INTRODUZIONE
Il tema della conciliazione lavoro famiglia è un tema attuale che riguarda molti aspetti
della vita quotidiana: le modalità organizzative e i tempi di lavoro, le responsabilità
delle donne e degli uomini nel lavoro per il mercato e nel lavoro di cura, i servizi per la
famiglia, l’organizzazione dei tempi e degli spazi delle città. E’ormai convinzione
ampiamente condivisa che conciliare i tempi della vita familiare e quelli dell'attività
lavorativa non è una questione che interessa unicamente le donne. Non è nemmeno una
questione privata tra lavoratore/trice e impresa, ma coinvolge la società nel suo
complesso, istituzioni incluse. Dunque quando si parla di conciliazione si fa riferimento
anche alle strategie attraverso le quali si tenta di raggiungere un equilibrio, di ridurre le
interferenze, in modo che i diversi tempi nel corso di vita personale e professionale di
uomini e donne possano coesistere senza produrre troppi stress o svantaggi, insomma
senza che essi schiaccino la persona, il suo equilibrio, il suo benessere. La conciliazione
dei tempi del lavoro con i tempi della famiglia è una tematica complessa che richiede
strategie di intervento in grado di incidere contemporaneamente e in modo
complementare su più fronti.
Il definirsi meglio delle politiche di conciliazione in Italia, all’alba del Terzo Millennio,
discende da una legislazione di parità e pari opportunità che negli anni Ottanta compare
e si sviluppa, in concomitanza agli altri paesi europei. Con le pari opportunità si
persegue un principio di eguaglianza liberale, secondo il quale bisognerebbe garantire
“pari chance di accesso e di fruizione” a soggetti che si trovino in una condizione
svantaggiata di partenza. L’obiettivo è quello di assicurare ai due sessi eguali
opportunità di accesso di fruizione e di partecipazione equilibrata alla vita economica,
sociale e politica, con l’eliminazione di quelle barriere che vi si frappongono.
Tuttavia, la legislazione paritaria nella nostra penisola si sviluppa con una cera distanza
rispetto alle principali rivendicazioni del femminista, incentrato anzitutto sulla richiesta
di consistenti misure sul lavoro di riproduzione. E’ mia intenzione partire da questo
delicato passaggio per arrivare all’introduzione e alla disamina degli attuali strumenti
3
conciliativi posti - in linea teorica - a sostegno delle famiglie italiane, dando uno
sguardo generale al modo in cui essi vengono praticati in Europa .
L’analisi si sviluppa in quattro capitoli. Nel primo capitolo accenno brevemente al
panorama del femminismo italiano degli anni Settanta, cercando di spiegare la
molteplicità di soggetti differenti che racchiudeva. Dopo aver individuato le due
principali correnti del neofemminismo, una di impostazione psicanalitica e una di
derivazione marxista, ho parlato di alcune lotte condotte dalle donne sul fronte del
lavoro di riproduzione e del loro riverberarsi anche sul piano del lavoro esterno. Delineo
quindi la risposta istituzionale data alle istanze femministe attraverso l’approdo in Italia
delle pari opportunità fino ai più recenti interventi in tema di conciliazione, varati dal
governo italiano.
Nel secondo capitolo vengono presi in esame i convegni mondiali delle Nazioni Unite
sulla condizione della donna, nati sull’onda del Movimento femminista ma sviluppatisi
poi adottando un approccio emancipazionista che si opponeva a quello di tipo
liberazionista. Cerco inoltre di mettere in evidenza come sin dall’avvio del Decennio
Internazionale per la donna 1976-1985, si sia pensato che con la diffusione del processo
di sviluppo, e integrando le donne in questo processo, si sarebbe prodotto per loro
maggior benessere e ricchezza. Ma anche qui vi è stata una forte critica da parte del
femminismo internazionale nei confronti di questo punto di vista.
Nel terzo capitolo passo ad analizzare gli strumenti della conciliazione, suddividendo
questi ultimi in strumenti che riducono o articolano diversamente il tempo di lavoro
(part-time, telelavoro, job-sharing, banca delle ore); strumenti rivolti al sostegno della
maternità/paternità (congedi parentali, servizi per l’infanzia, assistenza agli anziani);
strumenti che riorganizzano il tempo sociale (banche del tempo). Rivolgo soprattutto il
mio interesse al discorso sui servizi per la prima infanzia, terreno di impegno costante
da parte della Regione Veneto, specie da quando alla tradizionale offerta pubblica si è
affiancata l’offerta del privato sociale. Un’attenzione particolare viene rivolta agli asili
aziendali, dato l’alto numero di bambini esclusi dall’assegnazione dei pochissimi asili
nido comunali presenti, non solo nel Veneto, ma anche nel resto d‘Italia.
Nei confronti di questi servizi ho condotto un’estesa ricerca su campo con interviste in
4
profondità agli addetti a vari livelli e ai responsabili istituzionali. Ne è emerso il
panorama che ho tentato di tratteggiare nel modo più puntuale possibile, evidenziandone
pregi e difetti.
Nel quarto ed ultimo capitolo prendo in considerazione tre esempi di conciliazione
che si sono realizzati nella forma di servizi educativi rivolti ai bambini: il nido in
famiglia di Montagnana, l’asilo nido aziendale “Snoopy” della Provincia di Padova e il
Centro d’infanzia ZIP (Consorzio Zona Industriale di Padova) a servizio della zona
industriale.
Consapevole del largo utilizzo nel nostro paese, rispetto ad altri, di una rete informale di
aiuti per la cura dei figli (nonni) e della solidarietà intergenerazionale, ho voluto capire
come e quanto i nidi, insieme ad altre misure di conciliazione, siano effettivamente
d’aiuto alle donne. La domanda sottesa a tutta la mia tesi è infatti quanto, al di là di un
visibile moltiplicarsi di iniziative per la condizione femminile, le istituzioni hanno
realmente risposto ai problemi che il neofemminismo aveva sollevato e che continuano
tutt’ora a condizionare la vita delle donne.
5
CAPITOLO 1
DALLE ISTANZE DEL MOVIMENTO FEMMINISTA DEGLI ANNI ’70
AI PIU’ RECENTI INTERVENTI SULLA CONCILIAZIONE
1.1. Le due anime del Movimento femminista e centralità del lavoro di
riproduzione
Preliminarmente è opportuno chiarire il significato di tre termini che sovente saranno
utilizzati nel capitolo: femminismo, Movimento femminista, Movimento delle
1
donne.
Con la parola femminismo ci si riferisce a quel bagaglio teorico messo a punto dalle
donne prima negli Stati Uniti poi in Europa a partire dagli anni Settanta, che, incentrato
sui temi del separatismo, della critica al patriarcato e ai ruoli sessuali, diventò
patrimonio di quelle donne che, aggregandosi in piccoli gruppi e in collettivi, diedero
vita in quegli stessi anni al Movimento femminista.
Per Movimento delle donne indichiamo, invece, un più vasto movimento di opinione e
di intervento politico che, durante gli anni Settanta – sotto la spinta delle istanze radicali
del Movimento femminista – ha permeato tutta una serie di settori del sociale
(sindacato, partiti, mondo del lavoro), indicando nuovi obiettivi di mobilitazione,
esplicitando contraddizioni nella pratica politica, denunciando discriminazioni tra i
sessi.
E’ stato poi osservato come il Movimento femminista abbia affidato soprattutto al gesto
e alla parola il proprio senso e non si sia posto il problema della trasmissione né politica
2
né storica del suo patrimonio. Volantini e manifesti, spesso senza data né luogo né
firma, sono documenti normalmente prodotti negli anni ’70, fragili, effimeri, il cui
reperimento è dovuto alla passione documentaria tenace di alcune, o al caso: è fortuna
1
A. R. CALABRO’ e L. GRASSO (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso,
FrancoAngeli, Milano, p. 37, 38.
2
E. BAERI e A. BUTTAFUOCO, (a cura di), Riguardarsi. Manifesti del movimento politico delle donne
in Italia, Protagon Editori Toscani, Siena, 1997, introduzione. Si veda anche P. ZUMAGLINO (a cura
di), Femminismi a Torino, FrancoAngeli, Milano, 1996.
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rinvenirne copia, e ogni copia ha un valore inestimabile. Ma questo è vero solo in parte.
Nel tempo si sono andati costruendo alcuni archivi di materiali femministi, fonte
preziosa per ricostruire la storia e il tipo di militanza del movimento. E altrettanto alcuni
filoni di pensiero femminista hanno continuato un’elaborazione in modo sistematico.
Sarebbe bello mettere insieme un altro tipo di fonti iconografiche, le centinaia e
centinaia di cartelli e striscioni che coloravano e raccontavano le ragioni delle
manifestazioni di piazza, luogo privilegiato dell'autorappresentazione del corpo politico
delle donne in movimento in quegli anni: occorrerebbe ricercarle nelle cantine, nelle
soffitte o nei garages dove probabilmente si nascondono ancora insieme alla miriade di
ciclostilati (dolce strumento del tempo che fu, allora il computer non esisteva) e
opuscoli di poche pagine.
E’ soprattutto tra la fine del ’69 e il ’71 che si sussegue in diverse città la nascita di
gruppi e collettivi differentemente connotati, alcuni dei quali più vicini al movimento
studentesco. Il loro coordinamento avveniva mediante riunioni in sedi cittadine, come
ad esempio Piazza degli Eremitani a Padova, via Col di Lana a Milano e via del
Governo Vecchio a Roma mentre la pubblicazione e la divulgazione dei materiali sopra
citati (libricini, volantini, ecc.) erano sempre autofinanziate, cioè a spese delle militanti
Via via che il femminismo andava affermandosi, il numero dei gruppi e dei collettivi
cresceva sempre più, secondo alcuni addirittura migliaia, sparsi in tutta Italia: ma è
praticamente impossibile darne una mappa anche approssimativa, perché spesso
cambiavano nome, oppure si scindevano, oppure si unificavano tra loro. E anche questo
faceva parte di un processo di maturazione e di crescita.
Numerose pubblicazioni uscirono in quegli anni, sia pure in modo saltuario o in pochi
numeri, a causa delle fortissime difficoltà economiche. Tra le più note ricordiamo:
Differenze, Quotidiano donna, Rosa, Effe, Mezzo cielo, DWF. Furono inoltre aperte
librerie delle donne e fondate case editrici (ad esempio Edizioni delle donne a Roma)
con lo scopo di creare una rete di coordinamento tra i vari gruppi.
Premesso quanto sopra tenteremo ora di analizzare i principali aspetti che hanno
caratterizzato il Movimento femminista cercando di coglierne gli elementi di novità e
rottura rispetto ai discorsi precedenti sulla condizione della donna e sulle sue
8
prospettive di superamento o miglioramento. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio
degli anni Settanta nasce in Italia un nuovo soggetto politico, il soggetto femminile-
femminista che afferma il valore della differenza. I gruppi di donne nati tra gli anni ’60
e ’70 vogliono altro rispetto a quelli che erano stati gli obiettivi della rete di
organizzazioni femminili precedenti che avevano posto l’accento sulla necessità di
emancipazione, sull’apertura delle istituzioni al voto femminile, e creduto fermamente
nella democrazia parlamentare. Le femministe dei primi anni ’70 non sono interessate
al discorso della parità, intravvedendo in questo il pericolo dell’omologazione al
maschile e provano un profondo scetticismo nei confronti dello Stato. Dato che le
istituzioni parlamentari si erano rivelate incapaci di realizzare riforme reali, il cosiddetto
3
neo-femminismo si dimostra spesso diffidente nei riguardi delle leggi in generale.
All’idea di emancipazione, esso contrappone il progetto di liberazione dalla cultura
tradizionale che poneva le donne in una posizione subordinata rispetto all’uomo - sia
nell’ambito privato che in quello pubblico (con caratteristiche patriarcali e maschiliste) -
e liberazione dalla divisione sessuale dei ruoli attraverso cui questa si esprimeva ma,
soprattutto, il neofemminismo avanzava l’esigenza di una grande trasformazione
dell’assetto produttivo e sociale ponendo al centro il problema della riproduzione.
Il Movimento femminista che in questo decennio pare dilagare in maniera inarrestabile
nel nostro paese, chiedeva infatti interventi radicali e consistenti per organizzare
diversamente il mondo della riproduzione e della produzione. Nella sfera della
riproduzione, chiedeva una più consistente destinazione di risorse finanziarie e servizi in
modo tale che il carico familiare non gravasse così pesantemente sulle spalle delle
donne, per di più in modo gratuito; nella sfera della produzione invece, chiedeva un
drastico abbassamento dell’orario di lavoro per tutti affinché donne e uomini potessero
occuparsi maggiormente della riproduzione. Quest’ultima, di conseguenza, doveva
essere una responsabilità condivisa, non una responsabilità attribuita esclusivamente al
3
Pensiamo, ad esempio, che nel settembre 1979 venne depositata la proposta di legge di iniziativa
popolare sulla violenza sessuale e fisica contro la persona (e non più contro la morale). Le firme raccolte
e consegnate per quell’occasione al Parlamento furono ben 300.000, molte più delle 50.000 necessarie. In
Parlamento il dibattito durò vent’anni prima di arrivare ad una legge sulla violenza sessuale, la n. 66 del
1996 che almeno, parla di reato contro la persona e non contro la morale pubblica e il buon costume.
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genere femminile. In sintesi, gli elementi fondamentali delle rivendicazioni femministe
erano tempo, denaro e servizi. Un altro elemento di differenziazione rispetto a
precedenti percorsi femminili sta nella radicalità degli obiettivi perseguiti e nei metodi
di opposizione utilizzati:
- azioni espressive
- violazioni di regole
- lotte politiche
- pratica dell’autocoscienza
Come abbiamo appena detto, tra gli scopi principali del movimento femminista vi era
quello di superare il tradizionale argomento dell’emancipazione con quello più
innovativo della liberazione che concretamente verrà cercata attraverso due percorsi:
- Il primo, più di impostazione psicanalitica, sfocerà nella pratica
dell’autocoscienza, cioè di quella pratica che si potrebbe definire “presa di
coscienza” attraverso il racconto e la condivisione di esperienze e riflessioni
personali, una sorta di rivisitazione della vita quotidiana insieme ad altre
donne, considerata fondamentale per analizzare le dimensioni culturali e sociali
dell’oppressione della donna.
- Il secondo, più economicista e di derivazione marxista, viene portato avanti
da quei gruppi che chiedono un salario per il lavoro domestico e il diritto a
lavorare di meno. Qui l’attenzione viene focalizzata sullo sfruttamento
materiale, economico, delle donne in casa, che a loro dire, condizionava tutti
gli aspetti della condizione femminile.
Nel primo percorso, c’è l'autoriflessione sul proprio ruolo nella famiglia, nel lavoro, nella
maternità, si inizia a cambiare se stesse per ridefinire i ruoli sociali; nel secondo caso, per
questo tipo di militanza sociale, essenziale rimane il cambiamento negli ambiti socio-
economici. Quindi il movimento femminista va inteso, già al suo nascere, come un
movimento politico in un duplice senso. “Da una parte l’agire politico si è espresso nella
pratica dell’autoanalisi che, attraverso la presa di coscienza del “corpo” femminile
pubblico e privato, si vuol tradurre immediatamente in una “testimonianza” di vita diversa
10
ed insieme messa a punto di teoria e continua ridefinizione di strumenti analitici. Dall’altra
il Movimento femminista, o almeno parte di esso, si è mosso su un terreno più
tradizionalmente politico, in un’ottica di scontro sociale e di cambiamento dell’esistente,
definendo strategie di azione in relazione all’apparato istituzionale vigente ed al quadro
politico generale. Questi due aspetti del movimento si sono variamente congiunti e
disgiunti nella storia dei vari gruppi femministi, storia che diventa leggibile solo a
4
condizione di tenere presente tale dinamica”.
Nella ricostruzione cronologica dei più importanti gruppi e collettivi che segnarono questa
stagione, ricordiamo innanzitutto il Gruppo Demau di Milano (Demistificazione
dell’Autoritarismo Patriarcale), il primo a nascere in ordine di tempo nel 1965 per
5
discutere di problemi inerenti al ruolo sessuato femminile. E’ necessario ricordare che in
questi anni in Italia non si parla ancora di “femminismo”; infatti anche se non si può
definire il Demau un vero e proprio gruppo femminista, è la prima volta che nel nostro
paese un gruppo di donne acquista coscienza o comunque avverte la contraddizione del
proprio ruolo sessuato all’interno della società e della cultura, non ne accetta la logica e le
conseguenze e decide di lavorare per elaborare risposte collettive. Fino al 1970 il Gruppo
Demau rimase comunque un esempio isolato e numericamente esiguo di sforzo di analisi e
concettualizzazione femminista.
Nel 1968 da alcune donne fuoriuscite dai gruppi della Nuova Sinistra nasce il Cerchio
spezzato di Trento, un gruppo autogestito e impegnato nell’analisi marxista di tutti i
meccanismi e condizionamenti dell’economia capitalistica considerati responsabili
dell’oppressione femminile. Il suo celebre pamphlet “Non c’è rivoluzione senza
6
liberazione della donna” mette chiaramente in evidenza i caratteri della subordinazione
subita dalla donna all’interno della sinistra studentesca e di classe. L’analisi e la denuncia
contenuta nel documento si rivela fondamentale per un inizio di discussione interna ai
gruppi. Ad arricchire il vasto panorama femminista di fine decennio , contribuì
4
A. R. CALABRO’ e L. GRASSO (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso,
FrancoAngeli, Milano, 1983, p. 38, 39.
5
Si noti come ancora non si parli di “sessualità” ma di “ruolo sessuato”.
6
Vent’anni dopo, Autunno caldo 1969, Movimento femminista 1970/71.Ricostruzione del gruppo
“Cerchio spezzato“, Edizioni U.C.T., Trento, 1991, p. 31 e ss
11
sicuramente il Movimento di liberazione della donna (MLD) del 1969 - che nasce
federato al Partito Radicale, dal quale prende le distanze nel 1978 proprio per affermare la
propria autonomia politica - così chiamato per sottolineare che la portata del superamento
delle contraddizioni della donna nella società di allora non stava tanto nell’acquisire nuovi
7
diritti quanto nell’incidere a tutti i livelli, sociali, economici, psicologici o culturali.
Ma è nei primi anni Settanta che nascono le due grandi anime del femminismo
italiano:
- nel 1970 i primi gruppi di autocoscienza caratterizzati dal separatismo, dalla
pratica “del partire da sé” e dall’azzeramento della cultura patriarcale. Anabasi
e Rivolta Femminile sono i due gruppi antesignani rientranti in questa
categoria;
- nel 1971 il Movimento di lotta femminile poi convertitosi in Lotta Femminista,
trasformatasi poi nella rete dei Comitati e Gruppi per il Salario al Lavoro
Domestico presente a livello nazionale e internazionale.
Rivolta Femminile e Anabasi pongono al centro della loro attività un modo di far
politica tra donne basato sull’analisi del personale e della vita quotidiana, attraverso la
pratica dell’autocoscienza. Anabasi di Milano - nome evocativo del lungo
attraversamento che le donne dovevano compiere nelle lande della società patriarcale - a
seguito dell’incontro tra la sua fondatrice Serena Castaldi con il femminismo americano,
ne riprende un’ispirazione radicale: dalla pratica di piccolo gruppo di presa di coscienza
alle elaborazioni sul corpo e la sessualità femminile. Le donne dell’Anabasi curarono
nel 1972 Donna è bello (trasposizione esatta dello slogan del movimento negro-
americano Black is beautiful, che afferma l’orgoglio dell’esser neri), una guida al
processo di autocoscienza.
Rivolta femminile, sorto contemporaneamente a Roma e Milano, è dei due, il primo a
praticare l’autocoscienza e, fra i gruppi femministi, uno dei più separatisti al punto che
rifiutava qualsiasi rapporto con la stampa perché “gestita dagli uomini”. Da sempre le
donne hanno l’abitudine di trovarsi fra loro, per parlare delle loro cose al riparo
7
Collettivo romano, Relazione al I congresso nazionale del M.L.D, Roma, 27-28 febbraio 1971.
12
dell’orecchio maschile: l’autocoscienza si è inserita su questa pratica sociale, diffusa
quanto poco considerata e le ha dato dignità politica.
L’autocoscienza esprime il rifiuto della separazione tra pubblico e privato e promuove
l’esperienza femminile come leva per cambiare il mondo: il personale diventa il punto
di partenza per sovvertire dalla base la società, maschilista e patriarcale, attraverso il
”partire da sé”, pratica che ogni donna poteva autonomamente mettere in atto.
Lo strumento dell'autocoscienza, nel suo complesso, dà modo di "riconoscersi" l'una
con l'altra, permette di costruire relazioni di fiducia e solidarietà quando i modelli
femminili prevedono soltanto rivalità o assistenzialismo. Se gruppi come Rivolta
Femminile rifiutavano a priori il coinvolgimento maschile nei propri dibattiti, altri
invece lo ammettevano. Fra questi segnaliamo, oltre al già citato MLD, il FILF (Fronte
italiano di liberazione femminile) anch’esso nato nel 1970. Organizzato in una struttura
di tipo quasi autoritario, il FILF era diretto da un Comitato promotore, di cui facevano
parte anche degli uomini, e a cui si affiancavano i cosiddetti Nuclei spontanei. Tuttavia
il FILF ha ugualmente contribuito a elaborare e diffondere una tematica femminista,
soprattutto attraverso la rivista Quarto mondo, di cui sono usciti diversi numeri.
L’altra grande anima del femminismo italiano era costituita da Lotta Femminista
(L.F.), i cui primi nuclei sorgono a Padova e a Ferrara nel 1971. Successivamente L.F.
apre sedi a Venezia, Firenze, Milano, Gela, Bologna, Modena e Roma. Era uno dei
8
pochissimi gruppi caratterizzati dall’esistere in più città. Era presente a livello
nazionale ma aveva anche una grande rete internazionale particolarmente presente negli
Stati Uniti e in Canada oltre che in alcuni paesi europei, in particolare Gran Bretagna,
Germania e Svizzera, dopo la fondazione nel 1972, del Collettivo Internazionale
Femminista.
Lotta Femminista affrontava il tema del lavoro attraverso un’analisi marxiana e riteneva
centrale il nesso tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo, spiegando come il ruolo
della donna in casa, apparentemente improduttivo, fosse in realtà costruito dal capitale e
funzionale ad esso, che così si appropriava del lavoro della donna senza darle in cambio
8
A. R. CALABRO’ e L. GRASSO (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso,
FrancoAngeli, Milano, 1983, p. 281.
13
un salario. Nelle analisi di questo gruppo, sia per l’impostazione analitica che per il
linguaggio usati si può rintracciare il precedente impegno politico di numerose donne
che lo componevano. Molte di loro avevano già avuto esperienze, per esempio, nella
Nuova Sinistra ed erano state attive nelle lotte sociali, studentesche e di fabbrica.
1.2. La svolta del Movimento femminista: la grande rottura rispetto al discorso
emancipazionista. Lotta sul fronte del lavoro domestico ed extradomestico
Attraverso la lettura di scritti e documenti di donne del movimento femminista italiano
degli anni Settanta si evidenzia subito un’immagine della famiglia molto diversa da
quella che si può vedere oggi. Si trattava della famiglia nucleare moderna, ove vigeva
una rigida separazione dei ruoli. Alla donna spettava svolgere in modo gratuito il lavoro
domestico, all’uomo quello esterno alla casa e salariato. La donna di conseguenza era
non solo espropriata dal suo lavoro ma subordinata molto rigidamente all’uomo che
aveva la responsabilità e l’autorità del “bread winner”.
Il femminismo militante degli anni ’70 aveva rintracciato l’origine di questo modello
familiare nell’affermarsi del sistema capitalistico. Concluse che questa famiglia era
quella che il capitalismo aveva plasmato nel corso del tempo per organizzare al meglio
la forza lavoro. Infatti, nei primi tempi in cui si instaurò il sistema capitalistico
l’accumulazione di capitali si fondava maggiormente sul lavoro di donne e bambini.
Ovviamente se queste donne lavoravano in fabbrica per molte ore non potevano stare a
casa a fare i lavori domestici. Solo successivamente l’esigenza del capitale di disporre di
forza lavoro che procurasse sempre maggiore produttività, e l’esigenza della classe
operaia maschile di essere reintegrata al di là della mera riproduzione biologica,
portarono a una trasformazione della famiglia. Si accentuò la divisione tra i ruoli
sessuali e si ridefinirono i rapporti di dominio al suo interno: la donna diventava la
moglie-madre dedita alla produzione e riproduzione della forza lavoro senza un salario,
l’uomo diveniva il marito-padre addetto alla produzione di merci e colui che riceveva
un salario. Si compiva una netta divisione tra ciò che era privato e ciò che era pubblico,
la donna in casa addetta alle incombenze domestiche e l’uomo fuori alla produzione di
merci. La sussistenza economica dipendeva unicamente dal salario del marito-padre che
14
in questo modo controllava anche il lavoro della moglie-madre. Era questo tipo di
famiglia che le femministe degli anni ‘70 vedevano riconosciuta nella società come
l’unica possibile, ed era contro questa che si ribellavano. Volevano scardinare quel
modello che le racchiudeva in un ruolo di mogli-madri dedite al lavoro domestico e, nel
peggiore dei casi, ad un doppio lavoro: domestico ed extradomestico.
La grande svolta del Movimento femminista sta infatti nel porre, per la prima volta, il
problema della centralità del lavoro domestico e in ciò rappresenta una netta rottura
rispetto al precedente discorso emancipazionista. E’ vero che i diversi
raggruppamenti femministi vennero formandosi spesso autonomamente l’uno dall’altro,
9
ciascuno privilegiando uno degli aspetti della liberazione della donna. Ad esempio, il
Gruppo DEMAU privilegiava i temi del potere patriarcale all’interno della società e
della famiglia intesa come istituzione autoritaria sottolineando, nel contempo, il bisogno
di liberare la donna da norme che aveva profondamente interiorizzato; Rivolta
Femminile insisteva piuttosto sui temi più propri della differenza sessuale, sottolineando
come secoli di dominanza maschile avessero imposto alla donna modelli di
comportamento sessuale a lei estranei ed insieme, denunciava la parzialità dei valori
“generali” su cui era costruita la cultura dominante, condizionata dal potere maschile,
intravvedendo dietro ogni ideologia - anche il marxismo - la gerarchia dei sessi e la
cultura patriarcale. Ma nonostante il privilegiare alcuni temi particolari da parte di
ognuna di queste e di molte altre organizzazioni femministe, c’era fra loro un punto di
convergenza: tutte concordavano con il giudizio che l’origine dello sfruttamento e
dell’oppressione della donna fosse da ricercare nel lavoro di riproduzione, il lavoro
domestico gratuito in quanto ascritto alle donne nella divisione sessuale capitalistica del
lavoro. E, partendo da questo, inevitabilmente il movimento avvertì l’esigenza di una
più equa distribuzione del tempo quotidiano fra lavoro domestico, lavoro esterno e
10
“tempo per sé” e di conseguenza, una maggiore condivisione dei compiti di cura tra
uomo e donna. In quegli anni la comparsa massiccia degli elettrodomestici nella vita
9
Il sessantotto - La stagione dei movimenti (1960-1979). Redazione di “Materiali per una nuova sinistra”,
Edizioni Associate, Roma, 1988, p. 78.
10
Ibidem, p. 78
15
quotidiana contribuiva a ridurre il carico di lavoro domestico della donna, aiutandola in
alcuni compiti come lavare, cucinare, pulire. Tuttavia, nessuna macchina poteva
sostituire la donna nel lavoro di cura nei confronti dei vari membri della famiglia. C’era
scarsa considerazione del lavoro domestico in generale (e quindi anche del lavoro
relativo alla cura) da parte dei familiari perché visto come un lavoro che “non
produceva ricchezza”; perciò il movimento femminista cercò di rivalutarlo, arrivando
alla proposta di alcuni gruppi di chiedere allo stato un salario per chi lo svolgeva, e
quindi anzitutto le donne casalinghe ma senza escludere le lavoratrici esterne o gli
uomini che se ne fossero fatto carico. Chiaramente la messa a punto di questa misura
richiedeva un molto articolato dibattito.
Il libro che apre nella discussione femminista internazionale il discorso sulla famiglia
come luogo di produzione e riproduzione della forza lavoro, sulla donna come soggetto
del lavoro di riproduzione e sulla necessità di una retribuzione di tale lavoro, è Potere
11
femminile e sovversione sociale. La donna come casalinga viene definita operaia per il
capitale in quanto produttrice di forza lavoro, riproponendo con ciò una ridefinizione
del concetto stesso di classe operaia. A comporre la classe operaia sarebbero stati non
solo gli uomini nelle fabbriche ma anche le donne casalinghe dietro di loro. La casa e la
fabbrica venivano visti come due luoghi di produzione capitalistici di contro al discorso
che nella casa e nella famiglia aveva visto solo un luogo di consumo, contrapposto alla
fabbrica come unico luogo di produzione. L’elemento di rottura di questa analisi
femminista era proprio quello di individuare nella casa il luogo di lavoro e di
sfruttamento delle donne, che, però, a differenza degli operai, qui erano impiegate nella
riproduzione materiale e psicologica della forza lavoro senza ricevere un salario. Ciò
significava che queste donne (casalinghe e non) erano soggetti politici ed economici non
in quanto salariate, ma in quanto donne che lavoravano in casa. Erano cioè al pari degli
operai uomini, soggetti che partecipavano al processo produttivo capitalistico, fornendo
lavoro gratuito. Come gli operai, queste donne dal Movimento femminista erano
considerate lavoratrici, soggetti che potevano lottare e scioperare, e la cui azione
11
M. DALLA COSTA, Potere femminile e sovversione sociale, con Il posto della donna di S. JAMES,
Padova, 1972.
16
rivoluzionaria assumeva la forma del rifiuto delle mansioni domestiche e della gerarchia
familiare. Negli anni ’70 insomma, la parte del movimento femminista che chiedeva un
salario per il lavoro domestico e contro la divisione sessuale del lavoro, aveva colto la
centralità della lotta per il riconoscimento della produttività delle attività di cura che le
donne, non retribuite, svolgevano nelle famiglie. L’argomento del lavoro di
riproduzione divenne presto un argomento onnipresente nelle discussioni
femministe che si ricavava frequentemente dalle riflessioni e dai commenti dei
collettivi. In Italia poi la condizione era maggiormente aggravata dalla mancanza di
servizi sociali adeguati: l'assistenza ai vecchi, l'accudimento degli uomini, tutti i lavori
connessi all'allevamento, crescita e socializzazione dei figli, erano riservati in modo
scontato al genere femminile come se non avessero riguardato l'intera comunità.
Inoltre, il lavoro della donna all'esterno era sempre transitorio e in ogni caso si
sommava alle incombenze domestiche. La donna che lavorava fuori casa era l'ultima ad
essere assunta e la prima ad essere licenziata. La donna compiva tipi di lavoro che la
riproponevano all'esterno sempre come individuo di seconda classe. Quando il lavoro si
presentava redditizio e conferiva un certo prestigio politico e sociale, infallibilmente
veniva accaparrato dall'uomo, mentre la maggior parte dei lavori riservati all’altro sesso
erano i meno retribuiti, i meno qualificati e i meno gratificanti.
Il ruolo della donna però poteva dirsi ambiguo. Era sicuramente vittima del “sistema”
ma ne era al contempo anche complice perché - dipendendo dai guadagni del marito -
veniva spinta, per difendere la propria sicurezza economica e quella dei figli, a
incoraggiarne le ambizioni e a scoraggiarne i tentativi di ribellione. In un certo senso, la
donna si autodiscriminava cercando comunque di salvaguardare il lavoro di cura della
sua famiglia, magari trovandosi un lavoro extra domestico poco impegnativo.
Al riguardo va messo in evidenza che il dibattito femminile concentrato
prevalentemente sul lavoro domestico come abbiamo detto, ebbe delle
ripercussioni anche sullo stesso modo di vedere il lavoro esterno. Il movimento
femminista degli anni ‘70 infatti pose all’attenzione il lavoro domestico come lavoro
che di fatto condizionava per le donne le modalità e la possibilità di accesso al lavoro
fuori casa proprio per il carico di incombenze che rappresentava. Si cercava quindi di
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