ricognizione delle opzioni legislative circa i fini della repressione
penale e dell’evoluzione del concetto di pena.
Ritengo quindi necessario un percorso storico, breve per non
allontanarci dai nostri obiettivi, volto ad individuare le matrici
politiche-culturali del nostro diritto penale moderno.
La dottrina è unanime nel ritenere che, esse siano da collocare con la
nascita del pensiero illuministico, che ha elaborato un insieme di
principi fondamentali, non solo perché sono quelli che, ancora oggi,
caratterizzano in buona parte il nostro sistema penale, ma soprattutto
perché rappresentano una svolta storica rispetto a quella che, è la
situazione penalistica dell’ ancien Régime.
Fino alla metà del XVIII sec., il mondo dei delitti e delle pene esibisce
degli scenari confusi e oscuri sotto il triplice profilo della definizione
normativa dei reati, degli strumenti sanzionatori e della disciplina
processuale.
Sotto il primo aspetto, la situazione si presenta estremamente
pericolosa, visto che, all’incertezza della definizione normativa, si
accompagna il fatto che, la presenza di codici e di leggi passa in
secondo piano, in quanto la definizione delle pene è stabilita sulla base
2
di regole, riconosciute da un sistema sanzionatorio che, ha come fonti
primarie la consuetudine e la discrezionalità di chi giudica.
Ancora più grave è il quadro delle sanzioni punitive, in cui arbitrio e
crudeltà accompagnano la spettacolarità delle procedure di espiazione:
condanne a morte per squartamento, sale di tortura, amputazioni,
utilizzate con funzione prettamente deterrente
1
.
Infine il processo è retto da principi rigidamente inquisitori, come la
segretezza e l’assoluta preponderanza dell’organo di accusa.
Le premesse culturali del superamento di questo diritto penale caotico
ed irrazionale cominciano ad emergere già nell’ambito della
speculazione filosofico-giuridica che, matura a partire dal XVII sec.
Proprio col passaggio dal XVII al XVIII sec. si assiste alla nascita di
un diritto naturale profano, che ha come scopo quello di allontanarsi
da una visione della pena prettamente retribuzionistica e morale, in cui
“punitur quia peccatum est”.
Questa prospettiva di pensiero apre la strada ad un processo di
modernizzazione del diritto penale che, si matura nell’Illuminismo,
grazie al contributo di pensatori come Bentham, Montesquieu,
1
FOUCAULT,Sorvegliare e punire,trad. it. ,Torino,1976,5ss.
3
Feuerbach e l’italiano Cesare Beccaria. Proprio quest’ ultimo
sottolinea l’importanza di ancorare i delitti e le pene a leggi scritte e
certe:”le sole leggi possono decretare le pene sui delitti e questa
autorità non può risiedere che, presso il legislatore che rappresenta
tutta la società unita per un contratto sociale (…)
2
.
Viene così fuori in tutta la sua forza, uno dei principi più importanti
del diritto penale: il principio di legalità e si profila una concezione
di pena utilitaristica e razionale, lontana da ogni giudizio morale.
Queste idee hanno una risonanza mondiale ed un’enorme influenza,
basti pensare alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1789), il cui art
7 stabilisce: ”nessuno può essere accusato, né arrestato, né detenuto
che, nei casi determinati dalla legge e secondo le forme da essa
stabilite”.
Questa visione delle cose comincia però a subire i primi colpi sotto
l’autoritarismo imperiale napoleonico, basti pensare alla
reintroduzione della gogna, del marchio, dell’equiparazione del
trattamento penale del tentativo e della consumazione.
2
CESARE BECCARIA,Dei delitti e delle pene, a cura di G.Armani,Milano,1991,13ss.
4
Le reazioni anti-illuministiche si vanno ad accentuare man mano che,
ci inoltriamo nel XIX sec., segnando un ritorno alla concezione di
pena retribuzionistica, il cui più fervido sostenitore è sicuramente il
filosofo Immanuel Kant.
Egli sostiene, infatti, che il diritto penale è “il diritto che, il sovrano
ha verso chi, gli è soggetto, di infliggergli una pena, quando si sia
reso colpevole di un delitto” e la pena non deve perseguire nessuno
scopo “sia a profitto del criminale stesso, sia a profitto della società,
ma essa deve venirgli inflitta soltanto perché egli ha commesso un
crimine
3
”.
Nonostante questo passo indietro, rispetto al pensiero illuministico, si
affacciano, sempre più insistenti, ma solo a livello teorico, istanze
specialpreventive e correzionaliste, sotto la spinta di autori come Karl
Grolman e Karl Krause.
Questa situazione confusa della scienza penalistica di metà ‘800 trova
la sua espressione più compiuta nell’ opera di Francesco Carrara e
della cd. Scuola classica.
3
KANT,La metafisica dei costumi,trad.it. G.Vidari,Bari,1970,164 ss.
5
Carrara rielabora i principi razionalistici e giusnaturalistici di matrice
illuministica, basandosi però anche su fonti di stampo filosofico-
spiritualistico. L’autore sostiene che, la vera scienza del diritto penale
deve occuparsi di principi universali desumibili dalle verità di ragione
o dalla natura delle cose e, in questa prospettiva la pena deve avere il
solo scopo di ristabilire l’ordine turbato dal delitto, senza nessuna
pretesa di retribuzione morale.
Scrive in proposito: ”Il fine della pena non è quello né che la giustizia
sia fatta, né che l’offesa sia vendicata, né che sia risarcito il danno
patito, né che si atterriscono i cittadini, né che il delinquente espii il
suo reato, né che si ottenga la sua emenda(…).Il fine primario della
pena è il ristabilimento dell’ordine esterno della società
4
”.
Questa posizione di Carrara e della Scuola classica viene recuperata
anche nel codice Zanardelli, il primo codice penale unitario, entrato in
vigore nel gennaio del 1890.
Ma la vita della nostra scienza penalistica è destinata, per nostra
grande fortuna, a fermentare continuamente, infatti già verso la fine
del 1800 inizia una nuova reazione all’indirizzo classico, grazie alla
4
FRANCESCO CARRARA, Programma del corso di diritto criminale.Parte generale, Lucca,
1871, 614-615.
6
cd Scuola positiva, che oppone principi naturali, bio-psicologici e
sociali a quelli giusnaturalistici della Scuola classica.
Cesare Lombroso, massimo esponente della Scuola positiva, afferma
che, i tratti fisici dell’individuo sono gli indicatori di propensione alla
criminalità e, l’uomo che delinque è un soggetto socialmente
pericoloso, perché incline, per cause antropologiche o sociali, a
commettere azioni che, danneggiano la società.
In questo modo con l’introduzione del concetto di pericolosità si
sposta l’attenzione dal concetto di pena a quello di misure di
sicurezza, ponendo attenzione alla personalità del reo e, quindi ai
fondamenti sociali e politici del diritto penale.
Ma dovremo rinunciare ben presto a questa fondamentale integrazione
tra il diritto penale e le scienze sociali e, il manifesto più grande di
questa rinuncia è sicuramente il codice Rocco, in cui viene fuori tutta
la volontà di sterilizzare il diritto penale da ogni forma di analisi
sociale ed antropologica e, di soffocarlo in un’elaborazione tecnico-
giuridica.
Inoltre il codice Rocco, pur costituendo un compromesso tra le varie
correnti scientifiche e culturali dell’epoca, si caratterizza per
7
un’impronta autoritaria e repressiva, riflesso inevitabile dell’ideologia
fascista , in cui nasce.
Tali caratteristiche traspaiono soprattutto nella parte speciale, ove
comportamenti lesivi di interessi di marcato rilievo politico-
statalistico sono sanzionati con pene elevate, inoltre c’è un ritorno al
concetto di pena intesa come retribuzione e, anche lì dove si fanno
avanti elementi di prevenzione speciale, come gli istituti della
sospensione condizionale della pena (art 163 e ss. c.p.) e del perdono
giudiziale per i minori (art 169 c.p.), sono concessioni limitate e
schiacciate dalle istanze di prevenzione generale.
Ma una situazione del genere non può durare a lungo, “perché il
diritto penale non nasce e si sviluppa in uno spazio tecnico isolato,
esso nasce, al contrario, proprio da esigenze di politica criminale, che
non possono non avere un ruolo centrale nella costruzione del sistema
e della interpretazione delle norme, senza i rischi dell’incompletezza e
dell’inefficienza
5
”.
Una svolta fondamentale avviene con l’entrata in vigore della nostra
Costituzione che, già dai primi articoli introduce un diritto penale
5
SERGIO MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore, 21-22
8
sociale, infatti l’art 13 Cost sancisce il carattere inviolabile della
libertà personale, se non nei casi tassativamente previsti dalla legge,
provando, ancora una volta che, l’uso della coercizione penale va
limitato in rapporto a questi soli casi, che lasciano apparire inevitabile
il costo di una restrizione della libertà come effetto dell’imposizione
della sanzione.
Ma non basta, la pena sacrifica, oltre al bene della libertà personale,
altri valori costituzionali primari come la <dignità sociale> , quindi
incide anche sui valori protetti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Già da questi primi articoli viene fuori un principio fondamentale del
diritto penale: la sussidiarietà.
Si parla di carattere sussidiario del diritto penale
6
per esprimere l’idea
di un diritto da utilizzare come extrema ratio: il ricorso alla pena
statuale è giustificato quando non esistono altri strumenti di tutela di
natura civile, amministrativa ecc. e quando è conforme allo scopo,
cioè idoneo a perseguire l’obiettivo prefisso.Per questo è necessario
che, il legislatore si avvalga il più possibile del contributo conoscitivo
fornito dal sapere socio-criminologico.
6
GUNTHER, Die Genese eines Straftatbestandes, in Juristische Schulung, 1978, 1
ss.;MARINUCCI , Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, 463 ss.
9
Il criterio della sussidiarietà può essere concepito in due accezioni
diverse
7
che, rispettivamente, ne circoscrivono od estendono la
portata.
Secondo una concezione ristretta, il ricorso al diritto penale è
ingiustificato quando ci sono altri strumenti parimenti efficaci, per cui
il legislatore deve optare per quelli che, limitano la compressione dei
diritti del singolo (jure est civiliter utendum).
Secondo una concezione più estesa, invece lo strumento penale deve
essere utilizzato anche quando esistono altri strumenti, ma esso sia più
utile ai fini di una più forte riprovazione del comportamento
criminoso.
Sicuramente in una visione moderna e laica del diritto penale non
possiamo accettare una concezione così estesa della sussidiarietà,
altrimenti si finirebbe per ricadere in un diritto morale, in cui la pena
persegue solo scopi generalpreventivi.
A tale principio ne possiamo aggiungere un altro e, cioè il criterio
della meritevolezza della pena, tale principio esprime l’idea che, la
sanzione penale deve essere applicata non in presenza di qualsivoglia
7
FIANDACA, MUSCO, Diritto penale.Parte generale, 2001, p.29
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attacco ad un bene degno di tutela, bensì nei soli casi in cui,
l’aggressione raggiunga dei livelli di gravità particolarmente alti.
La tutela che, viene così posta in essere del diritto penale deve, poi,
avere un carattere necessariamente frammentario, che può essere
considerato operante su tre livelli.
Prima di tutto, quando il diritto penale tutela determinate sfere di
interessi, non le tutela da qualsivoglia forma di aggressione,
proveniente da terzi, ma da specifiche forme di aggressioni, ad es.,
nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, il legislatore non reprime
penalmente le semplici violazioni contrattuali, ma reagisce solo contro
determinate forme di aggressione, considerate più gravi, come ad es.
l’approfittamento dello stato di bisogno nell’usura o l’induzione in
errore nella truffa ecc.
In secondo luogo, la sfera di ciò che rileva penalmente è molto più
limitata rispetto alla sfera di ciò che è qualificato <antigiuridico> alla
stregua dell’intero ordinamento: ciò che è illecito nel diritto civile può
essere irrilevante nel diritto penale.
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