6
Un complesso di musica da camera che si esibisce composto in un
teatro; un gruppo rock che infiamma gli animi dei suoi spettatori in uno
stadio; un‟orchestra di liscio che richiama al ballo il suo pubblico non più
giovanissimo; una folla confusa e alcolica di ragazzi che si scatenano in
una discoteca; un quartetto jazz che improvvisa in una cantina annebbiata;
un soprano che si esercita in un attico stellare; un clochard che piange dalla
sua armonica; una rassegna di ambiziose band emergenti in un parco
pubblico; un compositore in sala d‟incisione che registra dubbioso il tema
principale di una colonna sonora; un coro di voci bianche che arricchisce
una liturgia domenicale; una schiera di lavoratori in sciopero che intona un
inno della Resistenza…
Gli esempi di momenti in cui incontriamo la musica nella nostra vita
sono davvero infiniti; ma forse c‟è un aspetto, fra i tanti, sul quale poco si
riflette: siamo abituati a considerare la musica, la sua esecuzione, il suo
ascolto, la sua fruizione, come un fenomeno che si esprime in quei contesti
umani e sociali nei quali le persone vivono e agiscono “liberamente”, dove
con tale avverbio alludo (per ora) ad un‟oggettiva assenza di costrizioni e
7
limitazioni etero-imposte alla libertà di movimento e di azione degli
individui. In altre parole, si dà per scontato che la musica, con le sue
molteplici e sfaccettate modalità, sia presente solo laddove essa è
percepibile quale espressione creata e destinata ad un ascolto, individuale o
collettivo, autonomo o organizzato, ma comunque inserito in un ambito
generalizzato di normalità sociale; sottintendiamo il ruolo della musica
nella nostra vita allo status di individui liberi e indipendenti, che, attraverso
tali determinazioni, fruiscono della musica stessa, dei pensieri che produce,
delle emozioni che suscita, dei movimenti che stimola.
Da queste prime riflessioni è nato lo spunto embrionale per il
presente lavoro: capire se e come la musica sia presente, oggi e soprattutto
nel passato, all‟interno di quei luoghi in cui la parola “libertà” può
rappresentare tanto una multiforme astrazione della mente quanto, con il
suo esatto contrario, la pratica conferma di una ineluttabile quotidianità; in
due parole, c‟è musica nelle istituzioni totali?
Probabilmente il lettore più pragmatico avrebbe preferito questo
secco interrogativo alla precedente pagina di elucubrazioni… Ma riletta
con maggiore attenzione, la medesima domanda aprirebbe quantomeno due
voragini di significato che sarebbe sciocco, e forse impossibile, saltare: che
cos‟è la musica e che cosa sono le istituzioni totali. Come l‟ampiezza e la
profondità dei due temi (anche singolarmente affrontati) non può essere
8
scandagliata da un luminare, è ovvio che il tentativo nemmeno vagamente
si profila per una comune tesi di laurea di uno studente e musicista: resta,
tuttavia, la curiosità di provare a capire qualcosa di più su un tema, si vedrà,
ben poco sondato dalla ricerca – se non da lontano e, comunque, attraverso
approcci di diversa matrice scientifica – che pure suggerisce la presenza di
tratti non trascurabili in termini di implicazioni nei rapporti sociali che
hanno luogo in un‟istituzione totale.
Pertanto, cercherò innanzitutto di offrire uno spaccato sintetico ma,
mi auguro, sufficientemente esaustivo (e propedeutico al resto dello studio)
dei due grandi argomenti: le istituzioni totali, con i tipi, le caratteristiche,
gli elementi peculiari e le questioni principali; e la musica, le sue funzioni
sociali, i suoi riflessi sui rapporti, il suo inserimento nei contesti
d‟interazione e, successivamente, nell‟ambiente istituzionale. Passerò
dunque ad un‟analisi più focalizzata della relazione “istituzione-musica” in
tre ambiti esemplari: carcere, ospedale psichiatrico e campo di
concentramento; a seguire, proverò a seminare qualche ulteriore
interrogativo sulle altre istituzioni totali e sul senso delle musiche che
attraversano le loro variegate strutture. Al fine di ampliare la comprensione
del tema e (spero) suffragare le riflessioni qui esposte, lo scritto è corredato
di tre interviste ad esperti e addetti ai lavori che si sono, a vario titolo,
occupati della musica dentro un‟istituzione totale.
9
Nel momento in cui si accetta la comparazione delle conoscenze, e la
si impiega in un modesto esperimento, credo che si stiano costruendo i
presupposti di nuove sfide, si risvegliano interrogativi sopiti, o se ne
formulano altri mai apparsi in precedenza, che celano una complessità del
reale del tutto inattesa e, forse, ancora in attesa di essere scoperta.
Questo è ciò che proverò a fare. La principale avvertenza che sento,
infine, di dover lanciare riguarda gli inevitabili limiti (concettuali, di
ricerca, di sviluppo) che tale scritto avrà: per queste ragioni preferisco
immaginare di aver sbirciato dentro queste tematiche come un ragazzino
che, incuriosito dai suoni che vengono dal manicomio fuori città durante un
pomeriggio primaverile, si avvicina e, dopo aver scoperto una crepa sul
muro, sbircia con l‟occhio (e con l‟orecchio) e corre a raccontarlo a
qualcuno.
11
1.1. L’oggetto, le caratteristiche, le implicazioni di base
Nella nostra società esse sono luoghi in cui
si forzano alcune persone a diventare diverse:
si tratta di un esperimento naturale su ciò che può essere fatto del sé.
[ERVING GOFFMAN, Asylums]
La paternità del termine istituzione totale, fortunato negli studi
sociali e relativamente diffuso nel linguaggio comune e giornalistico, è da
alcuni attribuita al sociologo Everett Hughes, sebbene sia stato il
capostipite delle riflessioni sociologiche sull‟interazione nella vita
quotidiana, Erving Goffman, a consolidarne l‟affermazione. Il suo
fondamentale contributo oltrepassa l‟aver formulato una pur pregevole
definizione, con quelle luci e ombre che essa può gettare sulla carta e sulla
mente; il merito dello studioso è stato indubbiamente quello di far scoprire,
ad un sempre più ampio numero di studenti e lettori, gli ingranaggi della
vita istituzionale, il sottobosco delle relazioni, gli espedienti della
sopravvivenza umana laddove può apparire spesso inesistente una via
d‟uscita dal degrado fisico, spirituale, culturale e sociale dell‟individuo.
Ad ogni modo, poche iniziali parole del sociologo americano, nella
premessa del suo celebre Asylums, ci offrono immediatamente delle valide
coordinate concettuali su cui ragionare:
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Un‟istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro
di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole
periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo
parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato.
1
In queste righe esistono almeno sette elementi chiave che
contraddistinguono il contesto:
a) luogo di residenza e di lavoro: la nostra vita quotidiana consta
principalmente di tre attività (lavorare, trascorrere il tempo libero e dormire)
che vengono di solito svolte in posti distinti; alle istituzioni totali è
possibile imputare la «rottura delle barriere che abitualmente separano
queste tre sfere di vita»
2
, poiché tutto avviene nel medesimo spazio e con
tempi rigidamente prestabiliti, finalizzati al “coinvolgimento” di
b) gruppi di persone: una pluralità eterogenea e, talvolta, confusa e
sconnessa di individui provenienti dalla realtà, quella c.d. “civile”, che, per
qualche ragione, non li accetta più, destinando tali persone ad essere
c) tagliate fuori dalla società: ciò coincide con la privazione dei loro diritti,
la pesante menomazione della loro socialità, il congelamento della loro
biografia, davanti allo scorrere inesorabile della vita esterna, per un
1
E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell‟esclusione e della violenza, Einaudi,
Milano 2010, p. 29.
2
Ivi, p. 35.
13
d) considerevole periodo di tempo: in genere esso è imposto da un‟autorità
specifica, sulla base di un atto compiuto o di una particolare condizione –
di cui è portatore il destinatario dell‟intervento – la quale viene reputata
incompatibile, più che con determinate norme giuridiche, con estesi precetti
di convivenza sociale; i due criteri più utilizzati per discernere i
comportamenti in oggetto sono quelli di intenzionalità/incapacità e di
pericolosità/non-pericolosità, che, a seconda della combinazione, generano
un esito differente;
e) situazione comune: la condivisione non si limita a luoghi, orari, alle
dinamiche giornaliere o ai nuovi usi ed abitudini che l‟istituzione
richiede/offre o cui l‟istituzione costringe/stimola; si respira un destino
sospeso, in bilico tra le dure certezze cinte dalle mura e le amare aspettative
di un‟uscita che (laddove prevista) rivelerà ai protagonisti di tali esperienze
la feroce verità di avere, di fatto, trascorso nell‟istituzione
f) parte della loro vita: molto più che una parentesi, di frequente può
trattarsi di un inestimabile vuoto nell‟esistenza di una persona, che tocca
inevitabilmente anche tutto ciò e tutti coloro con cui vi era un contatto in
precedenza: la famiglia, considerata da Goffman come uno degli elementi
fondamentali della nostra società, spicca in tale discorso poiché le
istituzioni totali le sono del tutto incompatibili
3
; si verifica, quindi, come
3
Cfr. Ivi, p. 41.
14
una sorta di “coma sociale indotto”, con sporadici attimi di veglia e
frequenti ritorni al torpore; un‟alternanza che si snoda entro un
g) regime chiuso e formalmente amministrato: se le mura o il filo spinato
tratteggiano il confine fisico dell‟istituzione, la distinzione tra due gruppi di
persone ne traccia il confine relazionale: gli internati, ossia gli individui
controllati, e lo staff, che vi lavora soltanto, rimanendo comunque
«socialmente integrato nel mondo esterno»
4
; la distanza sociale tra i due
gruppi, precisa Goffman, è «generalmente notevole e spesso formalmente
prescritta».
5
Le ultime due parole del capoverso ci anticipano che, in fin dei conti,
i casi che qui considereremo dimostrano che una istituzione non si limita ad
essere un‟organizzazione formale, fondata su un insieme di regole, più o
meno codificate, e che possiede una struttura tendenzialmente stabile nel
tempo, perciò prevedibile; posto che, in linea generale, le istituzioni di
qualsiasi tipo esercitano una “forza normativa”, occorre capire in che modo
esse hanno a che fare con «quel fenomeno sociale primario che è il potere,
a cominciare dal fatto che la libertà dell‟attore subisce, poco o tanto, i
vincoli della vita istituzionale».
6
4
Ivi, p. 37.
5
Ibid.
6
O. De Leonardis, Le istituzioni. Come e perché parlarne, Carocci, Roma 2001, p. 81, corsivo mio.
15
Quello delle istituzioni totali è indubbiamente un esempio estremo di
tali aspetti, tanto che, prosegue Ota De Leonardis, si può a buon diritto
parlare di dominio, essendovi in gioco «una radicale asimmetria,
l‟asimmetria tra soggetti e oggetti di dominio»
7
. Siamo ben lungi dal
credere che il fenomeno non interessi più la società contemporanea,
pertanto bisogna ammettere che le (vecchie e nuove) istituzioni totali si
sono riformate, ammodernate, tecnologizzate, talvolta mimetizzate, ma vi
sono dei passaggi che rimangono essenziali e che si sono addirittura
perfezionati con il trascorrere delle stagioni di interesse per la vicenda: non
sono solamente i fattori illustrati in precedenza, commentando la lucida
definizione goffmaniana, bensì altri, invisibili all‟esterno delle mura eppure
così vivi e, non di rado, indelebili nelle relazioni che dentro questi luoghi
nascono e si sviluppano.
1.2. I mondi personali prima e dopo l’ingresso.
È come se ogni faccia fosse un cartello come quelli «Sono cieco»
che i suonatori di fisarmonica italiani, a Portland, si appendono al collo;
soltanto che questi cartelli dicono
«Sono stanco» o «Sono spaventato» o «Sto morendo di mal di fegato» o
«Sono completamente inceppato da meccanismi e la gente non fa che maltrattarmi». […]
Alcune delle facce si cercano a vicenda guardandosi attorno,
e potrebbero leggere la faccia degli altri se volessero, ma a che servirebbe?
Le facce volano via nella nebbia come coriandoli.
[KEN KESEY, Qualcuno volò sul nido del cuculo]
7
Ivi, p. 82.
16
Esiste una specie di prerequisito, che può anche apparire scontato o
banale, ma che si rivela del tutto costante e necessario all‟ingresso in una
istituzione totale: è la diversità, un qualche tipo di anomalia (evidente o già
nota) nella persona, che la consegna ad un ostracismo sociale tale da
profilare, come unica o principale possibilità, il coinvolgimento (se non la
mobilitazione) di apposito personale e strutture al fine di affrontare il
problema. L‟individuo che esperisce, subendolo, questo trattamento, è il
portatore di quello che Goffman definisce uno stigma, ossia
Una caratteristica su cui si focalizza l‟attenzione di coloro che lo conoscono
alienandoli da lui, spezzando il carattere positivo che gli altri suoi attributi
potevano avere. Ha uno stigma, una diversità non desiderata rispetto a quanto
noi avevamo anticipato.
8
Oltre alle deformazioni fisiche e agli “stigmi tribali” (della razza,
della nazione, della religione), vi sono gli “aspetti criticabili del carattere”
9
(passioni, credenze, idee politiche, pulsioni, etc.), i quali, palesatisi o meno
in certi modi e intensità, vengono assunti come indicatori di possibili
malattie mentali, come suggeritori di eventuali condanne penali, come
segnali di disagio o anormalità da gestire e, auspicabilmente, neutralizzare.
8
E. Goffman, Stigma. L‟identità negata, Ombre Corte, Verona 2003, p. 15.
9
Cfr., Ivi, p. 14.
17
Questi ingredienti compongono anche la ricetta di una radicata
interpretazione del concetto di devianza, che, come ricorda Howard Becker
nel suo Outsiders, tende a venir fatto coincidere con «qualcosa di
essenzialmente patologico, che rivela la presenza di una “malattia”»
10
,
seguendo la popolare analogia medica che si esplica nella dicotomia “corpo
sano/corpo malato”. Non vi è, tuttavia, nemmeno l‟ombra di un accordo in
dottrina, e ancor meno nella scienza, sul fatto che i comportamenti
“devianti” abbiano sempre una base patologica; e, in parallelo, è scorretto
affermare che le cause della devianza vanno unicamente ricondotte alla
situazione sociale del deviante o a fattori sociali che ne vincolano l‟azione
in tal senso. Perciò Becker puntualizza, nel suo corsivo, che «i gruppi
sociali creano devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la
devianza stessa»
11
; è l‟applicazione di tali norme-sanzioni verso un
“colpevole” a generare la devianza, che si configura quindi come
conseguenza e non come attributo o disvalore preesistente. Così, le persone
definite devianti, «condividono perlomeno l‟etichetta e l‟esperienza di
essere etichettati come outsiders»
12
, fermo restando che le norme coniate e
mantenute dal processo di etichettamento non sono universalmente
10
H.S. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, EGA Editore, Torino 2003, p. 24.
11
Ivi, pp. 27-28.
12
Ivi, p. 29.
18
accettate, ma sono oggetto di disaccordi e conflitti che fanno parte del
processo politico della società.
13
Dunque, c‟è sempre qualcuno che possiede ed esercita la capacità, di
solito ampia e, in qualche modo, legittimata, di decidere chi e cosa ha a che
fare con la devianza:
Le differenze nella capacità di stabilire le norme e imporle ad altri sono
essenzialmente differenze di potere (sia legale che extralegale). I gruppi più
capaci di imporre le proprie norme sono quelli che, grazie alla loro posizione
sociale, dispongono di armi e potere.
14
Se un‟agenzia di potere è in grado di purgare singoli componenti di
una società, ritenuti estranei ad essa (o meglio, a una certa idea su come
essa dovrebbe essere), risulta ancor più evidente l‟intima natura delle
istituzioni totali, ossia «luoghi di esclusione, o espulsione, sociale».
15
I modi attraverso cui tale processo escludente si verifica consistono
in un lavorio istituzionale che, sin dall‟ingresso, è incentrato sulla persona;
e sul suo corpo. Le procedure di ammissione, infatti, coincidono con dei
rituali imperniati sulla spoliazione dell‟individuo: mentre la nudità
corporea e l‟ispezione clinica pretendono di esporre il soggetto ad una
sommaria analisi fisiologica, con atti quali la sostituzione dei vestiti e la
13
Cfr. Ivi, p. 36.
14
Ibid.
15
O. De Leonardis, Le istituzioni, cit., p. 83.