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in un’economia mista in crescita, la crescita dell’economia cinese
annuale è stata di più del 9% nell’ultimo decennio.
In questo quadro che mi permetto di definire dantesco, la Cina
farebbe una concorrenza legale ma asimmetrica grazie alla
sottovalutazione dello yuan e alle condizioni di lavoro a basso
costo, con scarse protezioni sociali e bassi standard ambientali.
Armonizzare questo processo è compito della WTO che prevede un
periodo di 12 anni durante il quale i membri del WTO possono, nel
corso del processo di liberalizzazione verso i prodotti cinesi,
adottare misure di salvaguardia transitorie per difendere specifici
settori dell'economia che possano entrare in grave crisi a seguito
dell'improvvisa apertura alla concorrenza cinese.
Il 28 gennaio 2003 il Consiglio della Ue ha approvato uno
strumento di salvaguardia verso la Cina, il cosiddetto Tpssm
(Transitional product-specific safeguard mechanism). Tale
strumento consente di difendere le imprese comunitarie attraverso
l'introduzione di dazi di salvaguardia e quote oppure attraverso altri
tipi di soluzioni negoziate con Pechino.
Queste misure dissimulate sotto forma di restrizioni volontarie
all’export di prodotti cinesi possono essere l’anticamera di veri e
propri conflitti commerciali, un prezzo troppo alto che
deliberatamente si intende pagare per proteggere industrie europee
ed americane che hanno anellato una lunga serie di pesanti sconfitte
e fallimenti.
Paradossalmente sono i consumatori europei e gli addetti nelle
fabbriche cinesi i soggetti che escono svantaggiati da questa partita.
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1. QUADRO GIURIDICO DI RIFERIMENTO.
1.1. LE CLAUSOLE DI SALVAGUARDIA ECONOMICA
Oggetto di questo studio sono le disposizioni convenzionali che
permettono ad una parte di un trattato in materia economica o
commerciale di non rispettare alcuni obblighi pattizi, nel caso si
verifichi una situazione di difficoltà di esecuzione.
Queste clausole non fanno riferimento a situazioni che siano
derivate dall’inadempimento di una diversa parte contraente, questo
ne determina la peculiarità rispetto ai cosiddetti strumenti di “difesa
commerciale” – fra cui le misure antidumping, le misure
compensative contro le importazioni oggetto di sovvenzioni e le
misure contro le pratiche commerciali illecite in generale –.
Le clausole di salvaguardia sono incentrate sulla situazione interna
del paese importatore più che sulla condotta dell’esportatore.
La possibilità di sospendere l’esecuzione di alcuni obblighi
convenzionali prevista in queste clausole è il frutto di un
bilanciamento fra l’esigenza di applicazione uniforme dell’accordo
e tutela degli interessi del singolo contraente. L’individuazione
delle cause scatenanti l’inadempimento non è fondamentale, è
altresì di centrale importanza il fatto di trovarsi in presenza di
circostanze nelle quali il rispetto degli obblighi pattizi
provocherebbero o aggraverebbero i problemi interni di uno Stato
contraente.
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Le clausole di salvaguardia mirano hanno come scopo quello di
evitare che uno Stato sia indotto a non tener fede agli obblighi
assunti, a tal fine offrono una disciplina convenzionale di situazioni
critiche suscettibile di verificarsi nel corso di esecuzione,
escludendo da una parte che il comportamento della parte in
difficoltà costituisca un illecito convenzionale, dall’altro
circondando tale comportamento con opportune garanzie
procedurali.
Nella categoria delle clausole di salvaguardia rientrano disposizioni
che hanno ad oggetto una notevole varietà di fattispecie, tutte legate
peraltro dal carattere di anormalità ed eccezionalità nelle
circostanze in cui sono destinate ad operare.
Le clausole di salvaguardia sono studiate in modo da poter operare
anche in situazioni non perfettamente individuabili al momento
della stipulazione e in settori che si scoprano bisognosi di misure di
protezione nel corso dell’esecuzione del trattato. Spesso
l’inserimento di clausole di salvaguardia in un testo convenzionale
non è effettuato con riferimento a un economia – nessuna
preferenza verso nessuno – o ad un specifico settore produttivo di
un determinato paese, bensì è fondato su motivi meramente
precauzionali.
Se si prendono come esempio i trattati di integrazione economica
più complessi, si può notare che essi pongono normalmente delle
rilevanti limitazioni ai poteri deliberativi degli Stati, proprio in
settori nei quali questi ultimi mostrano una scarsa propensione ad
accettare i vincoli. Il numero di materie disciplinate in tali
convenzioni e la portata degli impegni, sono tali da non consentire
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allo Stato che desideri prendere parte ad un accordo di prevedere
tutte le possibili implicazioni negative della futura esecuzione. Per
questo motivo, nella fase di stipulazione di trattati di questo genere,
gli Stati manifestano spesso il timore di non avere, nei momenti di
difficoltà, una sufficiente libertà di movimento per l’adozione dei
necessari provvedimenti di politica economica.
1.1.1. Gli strumenti protezionistici.
Le clausole di salvaguardia rappresentano per i contraenti la
garanzia che la partecipazione al trattato non preclude loro in via
definitiva la possibilità di adottare, in caso di bisogno, misure a
tutela di alcuni settori dell’economia nazionale. In particolare, nei
trattati commerciali, le clausole in esame consentono l’uso dei
tradizionali strumenti protezionistici – in primis dazi doganali e
restrizioni quantitative – sull’eliminazione dei quali si basa in
genere la liberalizzazione commerciale prevista dai trattati
medesimi.
La previsione nell’accordo di clausole di salvaguardia può quindi
rassicurare quindi gli Stati contraenti, in quanto esse consentono in
un ampia gamma di “situazioni critiche” il ritorno ad una situazione
precontrattuale.
Questa funzione delle disposizioni in esame si può facilmente
comprendere nei casi in cui venga considerato che la previsione di
meccanismi che permettono di restringere le importazioni
costituisce soprattutto una garanzia per i produttori nazionali. Infatti
proprio quest’ultima categoria di soggetti è quella che trae
principalmente vantaggio delle misure di protezione che le clausole
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di salvaguardia consentono, mentre non è certo che tali misure
abbiano effetti positivi per l’economia di un paese nel suo
complesso. Alla stessa maniera, per uno Stato che intenda
concludere un trattato in materia economica e commerciale può
essere indispensabile assicurarsi l’appoggio delle organizzazioni dei
produttori, che sono normalmente nella posizione di esercitare una
rilevante influenza sulle decisioni politiche nazionali.
Queste funzioni possono dunque svolgere una funzione di rilievo
già in fase anteriore all’applicazione del trattato che le contiene: la
presenza di clausole di salvaguardia può infatti favorire la
partecipazione al trattato stesso da parte di un maggior numero di
Stati. D’altro lato, proprio la previsione di fattispecie di esonero
provvisorio dagli obblighi convenzionali può incentivare i
partecipanti ai negoziati ad accettare ad assumere impegni più
gravosi di quelli cui acconsetirebbero in assenza di tali clausole.
Andando nello specifico, la presenza di clausole si salvaguardia può
indurre un paese industrializzato ad accettare di stipulare con Paesi
meno industrializzati accordi commerciali non basati sulla
reciprocità degli impegni. Un fenomeno di questo genere sembra
essersi verificato con riguardo alle relazioni convenzionali tra la UE
e i Paesi del cosiddetto gruppo ACP – Africa Caraibi Pacifico, paesi
ad altissimo tasso di indebitamento estero – che prevedono
condizioni preferenziali di accesso alle merci dei paesi ACP al
mercato comunitario. Nella fattispecie dell’accordo di “Lomè III”
intrapreso con tali Stati, in tale occasione la UE ha condizionato il
mantenimento delle condizioni preferenziali accordate ai paesi ACP
alla conservazione nella Convenzione di una clausola di
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salvaguardia ad esclusivo beneficio della stessa UE, che la
Commissione ha reputato necessaria per compensare la mancanza
di esatta reprocità negli obblighi corrispettivi.
1.1.2. Il principio dell’ “economic adjustment”.
Non è infrequente che la regolare esecuzione degli accordi che
prevedono forme di liberalizzazione commerciale comporti dei
costi rilevanti per dei settori produttivi meno competitivi.
L’adozione di misure provvisorie di protezione rappresenta dunque
uno strumento di difesa, nel breve periodo, dei livelli produttivi e
occupazionali, al fine di evitare che i prodotti nazionali vengano
sostituiti sul mercato locale da quelli importati. Questa esigenza di
tutela è chiaramente evidenziata nelle cosiddette escape clauses.
In tal modo, lo Stato che beneficia di misure di salvaguardia
dovrebbe riuscire a porre le imprese interessate nelle condizioni di
attuare le misure di ristrutturazione e adattamento, cd. Economic
Adjustment, necessarie ad affrontare la concorrenza internazionale
in condizione di parità con le imprese straniere. In ragione
all’obiettivo di economic adjustment a cui devono tendere, le
clausole di salvaguardia sono più affini agli strumenti di politica
industriale che ai classici provvedimenti di politica commerciale –
misure antidumping e compensative – .
L’esistenza di clausole di salvaguardia applicabili solo nel periodo
iniziale di esecuzione del trattato è espressione del bisogno,
avvertito dagli Stati, di strumenti che consentano ai settori meno
efficienti di adattarsi alla maggiore concorrenza internazionale che
l’integrazione comporta.
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Anche l’articolo 226 del Trattato Istitutivo CEE, ponendolo ad
esempio, consentiva agli Stati membri, nel corso di un periodo
transitorio predefinito, in caso di gravi difficoltà le misure
necessarie per “ristabilire la situazione e adattare il settore
interessato all’economia del mercato comune”. La possibilità di
intervenire con misure di protezione, nel quadro del trattato, era
dunque funzionale all’instaurazione delle condizioni economiche di
base necessarie al corretto funzionamento del mercato comune, in
quanto poteva concorre a ridurre gli eventuali squilibri successivi
alla scadenza del periodo transitorio e a limitare quindi il bisogno di
interventi futuri a sostegno dei settori produttivi nazionali meno
competitivi. La medesima ratio è alla base delle clausole di
salvaguardia generali con efficacia transitoria, analoghe per
funzione e formulazione all’art.226 che ho precedentemente citato,
contenuti negli Atti di adesione di nuovi Stati membri alla
Comunità.
Con riguardo a tutte le clausole di salvaguardia può del resto dirsi
che la temporanea sospensione dell’adempimento da esse prevista
tende a svolgere una funzione stabilizzatrice delle relazioni
convenzionali, in quanto mira a ridurre il rischio che una parte in
difficoltà sia indotta a violare il trattato o addirittura a recedere ad
esso. Esse infatti rappresentano uno strumento idoneo ad evitare che
l’adempimento degli obblighi convenzionali, in quanto mira a
ridurre il rischio che una parte in difficoltà sia indotta a violare il
trattato o addirittura a recedere ad esso. Rappresentano infatti uno
strumento idoneo ad evitare che l’adempimento degli obblighi
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convenzionali comporti in concreto un onere eccessivamente
gravoso per alcuni contraenti.
Va quindi ribadito che l’applicazione delle disposizioni in oggetto,
se dal punto di vista formale rappresenta rappresenta un’alterazione
temporanea del rapporto di corrispettività fra le prestazioni
convenute, dal punto di vista sostanziale può contribuire a
preservare l’equilibrio tra gli oneri che il trattato pone a carico delle
parti.
Contemporaneamente è chiaro che le misure di salvaguardia non
sono direttamente volte all’eliminazione delle cause delle difficoltà,
bensì a limitare provvisoriamente gli effetti negativi della
concorrenza esterna, in modo da consentire di migliorare
l’efficienza della produzione dei settori in crisi, o, nel caso che le
imprese in questione non presentino ragionevoli prospettive di
risanamento, di riconvertire la produzione o perlomeno trasferire la
forza lavoro e gli investimenti in un settore industriale nel quale vi
possa essere una più efficiente utilizzazione. In questo caso un
corretto uno delle misure di salvaguardia non si pone in
contraddizione con l’obiettivo di favorire un’allocazione ottimale
delle risorse, che rappresenta uno degli scopi principali cui tende in
genere la liberalizzazione del commercio internazionale, nè, d’altro
canto, con la finalità, normalmente presenti negli accordi di materia
economica, di consentire un incremento degli scambi commerciali
in condizioni di stabilità e di reciproco vantaggio per i partecipanti,
se non addirittura di portare ad uno “sviluppo armonioso ed
equilibrato delle attività economiche” degli Stati contraenti.
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Tuttavia, sebbene le misure di salvaguardia debbano tendere a
consentire ad imprese di per sè in buono stato di adattarsi alle
condizioni della concorrenza internazionale, non è trascurabile il
rischio di un ricorso abusivo ad esse. Tali misure sono infatti
idonee, per i loro intrinseci effetti protezionistici e
anticoncorrenziali, a limitare la spinta al miglioramento e
all’efficienza produttiva che deriva dalla concorrenza stessa.
Da qui si pone dunque il problema se si possa ritenere implicito in
ogni clausola di salvaguardia uno specifico obbligo giuridico di
utilizzare il periodo di deroga per procedere ai necessari interventi
di adattamento, pur in assenza nelle clausole stesse di disposizioni
espresse in tal senso, nonchè di sanzioni per le ipotesi di abuso. A
tal fine si può rivelare utile verificare se questo risultato possa
essere raggiunto il via interpretativa, richiamando le regole del
diritto internazionale generale che disciplinano la sospensione dei
trattati, in quanto lo Stato che adotta delle misure di salvaguardia
beneficia di una causa di sospensione di alcuni obblighi
convenzionali.
L’art.72 della Convenzione di Vienna riguardante il diritto dei
trattati non pone a carico della parte che si avvalga di una causa di
sospensione un obbligo positivo di attivarsi per ripristinare le
condizioni più adatte al funzionamento del trattato. Tale norme
prevede viceversa un mero dovere di astensione, che rappresenta
una specificazione del dovere di comportarsi secondo buona fede
nell’esecuzione. Ne discende la possibilità di ricostruire solo un
mero e generico obbligo di comportarsi secondo buona fede nel
periodo nel quale le misure di protezione sono in vigore.
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In assenza di una norma generale volta ad imporre alla parte che
adotti delle misure di salvaguardia l’obbligo di procedere a
interventi di economic adjustment, vi è il rischio che lo strumento in
esame venga applicato in modo non appropriato. Un pericolo di tal
genere appare peraltro notevolmente ridotto con riguardo agli
accordi nei quali risulta delegato agli organi di un’organizzazione
internazionale un vero e proprio potere di gestione e
amministrazione delle clausole di salvaguardia: questi organi hanno
infatti il potere di imporre la modifica o il ritiro di quelle misure che
non rispondano alle finalità proprie delle clausole stesse. Più
limitate possibilità di incidere sui comportamenti dei contraenti si
riscontrano, viceversa, nel quadro dei trattati nei quali il controllo
delle misure di salvaguardia è sostanzialmente riservato ai
medesimi contraenti, che lo esercitano prevalentemente attraverso
consultazioni.
All’apertura dell’ Uruguay Round, di cui parlerò diffusamente più
avanti, uno dei punti su cui avrebbe dovuto incidere la prevista
riforma delle regole relative alle misure di salvaguardia era proprio
la questione dello “structural adjustment”. Nell’accordo sulle
misure di salvaguardia, stipulato alla conclusione di tali negoziati,
viene espressamente stabilito che “a Member shall apply
safeguards measures only to the extent necessary to prevent or
remedy serious injury and to facilitate adjustment”.
Questo rappresenta un corollario del principio menzionato della
cosiddetta sunset clause contenuta nell’art. 7, che introduce un
termine massimo di quattro anni nel quale le misure di salvaguardia
possono restare in vigore: qualora uno Stato membro intenda
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prorogare l’applicazione di una misura oltre detto termine – per altri
quattro anni massimo – su di esso grava l’onere di fornire al
Comitato delle misure di salvaguardia le prove che “the industry is
adjusting”, in seguito ad una procedura interna di inchiesta.
Queste disposizioni, pur indicando le linee di comportamento che
devono ispirare l’azione degli Stati membri, non prevedono però
sanzioni per la mancata adozione dei previsti interventi di
adattamento. Tuttavia, si deve rilevare che il divieto di continuare
ad applicare delle misure di protezione che non siano state utilizzate
per porre rimedio alle situazioni di difficoltà, appare come uno dei
pochi meccanismi con finalità sanzionatoria che era possibile
predisporre in questo accordo: si è difatti avuto modo di sottolineare
come nel corso dell’Uruguay Round non vi fosse la volontà politica
di conferire agli organi della WTO significative competenze
deliberative, nè tantomeno incisivi poteri di indagine in merito alle
politiche economiche degli Stati membri. Solo in presenza di poteri
di questo genere sarebbe stato possibile, infatti, istituzionalizzare un
meccanismo di vigilanza idoneo a garantire l’effettiva conformità
delle misure di salvaguardia all’obiettivo dell’ economic
adjustment.
L’Accordo, pur non ponendo in essere le condizioni per un
controllo diretto da parte degli organi della WTO sulle forme di
adjustment attuate dagli Stati membri, facilità la possibilità di un
sindacato anche di carattere giurisdizionale sul punto, sia sul piano
interno che nei confronti della WTO: l’eventuale richiesta di
proroga dell’applicazione delle misure, infatti, è subordinata alla
pubblicazione dei risultati di un’apposita procedura d’inchiesta. Del
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resto, a carico dello Stato che adotta misure di salvaguardia di
durata superiore a tre anni è posto l’obbligo di effettuare un riesame
della situazione a metà del periodo di applicazione: in tal modo la
possibilità di controllo, che lo svolgimento di una inchiesta interna
consente, si può realizzare già in una fase anteriore alla scadenza
delle misure.
1.1.3. Protezione rispetto alle importazioni.
Un ruolo di primo piano fra questo genere di clausole spetta
sicuramente alle disposizioni che disciplinano ipotesi nelle quali un
settore produttivo nazionale di uno Stato contraente subisca un
grave pregiudizio, a causa delle rilevante incremento delle
importazioni provenienti dal territorio di una controparte. Il
verificarsi di questi fenomeni è in genere agevolato proprio dalla
riduzione degli ostacoli nazionali al commercio internazionale – cd.
Grado di apertura di una economia – prevista dai trattati volti a
stabilire forme di liberalizzazione degli scambi. In tale situazione le
clausole di salvaguardia possono consentire allo Stato in difficoltà
alcune barriere ai flussi commerciali, per limitare l’importazione
dei prodotti in questione. Queste specifiche disposizioni vengono
tradizionalmente indicate dalla maggioranza degli autori
anglosassoni come escape clauses, in quanto proprio loro
autorizzano la liberazione temporanea di un contraente da alcuni dei
vincoli convenzionali.
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L’espressione “escape clauses”, per la sua genericità, potrebbe
essere impiegata a tutte le clausole di salvaguardia, in quanto si
tratta di disposizioni che offrono ai contraenti delle vie di fuga
nell’applicazione dell’accordo che contiene. Tuttavia questa
espressione appare utilizzata nella dottrina statunitense con
specifico riferimento alle clausole ispirate al modello dell’articolo
del XIX GATT del 1947, che avevano come oggetto fattispecie di
Emergency Actions on Import of Particular Products.
Dal testo di tale articolo discendono direttamente accordi dalle
escape clauses presenti negli accordi commerciali americani come il
safeguard mechanism, l’Uruguay Round, meno restrittivo ma più
dettagliato rispetto all’articolo originario e numerosi accordi
commerciali conclusi dalla UE con paesi terzi.
Le disposizioni di questo tipo rappresentano indubbiamente le
clausole di salvaguardia più diffuse negli accordi volti a ridurre gli
ostacoli agli scambi internazionali, a causa del loro legame
funzionale con il principale oggetto degli accordi stessi. A tal
riguardo, già alla luce delle prime esperienze di liberalizzazione
commerciale, si giungeva ad affermare che some kind of escape
provisions is almost an inevitable feature of any durable
international agreement to reduce trade barriers.
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1.1.4. Protezione della bilancia dei pagamenti.
Differenti rispetto alla prima specie appena descritta sono le
esigenze all’origine delle clausole, peraltro molto comuni, che
autorizzano l’adozione di misure di salvaguardia per compensare
eventuali gravi disavanzi della bilancia dei pagamenti di uno stato
contraente. Tali misure non sono volte alla protezione di un settore
produttivo da un eccesso di importazioni, bensì la loro funzione è
quella di tutelare le riserve monetarie di una nazione.
L’aperture delle economie dei paesi contraenti, sancita dagli accordi
in materia economica, può infatti dare luogo a squilibri nelle
transazioni di una parte con le altre, sicchè la necessità di
compensare il saldo negativo della bilancia dei pagamenti può
richiedere un utilizzo eccessivo delle riserve nazionali.
Per porre rimedio a situazioni di difficoltà di questo genere può
dunque diventare necessaria l’adozione o di misure che colpiscano
direttamente gli scambi commerciali, limitando le importazioni e
quindi la corrispettiva fuoriuscita di valuta nazionale, o di
provvedimenti di altro genere, ad esempio aventi ad oggetto i
movimenti di capitale da e verso estero. Evidente è anche il fatto
che le clausole dettate per regolare le ipotesi qui in considerazione
non fanno riferimento alcuno a condotte illecite o scorrette delle
controparti.
In ambito comunitario, stante la maggiore ampiezza dei settori
economici disciplinati convenzionalmente, le misure di
salvaguardia consentite al fine di proteggere la bilancia dei
pagamenti di uno Stato membro possono anche assumere forme
diverse da provvedimenti relativi agli scambi commerciali.