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Introduzione
Investimenti diretti all'estero e commercio: complementi o sostituti? Questo
il titolo di un’analisi che la Banca d’Italia pubblicava alcuni anni orsono, in merito
al rapporto esistente tra investimenti e commercio, che gli autori risolvono a favore
1
della complementarietà. Il binomio compare ogni qualvolta si parla di sviluppo.
Quelle che potrebbero considerarsi semplicemente due facce della stessa medaglia
– quella dello sviluppo, appunto – sono state spesso contrapposte come se l’una
escludesse l’altra e viceversa. Recentemente ha prevalso invece la
complementarietà, a dimostrazione del fatto che gli investimenti esteri non
sostituiscono i flussi commerciali – al limite rimpiazzano opportunità di
esportazione ormai perdute – e che uno sviluppo coerente ed equilibrato non può
2
rifiutare né l’uno né l’altro aspetto.
A riprova di ciò le relazioni economiche e finanziarie tra Stati, la cui
complessità ha ormai raggiunto un livello di cui forse neppure i circa tremila trattati
3
sugli investimenti – considerati quelli bilaterali e regionali - riescono a darne
un’esatta percezione. Si teme lo sgretolamento del sistema multilaterale di fronte ad
una incontrollata proliferazione di accordi a livello bilaterale e regionale. Anno
MORI, ROLLI (a cura di), Investimenti diretti all'estero e commercio: complementi o sostituti?,
Banca d'Italia, Roma, 1998.
Ibidem, op. cit., pp. 19-20.
OECD, The global economy and the global investment agenda - an OECD perspective, Remarks
by Angel Gurría, OECD Secretary-General,
USCIB Global Investment Conference, Washington, 10 March 2010,
http://www.oecd.org/document/0/0,3343,en_2649_34529562_44775040_1_1_1_1,00.html.
5
4
dopo anno, i manuali si arricchiscono sempre più di tali esempi e non è semplice
tenere traccia delle continue evoluzioni dello scenario economico globale.
Ormai si parla sempre più di Paesi in transizione o in via di sviluppo, ai
quali si aggiungono i Paesi meno sviluppati (least-developed countries) ed i
5
cosiddetti landlocked developing contries, Paesi in via di sviluppo privi di sbocchi
sul mare. Quando non sono esse stesse artefici di operazioni di investimento dirette
all’estero, le economie emergenti sono per lo meno destinatarie predilette delle
scelte degli investitori esteri, che sempre più frequentemente vi delocalizzano le
loro attività o settori aziendali. I motivi sono molteplici, tra i principali si collocano
la crescita economica e demografica e la ricchezza di risorse naturali, poi il minor
costo sociale e fiscale, la diversificazione del rischio.
Considerando il ruolo del WTO in tema di investimenti, è automatico
riferirsi all’Accordo TRIMs, allegato al GATT 1994, concernente le Trade-Related
Investment Measures: le misure relative agli investimenti che, per loro natura e
scopo, incidono sugli scambi commerciali. Sostanzialmente il WTO non
regolamenta l’ammissione ed il trattamento degli investimenti stranieri – a ciò
rispondono infatti le politiche nazionali dei singoli Stati - , tuttavia esso si occupa di
monitorare gli effetti dell’intervento pubblico in presenza di date operazioni di
investimento estero. L’attività del WTO è quindi quella di decifrare gli effetti di
simili interventi sui flussi commerciali internazionali e di segnalare eventuali
distorsioni competitive e possibili soluzioni. Gli interventi di cui si discorre in
questo lavoro sono appunto le TRIMs. Si tratta di quelle misure poste in essere dal
4
Cfr. ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI, Calendario atlante 2009, Novara, 2008, pp. 118 ss.
5
UNCTAD, World Investment Report 2009: transnational corporations, agricultural production
and development, Geneva 2009, p. 14.
6
7
Paese che ospita l’investimento (host country) e dirette ad influenzare le decisioni
dell’impresa straniera ivi localizzata. Spesso consistono nel concedere all’impresa
un vantaggio o un trattamento preferenziale (ad esempio, importare
semicomponenti senza pagare il rispettivo dazio), dietro raggiungimento di obiettivi
specifici che possono riguardare le vendite interne, le esportazioni, l’impiego di
capitali e risorse umane reperiti in loco, il trasferimento tecnologico, ecc. La
condizionalità con cui vengono concessi tali vantaggi rende la misura vincolante,
nel senso che l’impresa non vi si atterrebbe, se non in presenza di sostanziali
benefici economici e commerciali. Si vengono così a scontrare due esigenze, di per
sé legittime: da una parte il diritto dell’impresa al profitto, dall’altra lo sviluppo
economico dello Stato ospitante, che intende avvalersi della presenza straniera per
risollevare le sorti della sua bilancia commerciale, dell’occupazione o di quant’altro
sia in linea con la sua politica economica.
Un arduo compito quello di mettere nero su bianco, stilando norme – più o
meno specifiche – relative ad una tematica così intricata. L’Accordo TRIMs è stato
6
definito “il fallimento dell’Uruguay Round”, deludendo le aspettative di chi si
attendeva maggiori impegni con riguardo ad aspetti che inizialmente erano stati
evidenziati nella Carta dell’Avana e successivamente relegati in un angolino
7
sull’agenda del WTO. In alcuni casi si è sottolineato come tale accordo sia
percepito alla stregua di un soft law o di un’intesa interpretativa del GATT. Così le
TRIMs continuano ad essere utilizzate malgrado l’esistenza dell’Accordo, mentre
6
FUNKE, “Trends in Protectionism: Anti-dumping and Trade Related Investment Measures”, in
Intereconomics, vol. 29, n. 5, 1994, p. 224.
WTO, Indonesia - Certain measures affecting the automobile industry, Report of the panel, 2
luglio 1998, WT/DS54/R, WT/DS55/R, WT/DS59/R, WT/DS64/R., pp. 128 ss.
7
Paesi in via di sviluppo e Paesi meno sviluppati reiterano costantemente
l’estensione dei periodi transitori concessi per l’eliminazione di quelle esistenti.
Questo lavoro, che ha ad oggetto le TRIMs e le prospettive di
miglioramento della relativa disciplina multilaterale, è strutturato in tre parti. Nella
prima si è voluto introdurre il tema degli investimenti diretti esteri sotto un duplice
aspetto: quello dell’attuale congiuntura economica mondiale, che ha risentito
enormemente della crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti e poi diffusasi su scala
globale, senza lasciare immuni neppure le maggiori potenze economiche mondiali;
quello giuridico, col quale si è inteso cogliere i tratti più interessanti della disciplina
degli investimenti esteri, a livello bilaterale, regionale e multilaterale, al fine di
redigere uno schema della situazione odierna, nonché un modello di confronto e di
discussione di cui possa giovare un’eventuale futura opera di revisione
dell’Accordo TRIMs.
Nella seconda parte dello studio vengono approfondite le caratteristiche
delle TRIMs più diffuse come strumento di politica commerciale di molti Paesi in
via di sviluppo, sottolineando l’ampio ricorso ai requisiti di contenuto nazionale e
di bilanciamento, oltre che agli obiettivi in termini di esportazioni; in seguito
vengono valutati, a mezzo di ricerche e contributi pubblicati principalmente da
WTO e UNCTAD, quelli che finora sono stati gli obiettivi e le modalità di impiego
di tali misure, cercando di appurare le cause dietro l’utilizzo di simili strumenti.
L’approccio critico che caratterizza il lavoro si pone sia in merito alla nocività
attribuibile a taluni provvedimenti statali, ma anche in relazione all’attuale
formulazione dell’Accordo del WTO, che ad oggi rappresenta un discutibile mezzo
8
di soluzione del problema, se non altro a causa della strenuità delle fattispecie
considerate.
Pertanto dopo aver passato in rassegna le norme dell’Accordo e i principali
contributi della giurisprudenza dei panel in materia, nella terza ed ultima parte di
questa analisi verranno delineate quelle che sembrano le maggiori omissioni nel
testo normativo in questione. Si tratta soprattutto di tipologie di TRIMs non
contemplate, né esplicitamente, né implicitamente. Inoltre sulla scia di un
orientamento massimalista o estensivo si approderà ad una ipotesi di revisione
dell’Accordo che suggerisce, tra l’altro, un maggior coordinamento tra WTO e
UNCTAD, fori diversi nella loro composizione e sfera di competenza, ma a
maggior ragione protagonisti di un aggiornamento delle normative in vigore e delle
prassi internazionali, sul piano governativo così come su quello privato,
rappresentato dalle imprese multinazionali.
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8
CAPITOLO 1
Relazioni tra commercio e investimenti
§ 1.1 Investimenti in stand-by
§ 1.1.1 Caratteristiche degli IDE post-crisi
Oggi nel mondo si contano oltre ottantamila imprese multinazionali da cui
8
dipendono più di ottocentomila affiliate estere in totale. Le esportazioni da queste
9
affiliate ammontano a circa un terzo delle esportazioni totali di beni e servizi.
La crisi economica e finanziaria esplosa nel 2008 naturalmente non poteva
10
non incidere sui flussi di investimenti diretti esteri (IDE), i quali sono diminuiti
durante il 2009; tuttavia la situazione appare transitoria e dovrebbe migliorare tra il
2010 e il 2011. Il declino ha colpito in maniera differente i tre maggiori gruppi
economici - Paesi sviluppati, Paesi in via di sviluppo e le economie in transizione
UNCTAD, op. cit., p. XXI.
9
Ibidem, cit., p. XXI; MORI, ROLLI (a cura di), op. cit., p. 23.
10
L’investimento diretto estero (IDE) tout court si realizza nel momento in cui un investitore
stabilito in un Paese (home country) acquisisce un asset in un altro Paese (host country) con l’intento
di gestirlo. Nella maggior parte dei casi le controparti sono entrambe imprese o società, di cui la
prima è nota come casa madre o parent firm e la seconda come affiliata o sussidiaria o consociata.
Sempre più frequentemente infatti vengono messe in atto strategie di riorganizzazione internazionale
fondate sulla divisione della produzione, presupposto per l’efficienza e l’ottimizzazione dei processi.
Una prima categoria di IDE comprende quegli investimenti che mirano a servire un mercato estero
attraverso una consociata stabilita in loco. Una seconda tipologia riguarda le imprese che scelgono
di servire il mercato nazionale da un base estera più competitiva in termini di costi di produzione.
Infine la delocalizzazione può facilitare l’accesso a risorse di difficile reperibilità, materiali o
immateriali (brevetti, licenze, ecc.); Cfr. MORI, ROLLI (a cura di), op. cit., pp. 17-18.
10
dell’Europa Sud-orientale e della Comunità degli Stati Indipendenti - , riflettendosi
11
in un diverso impatto post-crisi.
I flussi di investimenti verso i Paesi sviluppati sono precipitati, mentre
continuano ad aumentare quelli verso Paesi in via di sviluppo e Paesi in transizione.
Il declino dei primi pare dovuto alle cessioni di numerose fusioni ed acquisizioni.
La miglior tenuta dei secondi sarebbe riconducibile invece al sistema finanziario,
molto meno agganciato a quelli statunitense ed europeo; oltretutto questi Paesi
stanno beneficiando del continuo aumento dei prezzi delle commodities, di cui sono
12
grossi esportatori.
A livello regionale, nel corso del 2008 i flussi di IDE diretti verso l’Africa
hanno registrato un notevole incremento (27%) e lo stesso dicasi per l’America
Latina ed i Caraibi, confermando la tendenza degli anni precedenti. Ciò non vuol
dire che la crisi non abbia minimamente intaccato le loro economie e questo è
ancora più evidente in Asia meridionale, orientale e Sud-orientale, la cui espansione
economica del 2008 ha conosciuto poi un brusco declino nel primo quadrimestre
del 2009. Un simile destino ha toccato i paesi della Comunità degli Stati
13
Indipendenti.
Il più importante Paese interessato dagli investimenti diretti esteri, sia in
termini di origine che di destinazione dei flussi, sono ancora una volta gli Stati
Uniti. Per quanto riguarda il vecchio continente, il Regno Unito ha perso il primato
europeo. Le economie in via di sviluppo, ma soprattutto quelle in transizione, i
Paesi meno sviluppati (least-developed countries), e le piccole isole in via di
11
UNCTAD, op. cit., p. XIX.
12
Ibidem, cit., p. XIX.
13
Ibidem, cit., p. XIX.
11
sviluppo, pur non avendo avuto grosse difficoltà in questo contesto, d’ora in poi
saranno probabilmente meno propense a promuovere investimenti in settori esposti
a fluttuazioni cicliche, e potrebbero reagire puntando ad esempio
14
sull’agroalimentare, godendo anche dei listini costantemente sostenuti.
Il declino ha coinvolto principalmente gli investimenti in portafoglio e le
operazioni di fusione e acquisizione, successivamente gli investimenti greenfield,
15
ovvero quelli che creano un’impresa ex novo (letteralmente “a prato verde”).
Considerando i settori, sono diminuiti gli investimenti nel manifatturiero e nei
servizi, mentre tengono bene quelli nel settore primario, il quale probabilmente
16
continuerà ad essere un forte polo di attrazione nei prossimi anni.
Notizie più specifiche sugli investimenti diretti esteri possono essere
desunte, oltre che dalle bilance dei pagamenti dei vari Stati, da ministeri ed agenzie
da cui promanano leggi e regolamenti nazionali. Ogni qualvolta questi ricevono
richieste di licenze oppure adempimenti di notifiche, i dati sui flussi di investimento
17
sono acquisiti e registrati. Vi sono inoltre studi governativi su dati di tipo
finanziario e operativo delle imprese. Si tratta spesso di dati non comparabili tra
Paesi a causa della diversità di terminologie o di ambiti di indagine, anche perché
non tutti i Paesi si sono conformati alle linee guida del Fondo Monetario
14
Ibidem, cit., p. XIX.
15
Ibidem, cit., p. XIX; VALDANI, BERTOLI, Mercati internazionali e marketing, Milano, 2006, pp.
235-240.
16
UNCTAD, op. cit., p. XIX.
17
WTO, Trade and foreign direct investment, Press release n. 57, 9 ottobre 1998,
http://www.wto.org/english/news_e/pres96_e/pr057_e.htm.
12
Internazionale che richiedono un certo grado di omogeneità nei dati forniti affinché
18
possano essere efficacemente confrontati.
§ 1.2 Commercio, concorrenza ed investimenti esteri
§ 1.2.1. Investimenti esteri tra opportunità e sfide globali
Una prima idea della mole raggiunta dai flussi di investimenti esteri ci viene
19
fornita dallo studio WTO sulle relazioni tra commercio e investimenti: il valore
delle vendite intra-firm delle consociate estere supera di gran lunga il valore del
commercio mondiale di beni e servizi. L’aumento degli investimenti stranieri,
secondo il detto studio, è riconducibile al venir meno dell’assistenza allo sviluppo,
su cui molti Paesi hanno fatto affidamento per troppo tempo. Gli stessi Paesi in via
di sviluppo constatano come sia sempre più pregnante la necessità di procurarsi
capitali esteri in modi alternativi che consentano accesso alla tecnologia, alle
competenze manageriali e organizzative, oltre alla possibilità di instaurare reti di
20
marketing. Il principio di reciprocità si fa notare ormai anche nella concretezza
delle necessità di sviluppo; vale a dire che tutti gli Stati – ciascuno secondo le
proprie potenzialità – intendono oggi essere autonomi operando su un piano di
parità con gli altri. Pertanto non più – o meglio – non soltanto aiuti allo sviluppo
concessi unilateralmente, ma cooperazione proficua per tutte le parti coinvolte.
18
Ibidem, cit.
19
Ibidem, cit.
20
Ibidem, cit.; MAKKI, SOMWARU, “Impact of Foreign Direct Investment and Trade on Economic
Growth: Evidence From Developing Countries”, in American Journal of Agricultural Economics,
vol. 86, n. 3, 2004, pp. 795-801.
13
Figura 1 – Flussi di IDE in entrata 1980-2008 su scala globale e regionale.
Fonte: UNITED NATIONS, World Economic Situation and Prospects 2009, p. 69.
Al di là delle ragioni inerenti alla politica dello sviluppo, è opportuno
evidenziare anche quali sono le motivazioni che spingono un’impresa a
delocalizzare le fasi del suo ciclo produttivo. Una è rappresentata dalla necessità
della presenza fisica sul mercato, in particolare ove si tratti il commercio di
21
prodotti; questa è una ragione fondamentale alla base dell’atteggiamento
difensivo di molti Paesi che ricorrono alle Trade-Related Investment Measures. A
21
MORI, ROLLI, op. cit., pp. 19 ss.
14
ciò si aggiungono la possibilità di accedere ad un mercato vasto o in forte
22
espansione e l’abbattimento delle distanze geografiche.
Altra modalità per penetrare un mercato estero è il sistema delle licenze.
Tuttavia non sempre un’impresa ricorre ad un simile strumento. Spesso infatti essa
preferisce “internalizzare” l’utilizzo del capitale, anziché renderlo usufruibile da
terzi mediante una licenza. Quest’ultima soluzione, in effetti, implica dei costi
(contrattazione, assicurazione della qualità, ecc.) che potrebbero essere evitati
gestendo le transazioni all’interno di un’unica società. Oltretutto la licenza,
trasferendo la tecnologia dal licenziante al licenziatario, causa una perdita di
23
controllo sull’utilizzo della stessa. In un momento storico in cui la competitività
dipende fortemente dall’innovazione questo particolare non è assolutamente
indifferente.
Un’ulteriore argomentazione giustificativa degli investimenti esteri è quella
del cosiddetto tariff-jumping, vale a dire l’aggiramento dei dazi all’importazione -
ad esempio sulla componentistica o sulle materie prime - grazie alla produzione o
24
estrazione in loco. Di frequente la scelta è fondata su economie di costo, anche a
livello di trasporto e di manodopera impiegata, a meno che il dazio non sia talmente
esiguo da rendere indifferente per l’impresa l’importazione.
22
BARBA NAVARETTI, VENABLES, BARRY, Le multinazionali nell'economia mondiale, Bologna,
2006, p. 27.
23
WTO, op. cit.
24
Ibidem, cit.; MORI, ROLLI, op. cit., p. 18; DEHEJIA, WEICHENRIEDER, “Tariff Jumping, Foreign
Investment and Capital Taxation”, in Journal of International Economics, vol. 53, n. 1, 2001, pp.
223-230; BLONIGEN, TOMLIN, WILSON, “Tariff‐ jumping FDI and Domestic Firms’ Profits”, in
Canadian Journal of Economics, vol. 37, n. 3, 2004, pp. 656-677.
15
Sappiamo bene come non tutte le multinazionali si localizzano negli stessi
paesi. La scelta dipende fortemente - oltre che dai fattori sopra evidenziati e dal
settore in cui opera l’impresa - dal quadro giuridico presente nell’host country. Un
ordinamento giuridico che protegge i diritti di proprietà degli investitori esteri
rappresenta senza alcun dubbio un’attrattiva, al punto da indurre l’impresa ad
25
operare attraverso la concessione di licenze, di cui si sono appena esaminati pro e
contro.
Anche la politica economica - dalle imposte alla politica commerciale, dalla
regolamentazione del mercato del lavoro all’ordinamento giuridico - modifica
l’attrattività di un paese come destinatario di investimenti. L’Irlanda anni fa ha
previsto cospicui sussidi, esenzioni fiscali o esoneri da determinate
regolamentazioni al fine di catturare gli investimenti esteri, ma non si tratta di un
caso isolato. La concorrenza tra diversi Paesi al fine di attrarre investimenti pone il
problema di un coordinamento internazionale delle politiche: da più parti si auspica
un migliore quadro giuridico ed istituzionale, una maggiore trasparenza e
un’armonizzazione delle regolamentazioni internazionali sugli investimenti, onde
26
poter ostacolare politiche promosse da gruppi di interesse.
Un accento particolare va posto sui processi di integrazione regionale. Essi
portano ad una riduzione dei costi commerciali interni che influenzano i volumi e le
caratteristiche degli investimenti esteri, sia all’interno che all’esterno della
27
regione. Cambiano le strutture di mercato, l’organizzazione delle imprese e il
25
BARBA NAVARETTI, op. cit., p. 27.
26
Ibidem, cit., p. 30.
27
UNCTAD, Trends in international investment agreements: an overview, Issues on international
investment agreements, Geneva, 1999, p. 42.
16
28
grado di attrattività delle operazioni di fusione e acquisizione. Un’area di libero
scambio o un’unione doganale danno all’impresa l’opportunità di servire un
mercato integrato da uno o al limite da pochi siti di produzione e con ciò diventa
29
più semplice raggiungere i benefici delle economie di scala. Gli effetti a livello di
distribuzione degli investimenti si collegano poi alla tipologia regionale
considerata: omogenea come l’Unione Europea, o con importanti differenze nelle
30
dotazioni fattoriali come nel NAFTA.
§ 1.2.2 Interconnessioni tra commercio ed investimenti
I nessi tra investimenti diretti all’estero e commercio internazionale sono
molteplici e di diverso segno. Se da un lato l’investimento diretto può servire ad
evitare le barriere commerciali protezioniste (tariff-jumping), dall’altro la politica
commerciale liberista di uno Stato normalmente favorisce gli investimenti diretti
stranieri, purché supportata da garanzie e condizioni favorevoli, in un contesto di
31
generale stabilità politica e legislativa.
Dal momento che parlare di commercio può sembrare più semplice e
naturale che parlare di investimenti, ogni volta che si vanno ad analizzare gli effetti
di entrambi i fenomeni, scaturiscono diverse questioni. Prima di tutto ci si chiede,
se in assenza di un investimento estero il paese sarebbe stato servito attraverso
importazioni o produzione locale; successivamente in che modo si possa
28
BARBA NAVARETTI, op. cit., p. 102.
29
WTO, op. cit.
30
BARBA NAVARETTI, op. cit., p. 102.
31
VENTURINI (con la collaborazione di ADINOLFI, DORDI, LUPONE), L'organizzazione mondiale del
commercio, Milano, 2004, pp. 52 ss.
17
massimizzare il benessere, avendo ben presente che taluni investimenti hanno il
32
solo effetto di estromettere analoghe attività locali.
In quest’ultima ipotesi l’ingresso di una multinazionale sottrarrebbe quote di
mercato alle imprese locali. Tuttavia l’investimento può anche contribuire a rendere
33
il mercato più competitivo, erodendo il potere monopolistico di queste. Potrebbe
far aumentare la produttività delle imprese domestiche, grazie alla maggiore
pressione competitiva che le porta a ridurre le inefficienze interne, ma anche grazie
alla presenza di imprese più efficienti e tecnologicamente più avanzate che
generano esternalità dirette di conoscenza (spillover) o effetti di apprendimento
34
(nuove tecnologie, metodi gestionali, opportunità di mercato). Pertanto, almeno
laddove le imprese locali sono poche, di piccola dimensione, male equipaggiate e
poco organizzate, l’ingresso di un’impresa estera potrebbe davvero arrivare come
una manna dal cielo.
Oltre che nel paese di destinazione, gli investimenti esteri hanno effetti
anche nel paese di origine, quello della casa madre. Se l’investimento è redditizio,
gli azionisti ne trarranno sicuramente un guadagno. A livello occupazionale, invece,
l’effetto complessivo dipende sia dai benefici che l’impresa ricava
35
dall’investimento, che dagli obiettivi che questa persegue nel paese ospitante e in
quello in cui ha sede.
32
BARBA NAVARETTI, op. cit., p. 28.
33
Ibidem, cit., p. 28.
34
Sugli spillover come presupposto per la nascita di clusters settoriali, cfr. BARBA NAVARETTI, op.
cit., p. 28.; OECD, FDI Spillovers and their Interrelationships with Trade, Trade Policy Working
Papers, n. 80, 2008, pp. 4 ss.
35
BARBA NAVARETTI, op. cit., p. 29.
18