposta affianco della descrizione del disturbo da stress
post traumatico con cui ha in comune la sintomatologia. Dall’altro lato sceglie
1
SAINT-EXUPÉRY A., Il piccolo principe, Milano, Bompiani, 1985.
7
come linee guida il pensiero di Freire e di Cyrulnik. Rispettivamente gli Autori
sono citati per orientare l’assetto pedagogico, educativo e riabilitativo dello
studio, proponendo un parallelismo tra le Pedagogia della Speranza e la nozione
di resilienza, associata alla categoria di inedito possibile e utopia realizzabile. In
questo senso si indica, inoltre, la visione della salute dell’ICF e il modello
bioecologico di Bronfenbrenner.
Il secondo capitolo introduce ai Centri Antiviolenza, analizzando la teoria che
soggiace le pratiche e le metodologie adottate e soffermandosi sulla relazione di
aiuto tra donna vittima di violenza e operatrice, che la accompagna nel percorso di
empowerment e di riappropriazione della propria vita. Particolare attenzione è
accordata ai rischi che tale relazione comporta. Il paragrafo finale del capitolo è
dedicato ai dati statistici sul femminicidio nel 2009, alla diffusione del fenomeno
della violenza e delle sue evoluzioni, al fine di fornire indicazioni concrete per
una corretta collocazione della tematica trattata.
Il terzo capitolo apre la seconda parte del lavoro ed è interamente rivolto
all’indagine condotta con le 16 operatrici dei 5 Centri che hanno aderito alla
ricerca. La prima sezione del capitolo è quindi dedicata alla descrizione della
metodologia adottata nella realizzazione dell’indagine. La seconda parte si occupa
dell’analisi della stessa ricerca, che prevede lo studio trasversale delle interviste
rilasciate dalle professioniste, a cui segue un commento conclusivo.
Il quarto ed ultimo capitolo prende le mosse da tali conclusioni per estrapolare,
secondo l’ottica dell’ecologia sociale umana della resilienza, i fattori di rischio e
di protezione per le operatrici dei Centri Antiviolenza. Accanto ad essi si
suggeriscono indicazioni quotidiane per la buona strutturazione della vita
all’interno delle Case delle donne e tutelare così, partendo dal basso, le operatrici.
È forte, comunque, la coscienza della necessità di andare oltre tale primo step,
sollecitando un’attenzione a livello macroambientale, quindi istituzionale.
Al termine di questo percorso mi rendo conto che, grazie all’indagine svolta, alle
domande iniziali, che ne hanno determinato l’avvio, se ne sono aggiunte delle
altre, anche se il rimando delle operatrici intervistate mi fa ben sperare di aver
intrapreso una buona strada. Resta comunque la consapevolezza della parzialità
8
del presente lavoro, ma ritengo che non possa essere altrimenti, come osservava
Popper, infatti:
“La nostra conoscenza può essere solo finita mentre la nostra ignoranza non può che
essere necessariamente infinita.”
9
I
La cornice teorica
Premessa
La presente cornice teorica vuole fornire una sintesi dei principali riferimenti
teorici sottesi al lavoro di tesi. Intento del Capitolo I è perciò l’inquadramento di
alcuni nodi concettuali collegati all’operare a contatto con le vittime del trauma e
rilevati a fronte delle variabili generali rintracciate nella disamina della
letteratura
2
.
L’indagine qualitativa condotta su un campione di 16 operatrici dei Centri
Antiviolenza, di cui si tratterà dettagliatamente nel Capitolo III, mira a
rintracciare, da un lato, l’instaurarsi o meno nelle professioniste della
traumatizzazione vicaria; dall’altro lato vuole esplorare la possibilità di una
crescita successiva al contatto traumatico col materiale narrativo portato dalle
donne vittime di maltrattamento. Ciò al fine di individuare l’avvio di possibili
processi resilienti nelle professioniste, a seguito della messa in campo di strategie
di coping e processi di empowerment e di una positiva interazione di fattori
personali, associativi e socioculturali. La prima direzione verso cui orientarsi
teoricamente attiene, quindi, ad un ambito prettamente psicologico in base al
quale si definisce la tipicità dell’emergenza e si accenna alla Psictraumatologia e
alla stessa Psicologia dell’emergenza. Si chiamano in causa, inoltre, le nozioni di
compassion fatigue intesa come tipica dei lavori di aiuto e delle professioni di
emergenza in generale. Si analizzerà anche il possibile esito patologico del
2
Per una rassegna sull’argomento si vedano: BRUNO S. T., Le emozioni delle operatrici e degli
operatori nel lavoro con donne vittime di violenza, in Prospettive Sociali e Sanitarie, anno XXV,
n°2, Milano, Istituto per la ricerca sociale, 2005; CASTELLI C., SBATTELLA F., Psicologia dei
disastri. Interventi relazionali nei contesti di emergenza, Roma, Carocci, 2003;
GIANNANTONIO M., Psicotraumatologia e psicologia dell’emergenza, Salerno, Ecomind, 2005;
GOLDBLATT H., Caring for abused women: impact on nurses’ professional and personal life
experiences, in JAN Journal of advanced nursing, Blackwell Publishing Ltd, 2009; PALESTINI
L., PRATI G., PIETRANTONI L., CICOGNANI E., La qualità della vita professionale nel lavoro
di soccorso: un contributo alla validazione italiana della Professional Quality of Life Scale
(ProQOL), in Psicoterapia cognitiva e comportamentale, vol.15, n°2, pp. 205-227, Trento,
Erikcson, 2009; PIETRANTONI L., PRATI G., Psicologia dell’emergenza, Bologna, Il Mulino,
2009.
10
contatto col trauma trattando in relazione, per analogia sintomatica, la sindrome
da stress post traumatico e la traumatizzazione vicaria. Quest’ultima rappresenta
l’esito patologico che possono comportare alcuni lavori di cura, ma si instaura in
una minoranza di soggetti.
Accanto a un possibile esito patologico, però, vi è l’infinita possibilità
rappresentata dalla sorpresa, dall’inedito possibile. Per orientare la trattazione
delle evoluzioni positive si fa allora riferimento ad un’impostazione squisitamente
pedagogico rieducativa in cui si collocano la cosmologia di pensiero di Freire e di
Cyrulnik. I due Autori sono proposti su binari paralleli e in costante
comunicazione: la Pedagogia della Speranza di Freire è assunta come fondamento
teorico della stessa nozione di resilienza. Si presentano quindi i principali concetti
dell’Autore brasiliano allo scopo di avviare la trattazione del processo di
resilienza. A tal fine, inoltre, si fa riferimento ad un’ottica biopsicosociale
coniugando la visione di salute dell’ICF e il modello bioecologico di
Bronfenbrenner.
1.1 L’emergenza
Il termine emergenza deriva dal latino emèrgere che indica il venire a galla di
cosa tuffata e, per estensione in senso figurato, il farsi scorgere, il risaltare, il
segnalarsi
3
. L’emergenza è dunque qualcosa che segnala, che per la sua gravità ha
un grande risalto. Nel senso comune, infatti, definiamo emergenza una situazione
particolarmente critica, grave e di difficile gestione
4
. L’emergenza presuppone
perciò un contesto specifico, una data situazione di particolare criticità che, come
tale, comporta reazioni e interventi a loro volta altrettanto specifici e situati. Nella
letteratura scientifica
5
il contesto d’emergenza si definisce in base all’interazione
3
www.etimo.it.
4
www.garzantilinguistica.it
5
CASTELLI C., SBATTELLA F., Psicologia dei disastri. Interventi relazionali nei contesti di
emergenza, Roma, Carocci, 2003; LAVANCO G., Psicologia dei disastri. Comunità e
globalizzazione della paura, Milano, Franco Angeli, 2003; PIETRANTONI L., PRATI G.,
Psicologia dell’emergenza, Bologna, Il Mulino, 2009; MCCANN L., PEARLMAN L. A.,
Psychological trauma and the adult survivor. Theory, therapy and transformation, New York,
Brunner-Routledge, 1990; YOUNG B. H., FORD J. D., RUZEK J. I., FRIEDMAN M. J.,
GUSMAN F.D., L’assistenza psicologica nelle emergenze. Manuale per operatori e organizzazioni
nei disastri e nelle calamità, Trento, Erickson, 2002.
11
di diverse variabili che, assieme, concorrono a determinare situazioni più o meno
gravi. Tali variabili sono:
- l’intensità dell’evento, che si specifica nei danni poi causati e nel
conseguente impatto psicosociale,
- la durata dell’evento,
- le sue caratteristiche spaziali, vale a dire la zona o le zone coinvolte.
6
L’interazione di tali variabili comporta, a sua volta, il coinvolgimento di un
clima emotivo, di una risposta organizzativa e di un insieme di condizioni
ambientali
7
. L’emergenza è dunque complessa anche per definizione.
Per aiutarci nella comprensione del termine si fa ora riferimento agli eventi che
determinano tali situazioni e alle classificazioni operative disponibili in
letteratura: i disastri. Nonostante non vi sia a tutt’oggi un accordo in merito alla
categorizzazione, quella che è in vigore prevede la suddivisone dei disastri in due
macrocategorie
8
:
- disastri naturali (Natural disasters o Acts of God)
- disastri indotti dall’azione umana (Man made disasters o Acts of man).
Per disastri naturali si intendono: terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni,
siccità, uragani e i fenomeni correlati, quali ad esempio le pandemie. I disastri
indotti dall’azione umana, a loro volta, si suddividono in accidentali e
intenzionali. Gli accidentali sono quelli causati dall’errore umano, spesso
identificati come disastri tecnologici derivati dalla negligenza di singole persone.
Alcuni esempi possono essere le catastrofi industriali, il crollo di edifici e
incidenti di vario genere. I disastri indotti dall’azione umana, invece, sono quelli
che l’uomo sceglie di causare deliberatamente e comprendono: atti criminali,
violenze e terrorismo. La categoria che sarà presa in considerazione success
elaborato è quella delle violenze interpersonali, all’interno della quale rientrano
forme di aggressione che possono anche non essere letali, ma non per questo
6
PIETRANTONI L., PRATI G., Psicologia dell’emergenza, Op. cit., p. 16.
7
CASTELLI C., SBATTELLA F., Psicologia dei disastri. Interventi relazionali nei contesti di
emergenza, Roma, Carocci, 2003, p. 24.
8
Per una disamina della letteratura consultata in materia si veda la nota 4 del presente Capitolo.
12
meno invasive o dannose. Queste ultime sono: le aggressioni fisiche, le violenze
sessuali, le restrizioni economiche, le limitazioni dello spazio personale o la
deprivazione.
Rispetto alla tassonomia a cui si è appena fatto riferimento è bene precisarne,
però, la criticità e parzialità, dato che sempre più spesso è difficoltoso, se non
impossibile, stabilire un confine preciso tra gli esiti causati dall’azione umana e
quelli scatenati dalla natura e, quindi, rispettare la suddivisione dei disastri
proposta dalle due categorie. Basti pensare alle tragedie naturali causate dalla
noncuranza dell’uomo. Si deve quindi riconoscere come la realtà ci imponga di
essere ancora una volta flessibili nell’uso di categorie che sono cognitivamente
utili, ma che vanno applicate con un costante sguardo critico e flessibile.
Da quanto esposto fino ad ora la Psicologia dell’emergenza rintraccia quindi il
suo campo d’azione nel disastro, che sia naturale o causato dall’uomo, collettivo o
privato. Lavanco in Psicologia dei disastri però suggerisce un’ulteriore
precisazione, soffermandosi sull’etimologia delle parole disastro e catastrofe.
Sebbene entrambe vengano utilizzate come sinonimi il loro significato ne svela la
peculiarità: disastro è composto dal prefisso dis che ha il senso di contrario,
cattivo, maligno, e da astro che significa stella. Disastro è così traducibile
letteralmente come “cattiva stella”. A tale interpretazione se ne preferisce però
una meno stigmatizzante: una cattiva stella marchia eccessivamente e lascia poca
possibilità di sottrarsi a un destino avverso. Il dis astro potrebbe invece essere
interpretato come stella che ha perso la via maestra e quindi non funge più da
guida, non è più stella cometa, ma fa perdere, lasciando comunque la possibilità di
ritrovare il cammino tracciato o batterne di nuovi.
Catastrofe, invece, deriva dal greco katastrophè, vale a dire rivolgimento,
capovolgimento. Sembra quindi che il disastro indichi l’evento stesso, mentre la
catastrofe stia a rappresentare ciò che esso ha causato
9
. Catastrofe così è l’impatto
traumatico collettivo o individuale che il disastro genera e di fronte al quale si
rende necessario un intervento.
Dell’intervento in situazioni catastrofiche, individuali e/o collettive, si è
occupata la Psicologia dell’Emergenza, di cui Giannantonio traccia i confini:
9
LAVANCO G., Psicologia dei disastri. Comunità e globalizzazione della paura, Milano, Franco
Angeli, 2003, pp. 30-31.
13
“ La psicologia dell’emergenza è quello specifico ambito di studio e di applicazione che
mira -in un contesto di emergenza- a preservare e ripristinare l’equilibrio psichico delle
vittime, dei parenti e dei soccorritori in seguito all’effetto destabilizzante di eventi
catastrofici e traumatici in senso lato.”
10
La psicologia italiana, a differenza di quella americana, si è occupata dell’ambito
dell’emergenza solo di recente, costituendo nel 1998 la Società Italiana di
Psicologia dell’Emergenza (SIPEM-Onlus). Lo studio sistematico dei disastri nel
nostro Paese era stato avviato però in precedenza, nel 1986, in occasione del
terremoto del Friuli, a seguito del quale si produssero i primi studi scientifici
sull’analisi dei processi psicologici e sociali conseguenti a catastrofi. Ciò che
sembra di maggiore rilevanza ai fini del presente lavoro è l’ottica processuale del
disastro che si è sviluppata nel corso degli anni: si è andata via, via abbandonando
l‘idea che il disastro fosse un semplice evento limitato nel tempo per abbracciarne
l’aspetto processuale e dinamico in cui acquisisce importanza la dimensione
psicosociale complessa. Non è più sufficiente, perciò, considerare solo la fase
dell’impatto e della distruzione, ma il focus deve spostarsi anche sulla stessa
emergenza per centrarsi poi sulla ricostruzione e sulle implicazioni che tali fasi
hanno sulle comunità, sulle famiglie e sui singoli.
La letteratura propone diverse fasi indicatrici dell’evoluzione del disastro:
- fase d’impatto,
- fase d’emergenza,
- fase di ricostruzione.
La fase d’impatto indica l’arco temporale in cui l’evento si abbatte sulla comunità
o sui singoli disorganizzandone e destabilizzandone il sistema sociale.
I momenti immediatamente successivi all’impatto riguardano la fase d’emergenza
durante la quale la collettività e le istituzioni si attivano per rispondere alle prime
necessità della popolazione colpita. L’ultima fase è quella della ricostruzione
10
GIANNANTONIO M., Psicotraumatologia e psicologia dell’emergenza, Salerno, Ecomind,
2005, p. 328.
14
secondo la quale va attivata una strategia politica, sanitaria e sociale adeguata e in
grado di permettere alla comunità di riorganizzarsi e rimediare ai danni subiti.
Un’ulteriore suddivisione in fasi, presente in letteratura, riguarda la risposta
emozionale dei soggetti coinvolti nel disastro secondo cui si distinguono quattro
momenti:
- fase eroica,
- fase della luna di miele,
- fase di disillusione,
- fase di ricostruzione.
Nella fase eroica si sperimentano emozioni forti e si agiscono azioni eroiche. In
questo momento, che segue subito il disastro, i familiari e i team dell’emergenza
sono identificati come le risorse umane più importanti. Nella fase della luna di
miele, collocata tra una settimana o uno o due anni dopo il disastro, prevale il
senso di condivisione di un’esperienza difficile che è stata superata. Si genera
quindi un grande ottimismo, sollecitato dalle promesse delle istituzioni. Tra i due
mesi e i due anni dopo l’evento si assiste alla fase della disillusione durante la
quale i sentimenti provati sono quelli di rabbia, risentimento, amarezza a seguito
degli aiuti solo promessi e in realtà non ricevuti. Tale fase è sostenuta anche dalla
perdita graduale del senso di condivisione comunitaria, dovuta all’individualismo
delle persone che tendono a concentrarsi sulla propria esistenza in vista di una
ricostruzione della normalità. A seguito di queste forti emozioni negative si
sperimenta gradualmente la consapevolezza di doversi assumere personalmente la
responsabilità della risoluzione dei propri problemi
11
.
Il mosaico dell’emergenza si arricchisce così di altri tasselli: non solo l’evento,
ma anche le vittime e le loro reazioni.
11
LAVANCO G., Psicologia dei disastri. Comunità e globalizzazione della paura, Op. cit., pp.
37-39.
15
1.2 Le vittime e le loro reazioni al trauma: il PTSD e la
traumatizzazione vicaria
L’esposizione ad eventi traumatici scatena nel soggetto una crisi, dato che le
difficoltà percepite sembrano superare le risorse di cui dispone, causando così la
rottura dell’equilibrio omeostatico fino ad allora mantenuto con l’ambiente
esterno
12
. L’impatto traumatico avviene a diversi livelli e verranno di
conseguenza distinte più tipologie di vittime a seconda del grado di prossimità
che il soggetto ha sperimentato rispetto allo stressor. Si distingueranno quindi:
- vittime di primo livello: coloro che hanno fatto esperienza diretta del
trauma;
- vittime di secondo livello: i cari delle vittime di primo livello;
- vittime di terzo livello: soccorritori, professionisti e volontari che
intervengono;
- vittime di quarto livello: la comunità coinvolta e chi è in qualche modo
responsabile del disastro;
- vittime di quinto livello: soggetti che, pur non essendo direttamente
coinvolti, hanno un equilibrio psichico tale per cui possono manifestare
un disturbo emozionale;
- vittime di sesto livello: soggetti che avrebbero potuto essere coinvolti
nella circostanza o che hanno involontariamente spinto qualcuno nella
situazione della calamità o si sentono coinvolti per diverse ragioni.
Alla luce di quanto appena appreso è possibile operare un’ulteriore distinzione in
base alla traumatizzazione subita che può quindi essere:
- diretta: l’evento traumatico è vissuto direttamente, in prima persona;
- vicaria: si è testimoni o spettatori di eventi gravi a cui si assiste o si è
presenti;
- mediata: venire a conoscenza di eventi estremi vissuti da altri.
12
PIETRANTONI L., PRATI G., Psicologia dell’emergenza, Op. cit., p. 57.
16
Nel primo caso si parlerà di traumatizzazione diretta, nei restanti due di
traumatizzazione indiretta o vicaria.
Vivere eventi stressanti può quindi comportare l’insorgenza di problematiche o
patologie, ma è bene specificare che solo una percentuale modesta dei soggetti
vittime di eventi traumatici manifesterà conseguenze psicologiche durature e
accertabili.
Prima di proseguire nella trattazione è opportuno fare chiarezza attorno al
concetto di trauma e alle reazioni da esso attivate. Tale nozione, infatti, è
estremamente ampia e costellata per sua natura di rischi intellettuali. Tentando di
proporre una definizione che sia in equilibrio tra descrizioni eccessivamente
asettiche ed altre estremamente soggettive, presa coscienza del ruolo della
valutazione personale di un individuo rispetto al proprio vissuto, ma riconoscendo
come non tutto ciò che genera stress possa essere ricondotto al trauma, si fa
riferimento alla concettualizzazione proposta da Giannantonio e colleghi:
“Può quindi essere euristico distinguere tra PTSD come previsto dal DSM-IV-TR e
disturbi post traumatici da un lato e reazioni traumatiche, ovvero risposte dell’individuo
come se si fosse trovato di fronte ad un trauma vero e proprio, non essendosi però
verificato un tale trauma”.
13
Il trauma coinvolge da un lato una dimensione stressogena, caratteristica di un
evento che arrecherà un danno più o meno importante al soggetto che vive tale
evento. Dall’altro lato vi è la dimensione della vulnerabilità della vittima,
componente connaturata a ciascun soggetto e situazione proprio perché peculiare
dell’esistenza umana, limitata di per sé. La gravità del danno causato da un trauma
varia da persona a persona ed è in relazione con più variabili in interazione tra
loro, personali e comunitarie.
La patologia più diffusa a seguito di un evento traumatico è la cosiddetta
Sindrome post traumatica da stress (PTSD). I fattori da considerare come
determinanti nell’innestarsi duraturo di tale disturbo sono da rintracciare in una
concezione multifattoriale che prevede l’interazione di diverse variabili:
13
Cfr. GIANNANTONIO M., Psicotraumatologia e psicologia dell’emergenza, Op. cit., pp. 128-
129.