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“Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’,
ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca.
Esso può invadere e devastare il mondo intero,
perché si espande sulla superficie come un fungo.
Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità,
di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla.
Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.
La banalità del male- Hanna Arendt
INTRODUZIONE
Da sempre la psicologia, occupandosi di caratteristiche e tratti di personalità, ha cercato
di collegare e prevedere a quali modalità esistenziali corrispondono determinati tipi di
comportamento, soprattutto quando questi deviano dalla norma e hanno effetti negativi
sia per l’individuo stesso, sia per la società. Il disturbo antisociale di personalità, e nella
sua forma estrema, la psicopatia, desta interessa sia per le caratteristiche socialmente
devianti e incredibilmente amorali, considerate molto spesso al margine della “follia”,
sia perché questi individui sono più a rischio di altri di mettere in atto comportamenti
criminali.
Lo scopo di tale lavoro è mostrare dapprima le caratteristiche peculiari, i criteri
diagnostici e i metodi di valutazione principali di tale tipologia di personalità, anche se,
data la sua complessità, non trova uniformità concettuale nel mondo scientifico.
L’obiettivo in parte sarà mostrare come talune caratteristiche siano in qualche modo
determinate da processi neurobiologici, evolutivi, genetici, esperienziali, culturali, come
in qualsiasi disturbo psichico, cercando in tal modo di schiarire l’ombra
dell’incomprensibilità sulla natura di tale disturbo di personalità.
In particolare,nel campo della psicodinamica, sarà delineata l’ipotesi basata sulla
Mentalizzazione di Fonagy e Target per la spiegazione dell’evoluzione di tale disturbo.
Nella seconda parte sarà preso in considerazione l’istituto giurisprudenziale
dell’imputabilità, con i suoi riferimenti a concetti come vizio di mente e infermità,
perno d’incontro tra Diritto e Psichiatria Forense. Lo scopo sarà quello di vedere il
disturbo di personalità antisociale dal punto di vista forense, alla luce della nuova
Sentenza della Corte di Cassazione n°9163/05 che prevede l’inclusione dei gravi
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disturbi della personalità nei criteri di non imputabilità. Verranno descritte, a tal
proposito, le modalità procedurali delle valutazioni peritali e le nuove acquisizioni in
campo neuro scientifico, in tema di accertamento della capacità di intendere e volere.
Infine, la trattazione prende in esame due aspetti apparentemente distinti ma che invece
dovrebbero essere interconnessi: le conseguenze sul piano sanzionatorio dell’autore di
reato considerato pericoloso socialmente, al quale appartiene l’individuo antisociale, e il
problema del suo trattamento.
Si descriverà a tal proposito, l’ambiguità del giudizio di pericolosità sociale che può
portare alla reclusione negli OPG (oggi REMS), dove il trattamento è nelle intenzioni
ma non nella pratica. Da qui si aprirà la discussione circa la difficoltà, connessa però
alla necessità, del trattamento dei pazienti antisociali con tutte le implicazioni e
prospettive cliniche. Alla fine verrà proposto l’approccio della “Terapia Basata sulla
Mentalizzazione” sulla quale è stato condotto uno programma pilota per il trattamento
degli antisociali.
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CAPITOLO 1
IL COMPLESSO MONDO PSICOPATICO-ANTISOCIALE
Immergersi nella descrizione delle caratteristiche distintive del mondo antisociale non è
un compito facile in quanto molti aspetti sono ancora oscuri all’interno della letteratura
contemporanea. Ad oggi, gli autori non sono concordi sulle definizioni, sui fattori
eziologici, esponendo numerosi ipotesi che non riescono esaustivamente a spiegare i
tratti comportamentali connessi al quadro della personalità antisociale.
Lo scopo di questo capitolo sarà quello di delineare le principali caratteristiche
distintive di questo tipo di disturbo di personalità, cercando di chiarire le differenze
sulla terminologia, sondare il problema della diagnosi, e delineare le ipotesi eziologiche
più accreditate nella letteratura, per creare una base teorica sulla quale poi affrontare il
tema dell’imputabilità quando il protagonista è un individuo antisociale.
VERSO UNA DEFINIZIONE
“La psicopatia è un disturbo della personalità caratterizzato da un’ anomala mancanza
di empatia combinata a condotte antisociali, che è mascherato dall’abilità di apparire
“normale” (Cleckley, 1976; Hare, 2003)
All’interno della letteratura psicologica e medica la psicopatia è stata descritta
principalmente nei seguenti modi:
-“La psicopatia è un disturbo deviante dello sviluppo, caratterizzato da una condizione
di aggressività istintuale e dall’incapacità di stringere una relazione oggettuale basata
sulla reciprocità e sulla corrispondenza delle comuni emozioni.” (Meloy, 1988)
-“un disturbo socialmente devastante che include caratteristiche affettive,
interpersonali e comportamentali” ( Hare, 1998)
-“un disturbo emozionale che porta l’individuo al rischio di esporsi ripetutamente a
forme di comportamento estremamente antisociale”( Blair, Mitchell, 2005)
La psicopatia è stata a lungo associata al crimine e al comportamento antisociale ed è
stata considerata uno dei miglior predittori di una futura antisocialità. (Monahan et al,
2001)
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In un articolo recente di Tamatea (2015) si suggerisce come una specificità della
definizione può aiutare a ridurre gli offuscamenti clinici che possono derivare da criteri
diagnostici inclusivi o opachi. Una volta stabilito il fenotipo psicopatico, e stabilito il
contributo dei geni e dell’ambiente (e la loro interazione), si può assistere a un
miglioramento per una precoce individuazione della vulnerabilità a sviluppare tratti
psicopatici e ridurre il rischio di danni futuri.
La ricerca attuale si è concentrata su fenotipi specifici, come i tratti insensibili-inemotivi
(Larsson, Viding, e Plomin, 2008) o l’impulsività (Hicks, Carlson, Blonigen, Patrick,
Iacono, e Mgue, 2012). Il vantaggio di esplorare questi fenomeni espliciti è che sono
cospicui e permettono abbastanza facilmente la loro individuazione in un campione
significativo.
TERMINOLOGIA
Molti clinici, autori e scrittori usano i termini “psicopatia”, “sociopatia” e “disturbo
anti-sociale di personalità” in maniera interscambiabile per riferirsi ad individui con
“tratti di personalità che sono valutati come negativi e dannosi da un punto di vista
sociale […], con uno stile affettivo e interpersonale predatorio” (Hare, 2003)
In molti casi la scelta del termine riflette il punto di vista di chi lo usa circa le origini e
le determinanti del disturbo. Per chiarezza distinguiamo:
Psicopatia: letteralmente significa “malattia mentale” (ψυχή “psichè” e πάϑοϛ
“sofferenza”) e ciò ha creato molta confusione anche per l’uso mediatico del termine,
usato molto spesso, come sinonimo di “folle”. Gli psicopatici non sono privi di contatto
con la realtà, mantengono la capacità di giudizio e sono in grado di discernere tra
mondo esterno ed interno.
La distinzione dunque tra psicotico, che per definizione ha una perdita di contatto con la
realtà, e psicopatico, è fondamentale anche per i risvolti in campo forense (di cui
parlerò successivamente). Chi usa psicopatia ritiene che fattori psicologici, biologici e
genetici concorrano allo sviluppo della sindrome, per cui si mette in risalto la specificità
di alcuni tratti di personalità, altamente pervasivi che danno luogo a tipici
comportamenti devianti.
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Bisogna ricordare inoltre, che il termine psicopatia non compare nella nosografia
psichiatrica più utilizzata.
Sociopatia: chi usa sociopatia ritiene che essa sia determinata da fattori sociali ed
esperienze precoci, dando risalto dunque ai fattori eziologici di tipo ambientale. (Hare,
2009)
Il termine sociopatia fu utilizzato per la prima volta nel 1930 da G.E. Patridge, che
esclude ogni riferimento a tratti personologici, esaltando le caratteristiche problematiche
del contesto sociale di questi individui.
Disturbo antisociale di personalità: è stato descritto nella forma più comunemente
conosciuta nella terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali
(DSM-III, 1980) dell’American Psychiatric Association, in cui vengono elencati i criteri
diagnostici consistenti in una lunga lista di comportamenti antisociali e criminali. La
diagnosi dunque si basa principalmente sull’osservazione del comportamento deviante.
Riprendendo la definizione di Meloy (1988), nella psicopatia si mette in risalto
l’istintualità e i deficit emotivi dei soggetti , cui il disturbo antisociale di personalità
aderirebbe solo in una certa misura.
Dati epidemiologici hanno evidenziato che se è vero che il 90 % degli psicopatici
soddisfa i criteri per una diagnosi di ASPD, il contrario è vero solo nel 25 % dei casi.
(Hare, 2003)
In conclusione possiamo affermare che la psicopatia è un processo in cui fattori emotivi
e comportamentali interagiscono per formare tratti di personalità, l’ASPD si riferisce
alla marcata esteriorizzazione di comportamenti che delineano l’antisocialità.
La differenza tra i due termini sarà chiarificata ulteriormente successivamente quando
affronterò le questioni diagnostiche.
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CENNI STORICI
Il primo documento che abbiamo in cui compare il concetto di psicopatia è il Della
Pietà di Tirtamo, detto Teofrasto (371-287 a.C) in cui viene indicato il termine
impudenza per delineare le condotte antisociali. (Liggio, 2012)
E’ solo però nella seconda metà dell’Ottocento che viene ampliato l’interesse sui
disturbi mentali connessi a condotte criminali, soprattutto per la ricerca sui fondamenti
fisiologici.
Philippe Pinel, psichiatra francese all’inizio del XIX secolo parlava di “manie sans
delire” (1809) per indicare quelle forme di comportamento contraddistinte dall’assenza
di rimorso in cui non c’era alcuna compromissione della volontà o dell’intelletto, ma
erano colpite solo le funzioni affettive. Esquirol, allievo di Pinel, su questa scia delineò
il concetto di “monomania affettiva” riuscendone a dare un’autonomia concettuale.
Pinel ed Esquirol consideravano queste condizioni come moralmente neutrali, dando
avvio ad un acceso dibattito tra studiosi sulla responsabilità penale dei comportamenti
devianti. (Surace, 2005)
Cesare Lombroso (1835-1909) con la pubblicazione de “L’uomo delinquente” (1876)
andò ad elaborare una dottrina bioantropologica che ancora oggi ha ripercussioni nella
comunità scientifica.
Secondo Lombroso, alcuni criminali avevano delle caratteristiche morfologiche a livello
cranio-encefalico che erano strettamente collegate a deformità mentali.
Nacque cosi il cosiddetto “delinquente nato” che aveva per definizioni delle scariche
emotive e comportamentali impulsive e violente (epilettoidismo).
Questa concezione patologizzante e deterministica del comportamento delinquenziale
ebbe delle conseguenze anche nel campo giuridico. (Fornari, 2012)
L’epoca di Lombroso è l’epoca del Positivismo, quindi, non ci si sorprende se la
formazione degli psichiatri e degli antropologi del tempo aveva degli ancoraggi molto
forti alle uni causalità biologiche o anatomiche della malattia mentale.
Successivamente con la nascita dei trattamenti psicologici con indirizzi dinamici, con
gli studi sociali e culturali, si è avviato un inquadramento sociologico delle strutture di
personalità, considerata il frutto di deficit a vari livelli interagenti.