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nuove teorie del commercio internazionale. Tuttavia, non si
può dire che la teoria ortodossa debba essere abbandonata
definitivamente, dal momento che essa si rivela tuttora di
grande utilità nello spiegare le ragioni di una buona parte
dei flussi commerciali che si realizzano tra i vari paesi (si
pensi allo scambio di derrate agricole, o al commercio in
materie prime o in prodotti semilavorati).
Ad ogni modo, non vi è dubbio che le “nuove
teorie” si siano ormai affermate in modo irreversibile, e ciò
soprattutto grazie alla loro maggiore aderenza alla realtà.
Esse infatti ammettono l’esistenza di forme di mercato non
concorrenziali – come l’oligopolio o la concorrenza
monopolistica – e prevedono anche la possibilità che si
verifichino rendimenti di scala crescenti e che si realizzino
quindi economie di scala nella produzione (di tipo sia
interno che esterno), oltre al fatto che meglio si dispongono
a includere temi diversi quali il progresso tecnico,
l’aumento del reddito dei consumatori, la differenziazione
dei prodotti, ed altri ancora. Sono questi, in sostanza, i
diversi argomenti che è necessario trattare, nel tentativo di
predisporre una rassegna sufficientemente completa dei
numerosi contributi in materia.
L’impostazione generale del presente lavoro prende
lo spunto dal capitolo VIII del manuale di G. Gandolfo
“Corso di economia internazionale”, vol. 1, specialmente
11
per quanto riguarda la scansione dei vari argomenti. In ogni
caso, si è sempre fatto riferimento diretto ai testi originali
in inglese (articoli e saggi), con particolare attenzione ai
contributi di maggior contenuto innovativo.
L’opera è così organizzata: il capitolo 1 è un breve
riassunto delle tre principali teorie “ortodosse” (classica,
neoclassica e H-O); il capitolo 2 evidenzia le differenze e i
limiti delle teorie tradizionali rispetto alle “nuove teorie”; il
capitolo 3 racchiude una serie di contributi eterogenei
organizzati secondo diversi filoni (tra i quali: la teoria del
gap tecnologico, la teoria del ciclo del prodotto, l’effetto
reddito); il capitolo 4 tratta del commercio intraindustriale,
con particolare riferimento alle spiegazioni empiriche
dovute a Grubel e Lloyd; il capitolo 5 presenta in modo
generale le teorie neo Heckscher-Ohlin (e contiene, inoltre,
l’esposizione di un modello elaborato da R. Falvey). Infine,
i capitoli 6 e 7 – rispettivamente dedicati alla concorrenza
monopolistica e all’oligopolio – affrontano il complesso
tema dell’organizzazione industriale, con particolare
riferimento all’impatto delle diverse forme di mercato non
concorrenziali sul commercio internazionale.
12
1
Introduzione: la teoria ortodossa del
commercio internazionale.
La teoria pura del commercio internazionale è un
ambito di studi tra i più antichi e tradizionali fra le
discipline economiche. L’importanza degli scambi
commerciali per la prosperità delle nazioni risultò evidente
fin dal nascere della scienza economica, in un’epoca in cui
le relazioni internazionali e il commercio tra paesi
risultavano assai meno agevoli rispetto ai giorni nostri. I
problemi sollevati dall’interscambio commerciale attrassero
l’ingegno dei più valenti economisti del diciottesimo e
diciannovesimo secolo, i cui contributi teorici rivestono
tuttora un’importanza considerevole. Le opere di economisti
come Adam Smith o David Ricardo rappresentano ancora
oggi un prezioso lascito di intuizioni e concetti che
continuano a guidare molti studiosi nelle loro ricerche.
Naturalmente, dagli albori della disciplina fino ai
tempi più recenti, vi sono stati progressi e avanzamenti
teorici di grande importanza, stimolati dall’enorme
espansione dei commerci internazionali, dalle sempre più
complesse interrelazioni tra le economie nazionali, dal
costante evolversi del progresso tecnico e, più in generale,
13
dal continuo mutare dello scenario economico. Tuttavia,
alle evoluzioni e ai cambiamenti avvenuti nel contesto
economico - particolarmente numerosi e complessi
soprattutto negli ultimi cinquanta anni - non sempre hanno
corrisposto paralleli avanzamenti nella teoria del
commercio internazionale.
Ben presto risultò chiaro che il modello di
interscambio suggerito dalla tradizionale teoria del
commercio non era più sufficiente a spiegare - o non
riusciva a spiegare in modo soddisfacente - alcuni dei
cambiamenti e degli aspetti peculiari dello scambio
internazionale, così come andava evolvendosi negli ultimi
anni.
In effetti, a partire dal secondo dopoguerra, con la
notevole intensificazione delle relazioni commerciali che
seguì alla conclusione del periodo bellico, era possibile
constatare l’esistenza di un modello e di un’organizzazione
di scambi in gran parte incoerente con ciò che veniva
suggerito dalla teoria.
Mentre si era sostenuto, fino ad allora, che
dovevano essere soprattutto le differenze tra paesi (nella
dotazione di risorse, nella tecnologia, nei gusti dei
consumatori) a condurre i paesi a specializzarsi nella
produzione di determinati beni, tralasciando la produzione
di altri, e quindi a scambiarsi i propri prodotti traendo
14
mutui benefici dal commercio; era inevitabile notare come,
in realtà, gli scambi avvenissero innanzitutto tra paesi che
risultavano simili tra di loro.
Osservando la tabella 1.1, si nota chiaramente che
la quota di scambi commerciali che avviene tra i paesi
industrializzati, caratterizzati da forti somiglianze tra di
loro (nella dotazione di risorse, nella tecnologia e nei gusti),
è di gran lunga maggiore rispetto alla quota di scambi tra i
paesi industrializzati e i paesi in via di sviluppo. Più di due
terzi delle esportazioni mondiali in beni manufatti hanno
origine da paesi industrializzati, e quasi tre quarti di tali
esportazioni hanno come destinazione sempre un paese
industrializzato. D’altra parte, mentre i paesi in via di
sviluppo immettono sul mercato circa un quarto delle
esportazioni mondiali di prodotti manufatti, essi ricevono
soltanto una piccola proporzione delle esportazioni di
manufatti provenienti dai paesi sviluppati. In effetti, la
quota principale di scambi commerciali tra paesi con un
elevato grado di sviluppo consiste essenzialmente in uno
scambio reciproco di prodotti alquanto simili tra loro (ad
esempio: macchinari, attrezzature industriali, mezzi di
trasporto, ecc.).
15
Tabella 1.1 Matrice delle esportazioni mondiali*
Destinazione PI PVS PVT Mondo
Origine
PI 1963 49,9 14,7 2,5 67,1
1973 55,1 12,5 3,3 70,9
1983 46,2 15,0 2,9 64,1
1987 55,0 12,3 2,6 69,9
1994 51,5 17,0 2,0 71,6
PVS 1963 15,2 4,4 1,1 20,7
1973 14,4 3,9 0,9 19,2
1983 16,3 7,1 1,3 24,6
1987 13,5 4,8 1,4 19,7
1994 15,4 9,3 0,3 25,4
PVT 1963 2,3 1,8 8,1 12,1
1973 2,7 1,5 5,7 9,9
1983 3,2 2,3 5,7 11,3
1987 2,8 2,0 5,5 10,4
1994 2,0 0,5 0,5 2,9
Mondo 1963 67,4 20,9 11,7 100,0
1973 72,2 17,9 9,8 100,0
1983 65,7 24,3 9,9 100,0
1987 71,3 19,2 9,5 100,0
1994 68,9 26,7 2,8 100,0
*
Fonte: GATT, International Trade 87-88, Vol.II. WTO, International trade
1995, Trend and Statistics (Table A2) per il 1994. Per la classificazione: PI: paesi
industrializzati (Nord America, Europa Occidentale, Giappone, Australia e Nuova
Zelanda); PVS: paesi in via di sviluppo (America Latina, Africa, Medio Oriente e
Asia); PVT: “paesi in via di transizione” (Europa orientale ed ex Urss).
16
Già da queste poche considerazioni risulta chiaro
che ci devono essere altre spiegazioni al fenomeno del
commercio internazionale. Non basta, cioè, individuare le
ragioni degli scambi commerciali nell’esistenza di alcune
più o meno marcate differenze tra i diversi paesi. Occorre
invece ripensare le cause del commercio internazionale,
individuando spiegazioni alternative e formulando nuove
teorie più aderenti alla realtà.
Pur non negando una certa validità alla teoria
ortodossa del commercio internazionale, numerosi
economisti - a partire dagli anni sessanta e settanta - si sono
impegnati nello sforzo di superare le notevoli ipotesi
semplificatrici presenti nei modelli economici di tipo
tradizionale. I loro tentativi non hanno permesso di
giungere ad una nuova teoria del commercio avente validità
generale, tuttavia hanno reso possibile la comprensione di
specifici fenomeni di grande importanza (come l’espansione
delle multinazionali o la differenziazione dei prodotti) che
precedentemente venivano del tutto ignorati. Soprattutto, le
nuove teorie si sono rivelate più efficaci nel fornire
spiegazione del notevole incremento degli scambi che ha
caratterizzato il secondo dopoguerra, ed anche del
particolare modello di organizzazione dei flussi
commerciali che si è imposto in questo stesso periodo e che
17
vede prevalere nettamente gli scambi tra paesi caratterizzati
da grosse somiglianze.
Ma prima di esporre nel dettaglio i principali
avanzamenti teorici ottenuti negli ultimi decenni, può essere
utile richiamare brevemente i presupposti essenziali della
teoria ortodossa del commercio internazionale.
1.1 I presupposti teorici.
Le economie nazionali commerciano tra di loro in
beni e servizi essenzialmente per due ragioni, ciascuna delle
quali determina uno specifico vantaggio economico.
In primo luogo, le nazioni commerciano fra loro in
quanto posseggono caratteristiche che le differenziano l’una
dall’altra. Pertanto, le nazioni - al pari dei singoli individui
- possono trarre beneficio dalle rispettive differenze
stabilendo per ciascuna di esse una propria specializzazione.
In altri termini, ciascun paese si concentra sulle produzioni
per cui risulta relativamente più dotato, sia in termini di
fattori produttivi o di condizioni ambientali, sia in termini
di competenze tecnico-produttive.
In secondo luogo, le nazioni commerciano fra loro
allo scopo di realizzare economie di scala nella produzione.
Se infatti ciascun paese produce soltanto una limitata
18
varietà di beni, probabilmente risulta in grado di fabbricare
ciascuno di questi beni sfruttando economie di scala più
ampie, sostenendo costi di produzione più bassi e
raggiungendo un più elevato grado di efficienza. Ciò non
accade, invece, se ogni paese decide di fabbricare in proprio
qualsiasi tipo di prodotto.
Nel mondo reale, la tipologia degli scambi
commerciali riflette la presenza di ambedue le ragioni
fondamentali enunciate, oltre a coinvolgere un numero
elevato di altri fattori talvolta di difficile valutazione.
Tuttavia, le teorie tradizionali del commercio internazionale
tralasciano di considerare la possibilità che si manifestino
economie di scala nella produzione di certi beni. Al
contrario, si concentrano sull’esistenza di differenze tra i
paesi come determinante principale del commercio e dei
vantaggi da esso derivanti.
In linea generale, qualora la spiegazione delle
determinanti del commercio internazionale sia incentrata
principalmente sulla presenza di differenze tra i paesi
coinvolti nello scambio, assume grande rilievo il concetto di
“vantaggio comparato”. Si dice che un paese possiede un
vantaggio comparato nella produzione di un dato bene
quando il costo opportunità che occorre sostenere in tale
paese nella produzione di quel bene - espresso in termini di
19
un altro bene - è inferiore a quello che occorre sostenere per
la produzione del medesimo bene in altri paesi.
1.2 La teoria classica.
La teoria classica del commercio internazionale,
originariamente elaborata agli inizi del XIX secolo
dall’economista inglese David Ricardo1, è appunto basata
sul concetto di vantaggio (costo) comparato, inteso però in
una particolare accezione più restrittiva.
Il modello ricardiano spiega infatti l’esistenza e la
struttura del commercio internazionale sulla base delle
differenze nella tecnologia impiegata dai diversi paesi: tali
differenze si riflettono inevitabilmente sull’entità dei costi
di produzione, determinando quindi il sorgere di un
vantaggio a favore del paese che sostiene i costi di
produzione più contenuti.
Tuttavia, dal momento che si considerano - almeno
nella versione più semplificata - economie dotate di un solo
fattore produttivo (il fattore lavoro), l’esistenza di scambi
internazionali viene in realtà motivata dal semplice
manifestarsi di differenze nella produttività del lavoro. In
1
David Ricardo, The Principles of Political Economy and Taxation, pubblicato
per la prima volta nel 1817
20
tal caso, i vantaggi comparati sono determinati dalla
maggiore specializzazione o dalla particolare abilità che
caratterizza la forza lavoro di un certo paese in un
determinato settore produttivo piuttosto che in altri.
I costi unitari di produzione che caratterizzano
ciascun tipo di merce fabbricata vengono espressi in termini
di unità di lavoro, indicando il numero di ore lavorative
necessarie per ottenere ogni singola unità di prodotto.
Si ipotizzi che esistano due paesi, in cui vengono
prodotte due sole merci e che i fattori produttivi siano
limitati al solo fattore lavoro: è chiaro che se uno dei due
paesi si dimostra superiore all’altro nella produzione di un
bene2 (ove tale superiorità viene misurata da un minore
impiego di ore lavorative per unità di prodotto, che si
riflette poi in un minor costo unitario di produzione) e meno
efficiente invece nella produzione dell’altro bene, vi è la
base per un proficuo scambio commerciale. Vi sono inoltre
le condizioni affinché si realizzi una completa
specializzazione di ambedue i paesi, ciascuno nella
produzione in cui risulta superiore, con notevoli vantaggi
per entrambi.
2
Si parlerà in tal caso di vantaggio assoluto. Quando un paese è in grado di
produrre una unità di un certo bene impiegando meno ore lavorative rispetto ad
un altro paese, diciamo che possiede un vantaggio assoluto nella produzione di
quel bene.
21
Ma il vero contributo della teoria ricardiana
consiste nell’aver dimostrato che possono sussistere le
condizioni per uno scambio proficuo anche nell’ipotesi in
cui uno dei due paesi risulti superiore all’altro nella
produzione di ambedue le merci.
Affinché si realizzi, anche in tale caso, uno scambio
conveniente per entrambi i paesi occorre innanzitutto che vi
sia una differenza nei costi comparati relativi ai due paesi.
Il costo comparato può essere definito come il rapporto fra i
costi unitari assoluti delle due merci nel medesimo paese,
espressi in termini di ore lavorative per unità di prodotto. E’
ulteriormente necessario che il rapporto tra i prezzi a cui i
due beni vengono scambiati sul mercato internazionale (la
cosiddetta ragione di scambio internazionale) sia compreso
tra i costi comparati dei due paesi, senza peraltro essere
uguale ad alcuno dei due. Se queste due condizioni risultano
contemporaneamente verificate, ciascun paese tenderà a
specializzarsi nella produzione del bene in cui ha il
vantaggio relativamente maggiore (o lo svantaggio
relativamente minore). Anche in tal caso, dunque - come
conseguenza degli scambi commerciali - si avrà
specializzazione completa in entrambi i paesi.
Malgrado l’estrema semplicità che lo caratterizza, il
modello ricardiano ad un fattore produttivo consente
importanti conclusioni. L’apertura agli scambi
22
internazionali apporta benefici non solo ai paesi capaci di
fronteggiare la concorrenza estera, ma anche a quelli che
non detengono alcun vantaggio assoluto rispetto ai
concorrenti. I paesi caratterizzati da una minore produttività
del lavoro devono però corrispondere ai lavoratori salari
relativamente più bassi, in modo da contenere i costi di
produzione e compensare gli svantaggi di produttività che li
penalizzano rispetto agli altri. Tuttavia, la necessaria
flessibilità verso il basso dei salari non va intesa come
conseguenza diretta (e iniqua) dell’apertura agli scambi
commerciali, in quanto un’eventuale chiusura ai commerci
non farebbe altro che ridurre ulteriormente il benessere dei
paesi relativamente meno avvantaggiati.
Anche se molte conclusioni della teoria ricardiana
sono state confermate dagli studi empirici, altre
implicazioni non trovano invece riscontri convincenti.
Innanzitutto, non si osserva in nessuna nazione una
tendenza verso la specializzazione completa della
produzione: sotto questo profilo le conclusioni del modello
ricardiano sono semplicemente irrealistiche. Inoltre, non
vengono adeguatamente considerati gli effetti di
redistribuzione del reddito indotti dal commercio
internazionale all’interno delle singole economie. Infine,
viene del tutto trascurata l’importanza delle differenze tra i
vari paesi nella dotazione di risorse, né d’altra parte si
23
attribuisce alcuna importanza alle economie di scala come
causa del commercio internazionale. Per queste ragioni,
dunque, non è possibile considerare la teoria ricardiana
come uno schema teorico dotato di validità generale.
1.3 La teoria di Heckscher-Ohlin.
Sebbene il commercio internazionale rifletta
almeno in parte l’esistenza di differenze nella produttività
del lavoro, non bisogna trascurare l’influenza esercitata
dalle differenze nella dotazione di risorse. Una visione
realistica del fenomeno dello scambio commerciale deve
infatti riconoscere l’importanza non solo della forza lavoro,
ma anche degli altri fattori produttivi, (terra, capitale,
risorse energetiche, ricchezze minerarie, ecc.)
La teoria elaborata all’inizio degli anni ’30 dai due
economisti svedesi Eli Heckscher e Bertil Ohlin attribuisce
l’esistenza dei vantaggi comparati - e l’insorgere
dell’interscambio commerciale - esclusivamente alle
differenze nella dotazione dei fattori produttivi. Viene
enfatizzata, in particolare, la relazione fra le proporzioni in
cui tali fattori risultano disponibili nei diversi paesi e le
proporzioni in cui devono essere utilizzati nella produzione
dei diversi beni, o in altri termini, il legame che intercorre
24
tra le differenti dotazioni di risorse e la tecnologia
produttiva impiegata. La conclusione cui si perviene è che
ciascun paese esporta il bene la cui produzione richiede un
impiego relativamente più intenso del fattore di cui il paese
ha una dotazione relativamente più abbondante3 .
Nella formulazione di un modello Heckscher-Ohlin
è però necessario introdurre numerose ipotesi
semplificatrici. In primo luogo, si presume la possibilità di
libero scambio, l’esistenza di condizioni di concorrenza
perfetta, l’immobilità internazionale dei fattori produttivi e
l’assenza di costi di trasporto. Si tratta di ipotesi largamente
diffuse nei modelli di ispirazione neoclassica (come il
modello Heckscher-Ohlin), ma riscontrabili anche nel
modello ricardiano. In secondo luogo, limitandoci a
considerare la versione più semplice del modello - che
prevede l’esistenza di due soli paesi, due prodotti e due
fattori primari - occorre formulare le seguenti ipotesi
aggiuntive:
1) le funzioni della produzione devono presentare
rendimenti di scala costanti, e le produttività marginali dei
due fattori devono risultare sempre positive e decrescenti
rispetto all’impiego di ciascun fattore.
3
L’abbondanza di un fattore è sempre definita in termini relativi e mai in termini
assoluti. Ad esempio, si potrà affermare che in un certo paese è relativamente
abbondante il fattore capitale se in tale paese il rapporto capitale/lavoro è
particolarmente elevato. Nessun paese, dunque, potrà essere abbondante in ogni
risorsa.