È evidente che in questi casi le esigenze di prevenzione e neutralizzazione lasciano il
campo agli intenti afflittivi e stigmatizzanti, poiché non vi è una proporzione tra il
grado di pericolosità del soggetto destinatario e l'estensione della misura2.
Oggi le pene del bando e della morte civile sono scomparse e al loro posto sono
subentrate altre misure interdittive, più rispettose della sfera giuridica del soggetto
condannato e dei suoi familiari.
Lo scopo moderno dell'interdizione, infatti, punta soprattutto ad eliminare le
situazioni di rischio, evitando di punire in modo indiscriminato il colpevole; in altri
termini, la special-prevenzione, nella sua accezione negativa di neutralizzazione, ha la
meglio sull'antica funzione esemplare. e stigmatizzante delle pene incapacitanti.
Comunque, le interdizioni vigenti restano fortemente incisive quanto ad effetti
pratici sulla sfera personale del destinatario.
Per esempio, ponendo la mente al nostro codice penale, le pene interdittive
possono privare definitivamente il soggetto delle autorizzazioni amministrative
necessarie alla propria impresa, oppure farlo decadere per sempre dai pubblici uffici, o
infine, proibirgli di rivestire compiti direttivi nelle aziende.
Insomma, non si “ostracizza” più il reo, bensì gli si costruisce attorno una fitta
barriera di divieti ed inabilitazioni, isolandolo pur sempre dall'attività “macchiata” dal
reato, tuttavia in maniera meno devastante dell'esilio.
Al di sopra dei numerosi mutamenti storici e giuridici che hanno interessato
l'istituto dell'interdizione, in questo capitolo introduttivo intendiamo tratteggiare i
contorni del suo assetto generale, ossia ciò che, in un certo qual modo, “trascende” e
unisce le singole fattispecie.
Noteremo infatti che le interdizioni previste nel d.lgs. 231/2001 a carico degli enti
collettivi sfruttano al massimo livello le potenzialità preventive di tale strumento
sanzionatorio, molto più efficacemente delle pene interdittive sancite dal c.p. nei
confronti delle persone fisiche.
§ 1. L’assetto generale delle interdizioni: definizione, struttura, contenuti e funzione
Abbiamo appena sostenuto che esiste un modello generale di interdizione, una sorta
di schema di riferimento per comprendere e valutare qualsiasi legislazione in materia.
2 CERQUETTI G., voce Pene accessorie, in Enc. Dir., Vol. XXXII, Milano, 1982, p. 819;
4
In apertura si è fornita una nozione basilare dello strumento sanzionatorio in
esame, tuttavia occorre precisarne alcuni profili, allo scopo di distinguerlo da altri tipi di
pena. La restrizione della capacità giuridica, infatti, non è un attributo esclusivo delle
interdizioni: anche una pena detentiva, d'altronde, implica una sensibile limitazione della
sfera personale del condannato.
Il contenuto restrittivo della sanzione interdittiva, quindi, di per sé non è un
elemento qualificante; a caratterizzare le interdizioni è il ruolo che in esse gioca la
deminutio della soggettività giuridica.
Mentre le pene detentive hanno per scopo primario quello di restringere il bene
della libertà personale e solo come “effetto collaterale” quello di colpire la capacità
giuridica del soggetto, le interdizioni mirano direttamente a quest'ultima, privando il reo
di alcune particolari situazioni di vantaggio3.
Le sanzioni interdittive, perciò, si distinguono dagli altri mezzi repressivi, del pari
limitanti la sfera personale del reo, avendo per oggetto esclusivo e tipico la restrizione
della capacità di agire.
Questo dato sostanziale consente di individuare con sufficiente certezza quali pene
siano realmente interdittive; a nostro avviso, il dato formale del nomen assegnato dal
legislatore non è invece decisivo, potendo trovarsi sparse nell'ordinamento non solo
interdizioni, ma anche sospensioni, incapacità, inabilitazioni o revoche.
Pure la natura giuridica delle interdizioni può variare, ciò tuttavia non ne intacca i
connotati essenziali: la qualifica penale o amministrativa della sanzione, invero, è un
aspetto secondario, se solo si pensa alle sanzioni interdittive contemplate dal d.lgs.
231/01, le quali al di là del nome amministrativo sono sovrapponibili a quelle penali.
Assai importante è invece la posizione “gerarchica” delle interdizioni all'interno del
sistema sanzionatorio d'appartenenza, in quanto si prospettano due soluzioni possibili,
completamente alternative tra loro: o principali o accessorie.
Scegliere una via per l'altra incide in maniera sensibile su struttura e finalità delle
interdizioni, quasi duplicando il modello di riferimento: è chiaro che quando la sanzione
incapacitante viene disposta in via principale, la sua struttura diventa più flessibile e
adattabile alla gravità del fatto commesso.
3 ROMANO M., Commentario Sistematico del Codice Penale, art. 19, Vol. I, Milano, 2004, p. 210;
5
Per queste ragioni l'interdizione ha ricevuto spesso la qualifica tra le pene principali
in passato e anche oggi in alcuni Paesi europei, quali valide misure alternative alla
detenzione4.
Quando invece la pena incapacitante “accede” a un diverso provvedimento
punitivo principale, essa tende ad irrigidirsi ed appiattirsi su quest'ultimo, come
vedremo accadere nel nostro codice.
Questo discorso introduttivo non può che chiudersi con le finalità proprie della
sanzione interdittiva: sono le funzioni di politica criminale i veri “poli applicativi” della
categoria, attorno ai quali i legislatori costruiscono i presupposti ed immettono i
contenuti specifici nelle singole fattispecie.
Le finalità della pena interdittiva vanno in due direzioni distinte: da un lato, essa
persegue la neutralizzazione del reo, allontanandolo dalla società o dalla posizione di cui
ha abusato, onde evitare che egli commetta simili reati in futuro; dall’altro lato, essa
tende alla stigmatizzazione, con funzione puramente afflittiva, a carico di soggetti
responsabili di reati gravi e perciò divenuti “indegni” di certe posizioni5.
Le due funzioni devono essere contemperate tra loro, perciò ogni volta occorre
comprendere quale delle due esigenze abbia la priorità: quando difatti la fattispecie
interdittiva ha una prevalente componente neutralizzatrice, notiamo che essa va a
bloccare soltanto quelle attività concretamente pericolose in termini di recidiva.
Quando, al contrario, l'analisi della sanzione rivela una maggiore propensione alla
finalità retributiva, il giudizio di pericolosità del reo sfuma tra indici normativi astratti e
automatici, senza chiedersi più un nesso effettivo tra oggetto dell'interdizione e della
condotta delittuosa.
Trovare un soddisfacente punto mediano tra le due “polarità” opposte della
sanzione interdittiva è tutt'altro che semplice: molto spesso, difatti, il legislatore
codicistico proclama di aver configurato un efficace strumento special-preventivo, ma
poi, a seguito di un'accurata analisi normativa, emergono le antiche mire repressive.
Infine, non è estranea, ovviamente, un'ulteriore funzione “esemplare”, ovvero di
prevenzione generale, dato che l’incisività degli effetti pratici ha una potente capacità
dissuasiva nei confronti dei consociati.
4 Si veda per un confronto con le moderne riforme penali inerenti le interdizioni PRADEL J., Droit pénal
comparé, Dalloz, Parigi, 2002, p. 170; in particolare, Francia e Spagna hanno scelto la qualifica principale.
5 VENAFRO E., Funzione e disciplina delle sanzioni interdittive previste dal d.lgs. n. 231/2001, in AA.VV., Verso una
riforma del sistema sanzionatorio?, Atti del Convegno di Genova, 15 novembre 2006, a cura di PISA P.,
Torino, 2006, p. 49;
6
§ 2. La traduzione normativa come pene accessorie nel codice penale:
a) i presupposti dipendenti dalla condanna principale
Il legislatore italiano, dunque, di fronte al bivio tra pene interdittive principali o
accessorie, ha imboccato con decisione la seconda strada, in parte per ossequio alla
tradizione giuridica precedente, in parte per il dogma della centralità della pena
detentiva, ritenuta insuperabile quanto a efficacia dissuasiva e preventiva6.
La disciplina codicistica delle interdizioni ha il proprio centro nell'art. 20 c.p., ai
sensi del quale le pene accessorie “conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di
essa”. È la norma che fissa a livello generale il carattere automatico o ope legis delle
interdizioni nel codice.
L'art. 19 c.p., quindi, elenca le tipologie interdittive applicabili nei confronti delle
persone fisiche: l'interdizione dai pubblici uffici, l'interdizione o la sospensione da una professione o
da un'arte, l'interdizione legale, l'interdizione o la sospensione dagli uffici direttivi delle persone
giuridiche e delle imprese, l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, l'estinzione del
rapporto di impiego o di lavoro, la decadenza o la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori.
Per comprendere la ratio delle pene interdittive vigenti in Italia, comunque, occorre
prestare attenzione non tanto alle singole figure, quanto ai loro presupposti, in quanto
essi svelano il reale atteggiamento del legislatore su questi mezzi punitivi.
L'art. 20 svela il nesso di obbligatorietà e indefettibilità tra pene principali ed
accessorie e sembra escludere qualunque potere discrezionale del giudice circa l'an
dell'interdizione7. In realtà, un margine di elasticità sussiste – seppur eccezionalmente –
in certe disposizioni codicistiche, quando compare la formula “salvo che il giudice disponga
diversamente” (art. 32 co. 3, sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori).
La regola, comunque, è l'intervento ope legis delle pene accessorie, ex art. 20 c.p.8.
Di conseguenza, i presupposti delle pene interdittive guardano raramente alle
caratteristiche della fattispecie concreta, dando piuttosto rilevanza a indici normativi
astratti: alcune interdizioni (art. 29 c.p.), dipendono dalla durata della pena detentiva, in
quanto l'ammontare della condanna principale viene ritenuto di per sé sintomatico della
gravità del reato e della pericolosità del soggetto.
6 GUERRINI R., La responsabilità da reato degli enti. Sanzioni e loro natura, Milano, 2006, p. 54;
7 LARIZZA S., voce Pene accessorie, in Dig. disc. pen., Vol. IX, Torino, 2005, p. 421;
8 ROMANO M., Commentario Sistematico del Codice Penale, art. 20, Vol. I, Milano, 2004, p. 218;
7
Altre, invece, sembrano valorizzare particolari elementi modali della condotta, come
l'abuso dei poteri o la violazione dei doveri inerenti una pubblica funzione o una
professione.
Questa seconda categoria di requisiti, tuttavia, è solo in apparenza più elastica di
quella precedente: le modalità abusive sono sovente ritenute intrinseche al reato
commesso, o la violazione dei doveri vien fatta coincidere con l'illecito penale.
La struttura delle fattispecie previste nella parte generale del codice, insomma, è
caratterizzata da presupposti rigidi e dipendenti dalla condanna principale; in pratica,
l'accertamento circa l'applicabilità della pena accessoria riflette quanto già deciso per la
condanna principale, senza prendersi in considerazione le peculiari capacità di
neutralizzazione insite allo strumento interdittivo.
I frequenti automatismi applicativi fanno virare verso la retribuzione questo tipo di
sanzione, per diventare un suplus di pena al reo; viceversa, ne diminuisce la portata
specialpreventiva, poiché manca la verifica circa la concreta pericolosità del soggetto e,
pertanto, questa sarà difficilmente annullata dalla condanna.
Si pensi all'interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione, che, a
norma dell'art. 31 c.p., consegue obbligatoriamente da ogni condanna per delitti
commessi con l'abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti alla funzione.
In questa previsione la componente specialpreventiva si accompagna all'idea antica
dell'indegnità a ricoprire determinate cariche, per il legame tra reato e doveri
pubblicistici violati.
Nella dottrina vi è stato chi9 ha visto nella fattispecie un modello di pena
“contrappasso”, ovvero connotata dall'omogeneità di contenuto con l'illecito
commesso. Ancora più evidente lo stigma quando si consideri l'interdizione di durata
perpetua dai pubblici uffici, la quale è prevista dall'art. 29 c.p. a seguito di condanna
all'ergastolo, oppure alla reclusione non inferiore ai cinque anni10.
Siamo nell'altra categoria di presupposti, quelli relativi alla pena principale e non alle
modalità della condotta; lo scarto tra oggetto della sanzione e disvalore del reato può
risultare notevole, proprio perché l'entità della pena detentiva da sola non può indicare
la necessità di interdire il soggetto, né in termini preventivi né retributivi.
Viene il sospetto di trovarci di fronte a una forma “moderna” di ostracismo: lo
scopo prevalente della interdizione definitiva è la perdita di uno status giuridico, non
9 CORDERO F., Procedura penale, Milano, 2006, p. 513;
10 Il terzo caso è di reclusione non inferiore ai tre anni, congiunta a dichiarazione di abitualità,
professionalità o tendenza a delinquere.
8
tanto di arginare la pericolosità del reo; non si può nemmeno parlare di un qualche
“contrappasso” tra violazione e punizione, dato che il tipo di comportamento tenuto
non rileva ai fini dell'art. 29 c.p.
Le due tipologie di presupposti, comunque, cercano di contemperare le finalità di
neutralizzazione con quelle afflittive, ma si tratta di una difficile convivenza, resa ancora
più complicata dalla rigidità delle condizioni poste all'an e al quantum della pena
accessoria.
Ogni apprezzamento circa la durata della misura, difatti, è fortemente limitato dalla
stringente normativa codicistica: alcune pene interdittive sono sì comprese tra un
minimo e un massimo edittale (ad esempio, l'incapacità di contrattare con la Pubblica
Amministrazione sub art. 32 ter c.p.), ma altre sono fisse o perpetue11.
Quando la durata delle sanzioni interdittive temporanee non è espressamente
determinata, provvede la regola generale dettata dall'art. 37, secondo la quale “la pena
accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta.” In una situazione simile,
dunque, il potere discrezionale del giudice sul quantum della misura è ridotto quasi come
davanti a una pena incapacitante fissa per legge.
La Cassazione, peraltro, ha affermato12 che l'art. 37 c.p. entra in funzione non solo
quando il legislatore non dispone nulla sulla durata dell'interdizione, ma anche per
commisurare in concreto la pena interdittiva temporanea, quando viene compresa tra
un limite edittale minimo e massimo.
L'ammontare della sanzione interdittiva, di conseguenza, si appiattisce su quello
della condanna principale, escludendosi in tal modo l'adeguamento della misura
incapacitante alla fattispecie concreta. La regola residuale dettata dall'art. 37 c.p. risulta
emblematica della scarsa attenzione del legislatore codicistico nei confronti di questo
strumento punitivo, che vive “di riflesso” alla pena detentiva.
Secondo la traduzione normativa del c.p., le interdizioni sono pene accessorie sotto
tutti i punti di vista: non solo nei meccanismi applicativi, ma anche nei presupposti e
nelle funzioni esse appaiono come “ammennicoli” della condanna principale.
11 Si veda l'art. 29 c.p., ove, accanto alla misura perpetua, figura quella temporanea di cinque anni.
12 Cass. Pen., Sez. IV, 25 febbraio 1999, in Cass. pen., 2000, p. 1629; Cass. Pen., Sez. IV, 3 ottobre 2001,
in Guida dir., 2002, n. 6, p. 79;
9
b) estensione oggettiva e soggettiva delle interdizioni di parte generale
Se per presupposti e durata le pene interdittive sono di regola dipendenti ope legis
dalle sanzioni principali, viceversa nei contenuti presentano caratteristiche autonome e
particolari. Non potendo in tal sede descrivere una per una le singole tipologie di
interdizioni codicistiche, ne vedremo alcuni tratti distintivi.
La sanzione dalla sfera operativa più ampia e dagli effetti più gravosi è senza dubbio
l'interdizione dai pubblici uffici, prevista dagli artt. 28 e 29 c.p., come “pena interdittiva
per eccellenza”13.
A seguito di questa misura (di durata perpetua o temporanea da uno a cinque anni,
a seconda della gravità della pena detentiva riportata) il condannato decade da ogni
pubblico ufficio, nonché perde le corrispondenti qualità soggettive.
L'interdizione dai pubblici uffici agisce su tre aree oggettive: il diritto di elettorato
ed ogni altro diritto politico; i pubblici uffici e gli incarichi, non obbligatori, di pubblico
servizio; i titoli onorifici. Queste tre classi di situazioni giuridiche vengono
completamente cancellate in capo al reo: egli non potrà, per tutta la durata
dell'interdizione, né esercitare quelle ottenute, né acquistarne di nuove.
Severe sono anche le pene accessorie dell'interdizione da una professione (art. 30
c.p.) o dagli uffici direttivi delle imprese (art. 32 bis c.p., introdotto dalla l. 689/81);
mentre la prima fattispecie proibisce attività soggette ad autorizzazione amministrativa,
la seconda interviene in ambiti che non sono sottoposti a alcun provvedimento
concessorio14.
Le due interdizioni “professionali” sono accomunate dalla necessaria condotta
modale a monte: esse conseguono dall'abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri
inerenti all'ufficio e, parallelamente, proibiscono al condannato di compiere tutti gli atti
tipici della posizione di cui ha abusato.
Proprio a causa della stretta dipendenza tra oggetto dell'abuso e del successivo
divieto, si è discusso circa l'estensione soggettiva delle figure interdittive de quibus: a
parere di un orientamento, si tratta di pene proprie, comminate soltanto a chi è abilitato
alle mansioni indicate dalla norma15.
13 DE GREGORIO G., PADOVANI G., in PADOVANI T. (a cura di), Codice Penale Commentato, art. 28, Milano,
2007, p. 180;
14 VINCIGUERRA S., La riforma del sistema punitivo nella l. 24 novembre 1981, n. 689. infrazione amministrativa e
reato, Padova, 1983, p. 387;
15 LARIZZA S., Le pene accessorie, Padova, 1986, p. 421;
10
Secondo l'altra opinione, preferibile perché supera il dato formale dell'investitura,
basta che il condannato eserciti di fatto le attività corrispondenti, soprattutto per non
consentire l'elusione della pena interdittiva grazie alla mera rinuncia dell'autorizzazione
prima della condanna16.
Grazie alle pene accessorie di cui agli artt. 30 e 32 bis c.p., quindi, l'area soggettiva
delle interdizioni professionali si dilata, andando a ricomprendere sia i titolari formali
dell'incarico violato, sia gli amministratori “di fatto”, dotati di identici poteri sostanziali.
Al contrario, un'altra coppia di previsioni, l'art. 32 quater e l'art. 32 quinquies c.p. si
distingue per la ragione opposta: i due articoli restringono – invece di dilatare –
l'estensione oggettiva di due recenti pene accessorie, l'incapacità a contrattare con la
pubblica amministrazione (introdotta nell'art. 32 ter dalla l. 689/81 e poi oggetto di
ulteriori modifiche) e l'estinzione del rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni (inserita dalla l. 97/01).
La delimitazione compiuta è insolita per le pene accessorie di parte generale: si
collega l'applicabilità delle due sanzioni a reati specificamente elencati nel testo stesso.
La ragione di ciò è, per così dire, simmetrica alle altre previsioni codicistiche: in
questa sede si persegue una finalità spiccatamente specialpreventiva17, nel senso di
neutralizzare ed eliminare le condizioni che dettero origine a delitti contro la pubblica
amministrazione ovvero “in danno o in vantaggio di un'attività imprenditoriale o comunque in
relazione ad essa” (art. 32 quater c.p.).
L'ambito oggettivo di interesse di queste pene interdittive è precisato in due modi:
da un lato, compare un catalogo tassativo di reati-presupposto, dall'altro, l'entità minima
della condanna detentiva o è irrilevante (è il caso dell'incapacità contrattuale) o è
decisamente ridotta (tre anni per l'estinzione del rapporto d'impiego).
Conta più, perciò, il tipo di reato commesso, non il quantum di pena principale: la
pena sembra perdere parte della sua astrattezza, ma non è ancora richiesta una verifica
concreta circa la pericolosità del soggetto, poiché questa è “presunta” in forza del
particolare tipo di delitto, connesso pure con l'attività d'impresa.
In definitiva, anche le pene interdittive che sembrerebbero avere un contenuto
oggettivo e soggettivo specifico, o per lo meno attento alle caratteristiche essenziali del
fatto concreto, non riescono a svincolarsi realmente dalla rigida logica codicistica
dell'accessorietà ope legis.
16 ROMANO M., Commentario Sistematico del Codice Penale, art. 30, Vol. I, Milano, 2004, p. 240;
17 FONDAROLI D., La riforma dell'art. 32 ter e quater c.p. nella legislazione antimafia. Mafia e criminalità
organizzata, Torino, 1995, p. 347;
11
Non fa eccezione la più recente delle fattispecie di parte generale, quella inserita
con l'art. 32 quinquies c.p., vale a dire l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego in
amministrazioni o enti pubblici. Un'analoga figura di “destituzione di diritto” era stata
dichiarata incostituzionale18 nella precedente normativa del D.P.R. 3/1957, in quanto
l'automatismo sanzionatorio ivi contemplato, al di fuori di un procedimento disciplinare
da parte della P.A., violava l'art. 3 Cost.
La fattispecie è stata reintrodotta nel 2001 (l. n. 97), con una modifica nei
presupposti, adesso legati alla commissione di uno specifico tipo di reato,
tassativamente indicato nell'art. 32 quinquies c.p, e al superamento di una soglia minima
nella condanna (tre anni di reclusione).
La previsione di un limite minimo per la pena principale forse allontana il pericolo
di una seconda declaratoria di illegittimità per violazione dell'art. 3 Cost.; certamente,
non impedisce di osservare che l'art. 32 quinquies c.p., al di là della precise condizioni
applicative, non cambi nulla nel rigido meccanismo ope legis, oramai asse strutturale delle
pene accessorie del codice.
Il giudice, infatti, in presenza dei due requisiti nominali del tipo di reato e dell'entità
della reclusione inflitta, è obbligato a disporre automaticamente l'estinzione del
rapporto di lavoro, senza alcuna valutazione nel merito della destituzione del
dipendente pubblico19.
I fattori che incidono sull'applicazione di tutte le pene interdittive nel c.p. sono,
insomma, astratti e formali, come il nomen del reato commesso e il quantum di condanna
principale, oppure vaghi e indeterminati, come il concetto di “abuso dei poteri” e
“violazione dei doveri”; il risultato pratico è che anche i pochi elementi obiettivi, che
alla lettera dovrebbero essere accertati dal giudice, vengono ritenuti in re ipsa, una volta
dimostrato l'illecito20.
Se poi si aggiunge che la decisione circa l'an è priva di discrezionalità e in genere lo è
anche quella inerente la durata, si comprende bene quanto gli sforzi di modellare
l'estensione oggettiva e soggettiva delle pene accessorie interdittive siano fondamentali,
poiché costituiscono l'unico modo di arginarne le potenziali dilatazioni
giurisprudenziali21.
18 C. Cost. 11 febbraio 1971, n. 18, disponibile sul sito web http://www.cortecostituzionale.it
19 ROMANO M., Commentario Sistematico del Codice Penale, art. 32 quinquies, Vol. I, Milano, 2004, p. 279;
20 PALAZZO F., Le pene accessorie nella riforma della parte generale e della parte speciale del codice, in Studi in onore di
Giovanni Musotto, Vol. IV, Palermo, 1981, p. 32;
21 GUERRINI R., La responsabilità da reato degli enti. Sanzioni e loro natura, Milano, 2006, p. 55;
12
Questo compito arduo è svolto, più che dal legislatore, dalla Corte Costituzionale, la
quale ha in parte ridisegnato la disciplina codicistica sulle interdizioni, per adeguarla ai
principi punitivi della Carta Fondamentale, come vedremo nel prossimo paragrafo.
§ 3. I principali profili critici delle pene interdittive a carico delle persone fisiche.
L'opportunità di un radicale cambiamento
I profili critici delle pene accessorie interdittive sono numerosi, soprattutto per il
fatto che il dogma della “centralità della detenzione” ha mostrato decisi segni di
cedimento negli anni e, pertanto, le altre misure punitive non dovrebbero più ritenersi
meri “satelliti” di questa.
Per limitarci alle questioni principali, dobbiamo concentrarci sul tema della
compatibilità costituzionale della disciplina del 1930; sono stati necessari alcuni
interventi della Corte Costituzionale, affinché le interdizioni codicistiche perdessero
alcuni loro tratti eccessivamente stigmatizzanti.
In primo luogo, bisogna adeguare la disciplina delle interdizioni codicistiche al
finalismo rieducativo della pena, sancito dall'art. 27 terzo comma Cost.22; non si può
infatti ritenere, come sostenuto dalla dottrina più risalente23, che esso si riferisca alle
sole condanne principali e, per questa via, sottrarvi le fattispecie incapacitanti.
La Corte Costituzionale ha infatti affermato in maniera esplicita che “il principio di
cui all'art. 27, comma 3, permea la pena in tutto il suo sviluppo”24, con la conseguenza che
anche le pene interdittive, sebbene diverse dal tradizionale paradigma sanzionatorio
della detenzione, possono e devono svolgere un'opera di recupero e risocializzazione
del reo.
Le pene accessorie interdittive, dunque, dovrebbero puntare alla rieducazione lato
sensu del destinatario, nella direzione del suo recupero alla società, tramite l'assimilazione
di quei valori infranti con il reato; ciò implica, secondo la Corte Costituzionale, “oltre al
ridimensionamento delle concezioni assolute della pena (cioè retributive), la valorizzazione del soggetto,
del reo o condannato, in ogni momento della dinamica penal-sanzionatoria”25.
22 PISA P., Le pene accessorie. Problemi e prospettive, Milano, 1984, p. 17; DE FRANCESCO V., Le nuove pene
interdittive previste dalla legge 689/1981: una svolta nella lotta alla criminalità economica?, in Arch. pen., 1984, fasc.
3, p. 462;
23 NUVOLONE P., voce Pena (dir. pen.), in Enc. Dir., Vol. XXXII, Milano, 1982, p. 810;
24 C. Cost. 26 giugno – 3 luglio 1990, n. 313, in Foro It., 1990, p. 2385s;
25 C. Cost. 17-25 maggio 1989, n. 282, disponibile sul sito web http://www.cortecostituzionale.it
13
Queste due massime riassumono in termini generali un orientamento già affermato
nella giurisprudenza costituzionale precedente, che progressivamente ridusse i
pregiudizi economici (spesso irreversibili) derivanti dall'interdizione dai pubblici uffici26,
in contrasto con l'art. 3 Cost. per irragionevole disparità di trattamento.
Tuttavia, è da precisare che la giurisprudenza di legittimità ha tenuto un
atteggiamento estremamente cauto, quando è stata direttamente interrogata circa la
compatibilità dell'interdizione dai pubblici uffici sub art. 28 c.p. con il principio
rieducativo dell'art. 27 co. 3.
In tale occasione, fu rilevato il fatto che una pena accessoria così afflittiva, in
quanto comporta l'esclusione da tutti gli incarichi pubblici, “rappresenta in pratica
un'emarginazione dal corpo sociale e un forte ostacolo al reinserimento del condannato”27. La
Cassazione, però, dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale, non
incontrando, ovviamente, l'approvazione della dottrina28.
A prima vista è difficile immaginare come un'interdizione (che nei fatti si risolve in
un divieto o una restrizione giuridica più o meno ampi) sappia rispondere alle esigenze
rieducative della pena; il cuore della questione, perciò, non sta nei contenuti punitivi,
ma nel grado di automaticità nell'applicazione29.
L'unico modo è, in altre parole, rendere personalizzata la sanzione interdittiva, non
tanto nella scelta sull'an, che abbiamo visto essere obbligatoria, quanto nella fase
successiva, sfruttando l'estensione della sospensione condizionale anche alle pene
accessorie, introdotta dalla legge 7 febbraio 1990, n. 19.
Il legislatore, infatti, ha ascoltato le numerose critiche, provenienti sia dalla Corte
Costituzionale sia dalla dottrina30, sull'eccessiva rigidità delle pene interdittive, le quali,
nell'originario sistema codicistico, erano connotate dall'indefettibilità, tanto che esse
trovavano applicazione anche quando era sospesa la pena principale.
Per correggere la palese incoerenza di siffatte pene “fisse” con la funzione
rieducativa del trattamento sanzionatorio, è stato così modificato l'art. 166 co. 1 c.p. ed,
a quanto pare, eliminata al contempo la cd. “neutralità delle pene accessorie” rispetto
agli scopi di recupero individuale.
26 Si vedano in proposito, sulle declaratorie di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 28 c.p.: C. Cost.
3/66, in Giur. Cost., 1966, p. 45; C. Cost. 68/67, in Giur. Cost., 1967; C. Cost. 113/68, in Giur. Cost., 1968,
p. 1754; C. Cost. 97/88, in Giur. Cost., 1988, p. 4571;
27 Cass. Pen. 15 maggio 1979, in Rep. Pen., 1980, p. 886; conforme, Cass. Pen. 20 luglio 1979, in Rep.
Pen., 1980, p. 91;
28 PISA P., Le pene accessorie. Problemi e prospettive, Milano, 1984, p. 202;
29 PALAZZO F., Le pene accessorie nella riforma della parte generale e della parte speciale del codice, in Studi in onore di
Giovanni Musotto, Vol. IV, Palermo, 1981, p. 23;
30 ROMANO M., Commentario Sistematico del Codice Penale, art. 29, Vol. I, Milano, 2004, p. 234;
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Se da un lato ci sembra certamente da approvare il tentativo di mitigare le
interdizioni codicistiche, dall'altro la novella del 1990 sembra mescolare la disciplina
preesistente con altri istituti in modo alquanto superficiale. Invero, il testo modificato
dell'art. 166 c.p. stabilisce che “la sospensione condizionale si estende alle pene accessorie”, ossia
l'effetto sospensivo si riflette automaticamente su queste, senza alcun filtro giudiziale.
La riforma, quindi, amplia il raggio della sospensione, ma lo fa nuovamente in
modo rigido, speculare ai meccanismi per l'irrogazione delle interdizioni. Se la pena
principale è sospesa, allora ope legis saranno sospese anche le pene interdittive connesse.
Anche per il beneficio ex art. 166 c.p., insomma, pur dopo la riforma del 1990, non
si esce dalle vecchie logiche dell'accessorietà e dell'automaticità. Le pene incapacitanti
non sono più indefettibili, tuttavia continuano a fungere da “satelliti” della condanna
alla pena detentiva, sia nell'applicazione, sia nella sospensione condizionale.
Insomma, nonostante i vari caveat costituzionali e le riforme legislative, al momento
non è stato ancora superato il dato essenziale: le pene interdittive comminate alle
persone fisiche rimangono “corollari” della condanna principale, a portata
prevalentemente afflittiva31.
Le istanze rieducative sono più asserite che reali, se solo si pensa ai rigidi
meccanismi d'irrogazione e alla durata spesso fissa o perpetua della misura: il prototipo
arcaico dello stigma supplementare è insomma tuttora valido, dietro l'apparente
evoluzione del codice32. Senza un effettivo accertamento circa la pericolosità del reo e
dell'idoneità preventiva dell'interdizione, ci pare difficile riconoscere una capacità
rieducativa, ma anche di mera neutralizzazione, alle vigenti sanzioni penali
incapacitanti33.
Il massimo livello di concretezza si raggiunge mediante indici sintomatici
“presuntivi”, quali l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri inerenti alla carica; nei
restanti casi, l'interdizione è puramente afflittiva, in quanto accede sic et simpliciter alla
grave condanna principale alla pena detentiva.
I problemi riscontrati, comunque, non possono essere definitivamente risolti, se
non cambiando radicalmente il paradigma sanzionatorio: finché ci si muove nell'orbita
dell'accessorietà, i margini di un apprezzamento autonomo e discrezionale circa
l'applicabilità della pena sono ridotti e poco dilatabili.
31 STELLA F., Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 1998, p. 467;
32 PALIERO C. E., La sanzione amministrativa come moderno strumento di lotta alla criminalità economica, in Riv.
trim. dir. pen. econ., 1993, p. 1028;
33 ROMANO M., Commentario Sistematico del Codice Penale, art. 31, cit., p. 241;
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pena40, i quali, tra l'altro, nello schema di parte generale si connotano per la spiccata
propensione alla prevenzione speciale, “con particolare riferimento al reinserimento sociale del
condannato” (art. 35).
Il salto di qualità delle pene interdittive (tanto auspicato negli inattuati progetti di
riforma del c.p.) è finalmente avvenuto, ma in un ramo dell'ordinamento parallelo a
quello del diritto penale: la responsabilità cd. amministrativa degli enti collettivi in
dipendenza da reato, introdotta ad opera del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Le interdizioni ivi previste, infatti, segnano una vera e propria svolta rispetto al
precedente sistema codicistico; si superano le rigidità e le incoerenze causate dalla
qualifica di pena accessoria, per abbracciare l'altro modello normativo, quello che la
eleva a sanzione autonoma e principale.
Le pene accessorie interdittive, per ora, perseguono le due finalità di stigmatizzazione
e di neutralizzazione in modo rigidamente astratto, ossia impedendo al giudice ogni
valutazione discrezionale in ordine alla loro disapplicazione o quantificazione41.
Al contrario, l'altro modello normativo, dell'interdizione-sanzione principale nel
decreto, non segna solo un progresso simbolico, bensì pratico, in quanto può
finalmente realizzare gli scopi peculiari di questo strumento punitivo.
Vedremo anzi, nei prossimi capitoli, che le sanzioni interdittive del d.lgs. 231/2001
vanno al di là della logica tradizionale delle pene incapacitanti: oltre alle funzioni di
stigmatizzazione e di neutralizzazione, esse, per mezzo degli originali incentivi premiali,
tendono in via prioritaria alla rieducazione ed al recupero del soggetto condannato.
I principi dettati dall'art. 27 co. 3 Cost. e dalla giurisprudenza costituzionale hanno
perciò ricevuto attuazione nell'innovativa responsabilità da reato degli enti; non si vede
perché non dovrebbe accadere lo stesso alla disciplina penale degli individui.
Speriamo, allora, che le interdizioni nei confronti delle persone fisiche vengano
trasformate presto in pene principali, ripetendo l'esperimento positivo del cd.
“sottosistema sanzionatorio”42 per le persone giuridiche.
40 Artt. 35-36 Progetto Pisapia.
41 VENAFRO E., Funzione e disciplina delle sanzioni interdittive previste dal d.lgs. n. 231/2001, in AA.VV., Verso
una riforma del sistema sanzionatorio?, Atti del Convegno di Genova, 15 novembre 2006, a cura di PISA P.,
Torino, 2006, p. 51.
42 GARGANI A., La tendenza “eccentrica” della disciplina sanzionatoria di cui al d.lgs. n. 231/2001 tra “ibridazioni”
normative e nuovi “sotto-sistemi”, in AA.VV., Verso una riforma del sistema sanzionatorio?, Atti del Convegno di
Genova, 15 novembre 2006, a cura di PISA P., Torino, 2006, p. 79.
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