INTRODUZIONE
L’analisi si basa sullo studio della narrativa di Salman Rushdie,
scrittore anglo-indiano, nato a Bombay il 19 giugno 1947, trasferitosi
dapprima in Pakistan, poi in Inghilterra. Nel 1989 in seguito alla
pubblicazione di The Satanic Verses, considerato un insulto alla
religione islamica, viene emessa la sentenza di morte, la fatwa. Inizia
l’odissea di Rushdie fuggitivo, costretto a vivere da clandestino per le
strade di Londra, dove sperimenta la difficile realtà dei conflitti tra Est
e Ovest e la consapevolezza di trovarsi in bilico tra due mondi come
un funambolo con la paura di dover precipitare da un momento
all’altro; da un anno vive a New York.
La vita dell’autore riaffiora a piccoli bocconi nei romanzi e non
fa che amplificare e specificare la sua capacità di esprimere i conflitti
più profondi della società e del mondo post-coloniale. Una società che
la ragione dovrebbe indurre a favorire le commistioni tra culture,
religioni, tradizioni, e che la cieca fede nella disuguaglianza spinge
verso la continua separazione di storie e identità.
Le contraddizioni nella narrativa assumono forme magiche attraverso
il simbolismo e la metafora. Quest’ultima, grazie alla sua struttura
dualistica di mettere in relazione elementi diversi con caratteristiche
molto importanti per uno e poco comuni per l’altro, si adatta bene
all’espressione della dicotomia dei temi rushdiani, morte/ rinascita,
bene/ male, metamorfosi/stasi, Est/ Ovest, sradicamento/ ritorno alle
origini, permettendo all’opera di vivere di vita propria, per sempre. La
ricerca della perfezione verrà nella reiterazione dei gesti iniziatici, i
particolari verranno resi sublimi con la ripetizione rituale della
formula, quando non si avrà più bisogno di consultazioni.
Il reperimento delle metafore legate al cibo nei romanzi
rushdiani si basa sull’analisi dei nove testi narrativi. Di ogni romanzo
si è studiata la quantità, presenza/ assenza o frequenza e la qualità
della metafora ossia il significato e l’efficacia. Dal confronto e dalla
comparazione delle classificazioni metaforiche dei testi scaturiscono
dei raggruppamenti tematici delle metafore, i quali rappresentano i
titoli dei quattro capitoli. L’excursus parte e ha come punto di
riferimento Midnight’s Children, capolavoro della letteratura anglo-
indiana, vincitore del “Booker Prize”, il libro-festa in cui la metafora
del cibo è il motivo portante, per giungere agli altri romanzi, mentre il
magma del fluido vitale della materia narrativa si contorce e si
metamorfizza, esalando sospiri inebrianti e spiritati.
Il cibo con le sue sfumature e variazioni di significato diventa un
mezzo efficace e diretto di comunicazione di pensieri, emozioni e
sensazioni, invitando il lettore a non essere troppo goloso e a gustare a
piccole dosi, altrimenti alcuni sapori prevarranno altri e sembrerà di
aver sbagliato tutto.
CAPITOLO PRIMO
MEMORIA E PRESERVAZIONE
1. 1 “PICKLES” IN MIDNIGHT’S CHILDREN
I testi in cui compare una relazione tra la memoria e il cibo sono
Midnight’s Children, The Moor’s Last Sigh e The Satanic Verses. In
Shame, il cibo è in rapporto con il tempo e la storia.
Nel primo romanzo, il legame assume significati e sfumature
diverse: dalla salvezza del narratore, all’unione presente-passato, alla
perdita-acquisto di qualcosa, dando origine a una “extended
metaphor”, metafora estesa e concatenata.
Rushdie stesso mette in evidenza sin dalle prime pagine il
legame tra la preservazione della memoria e la preservazione del cibo:
Saleem, il narratore, è un cuoco straordinario. “ You are amazed; but
then I am not, you see, one of your 200-rupees-a month cookery
johnnies, but my own master, working beneath the saffron and green
winking of my personal neon goddess. And my chutneys and
kasaundies are, after all, connected to my nocturnal scribblings – by
day amongst the pickle-vats, by night within these sheets, I spend my
time at the great work of preserving. Memory, as well as fruit, is being
saved from the corruption of the clock.” ( p. 38)
I pickles, confetture di frutta e verdura con spezie e sottaceti sono un
misto di ingredienti diversi mescolati insieme, esalanti vari odori. Essi
vengono invasettati, conservati e preservati nel tempo. In quest’ultima
parola, il prefisso latino prae- indica azioni eseguite prima di un dato
termine; servare invece ha il significato di difendere e quindi salvare,
mantenere le cose dall’ azione di agenti esterni. E’ proprio questo il
“ground”cioè il denominatore comune tra il “tenor”, il cibo, l’oggetto
in questione e il “vehicle”, la memoria, ciò a cui l’oggetto è
paragonato e che diventa parola chiave del libro come Rushdie scrive
in Imaginary Homeland: “what I was actually doing was a novel of
memory and about memory.” (p. 10 ) .
In questo romanzo si narra l’epopea dell’India dall’inizio di
questo secolo fino alla metà degli anni Settanta, all’Emergenza di
Indira Gandhi, attraverso l’occhio del personaggio Saleem Sinai, uno
dei mille e uno bambini nati nella mezzanotte del 15 agosto 1947,
giorno dell’indipendenza dell’India dal governo britannico. Egli ha
una visione particolare del mondo, caratterizzata da un forte
egocentrismo; essendo nato lo stesso giorno dell’indipendenza, si
ritiene in qualche modo “ammanettato alla storia”; ritiene, cioè, che la
storia dell’India accada a causa sua, instaurando così un rapporto di
causa-effetto tra la sua storia personale, le sue esperienze e la storia
ufficiale dell’India che si confondono per tutto il romanzo, “I…had
become embroiled in Fate.” (p. 9). Inverso è invece il rapporto tra il
protagonista e la storia in Shame in cui è quest’ultima a prevalere sulle
vicende personali di Omar, l’antieroe.
Salvare il proprio passato vuol dire anche salvare l’India: i pickles, per
estensione, l’India, la grande fabbrica dove i Sinai ci lavorano da
generazioni. L’azione del tempo è catastrofica e si procede quindi alla
chutnificazione della storia. Saleem ha trentun anni e parla come se
fosse un vecchio in punto di morte, il suo corpo si sta coprendo di
crepe ed è impotente; di conseguenza è l’India dilaniata dal massacro
di Amritsar del 1915, in preda al decadimento e alla distruzione.
Un giorno una gang antimusulmana, i Ravana, distrugge la fabbrica di
pickles di Aadam Sinai, nell’episodio del primo libro intitolato Many-
headed monsters. E’ questo il tentativo di annientamento della
memoria storica: la lotta contro gli agenti esterni è molto dura,
qualcosa è andata perduta, ma qualcos’altra si acquista. Saladin perde
le proprie sembianze acquistando un’altra identità: “to be reborn, first
you have to die.” ( The Satanic Verses, p. 6).
Quando Rushdie si accinge a scrivere Midnight’s Children, il suo
obiettivo è quello di ricostruire un passato pieno di luci, di colori e
non monocromatico come quello di una vecchia foto. Perseguitato da
un forte senso di perdita e di vuoto, è alla ricerca proustiana del
passato perduto, di quelle gioie e dolori più grandi che vissuti in quel
momento sembrano indimenticabili, si dileguano sin da quando la
causa che li aveva provocati sparisce; sono le intermittenze del cuore
a far ritrovare loro la verità di emozioni di un tempo.
Il passato può diventare presente, può essere richiamato alla mente
solo grazie ai processi sinestetici, di associazioni analogiche tra
sensazioni diverse come gli odori, la vista, l’udito, di cui si avvale
anche la metafora. La sinestesia, figura retorica, come l’archeologo
che porta alla luce reperti e frammenti logorati nel tempo, riesce a far
affiorare alla mente soltanto ricordi, pezzi di passato: essa non è in
grado di consegnare in modo preciso e intatto le cose perse.
Verso la fine di Midnight’s Children, il Pakistan attacca l’India
per il territorio conteso del Kashmire. La famiglia del protagonista si
è da poco trasferita in Pakistan, ma durante un bombardamento viene
disintegrata: muoiono la nonna Nazeem, la zia Pia, la zia Emerald.
Saleem, invece, riesce a salvarsi, ma perde la memoria, si risveglia in
un ospedale militare e si arruola nell’esercito; sei anni dopo, quando
scoppia la guerra in Bangladesh, si offre come guida grazie al
prodigioso fiuto del suo naso.
Memoria vuol dire anche distorsione, creazione e invenzione.
“Sometimes, in the pickles’ version of history, Saleem appears to have
known too little; at other times too much... I should revise” (p. 460).
E’ la storia dell’India, circa settant’anni dall’inizio del secolo alla fine
dell’Emergenza di Indira Gandhi, dal massacro di Amritsar del 1915
al giorno dell’Indipendenza considerato come l’azzeramento del
tempo, presente e passato si uniscono come le lancette dell’orologio
che segnano la mezzanotte in segno di benvenuto alla nascita di
Saleem-Rushdie, autore-narratore. Egli racconta la sua India, solo una
versione delle centinaia di migliaia delle possibili versioni, dei
pickles, dei sapori misti. Saleem infatti commette degli errori dovuti
alla memoria imperfetta: è la memoria immaginativa di personaggi,
eventi e circostanze intercalate da anacronismi come la data errata
delle elezioni in Kerala del ’57 o quella dell’assassinio di Gandhi del
’48 persino la fatidica data dell’Indipendenza indiana. Padma infatti
dice: “Everybody forgets some small things, all the time! But if small
things go, will large things be close behind?” Da qui nasce la speranza
e l’intento di preservare e conoscere le grandi cose, proteggerle dal
tempo distruttore e divoratore del passato. Presso i greci il dio Crono,
temendo che i figli lo privassero del potere li divorava appena nati,
finché Zeus, il sesto figlio, riuscì a sfuggire con l’inganno e lo
costrinse a rigettare i cinque figli ingoiati.
Memoria vuol dire anche riappropriazione del passato. Legato a
questo tema è il motivo della sputacchiera. All’inizio del capitolo
intitolato Hit-the-Spittoon, Rushdie sottolinea la relazione tra la
memoria e lo sputo: “(We are a nation of forgetters.)... It is important
for me to remain calm. I chew betel-nut and expectorate it in the
direction of a cheap brassy bowl, playing the ancient game of hit-the-
spittoon: Nadir Khan’s game, which he learned from the old men in
Agra.” (p. 37). I depositari della memoria comune e della verità sono
il gruppo di vecchi masticatori di noci di betel; le loro storie sono
incluse nel gioco “hit-the-spittoon”, che Nadir Khan ha imparato dai
saggi di Agra, in cui, piazzata a distanza la sputacchiera, cercano di
fare centro con la traiettoria dello sputo.
L’atto di masticare, che Saleem apprende, ha effetto benefico: si
concentra in modo da poter memorizzare con cura la storia e quindi
rimasticare il passato. L’avidità di ricordare è data sia dal gioco stesso,
in quanto bisogna riprovare quando non si fa centro e sia dalle
proprietà eupeptiche delle noci di betel che determinano un aumento
dell’appetito e di conseguenza il forte desiderio di conoscere la storia.
Il succo dello sputo porta con sé il passato dei vecchi che fanno a gara
per strada, mentre un comando militare è nelle vicinanze: è come se
avessero diretto nella ciotola tutta la loro conoscenza e il male del
ricordo, “A dark red fluid with clots in it like blood congeals like a red
hand in the dust of the street and points accusingly at the retreating
power of the Raj.” (p. 44). Il tono diventa all’improvviso serio,
l’immagine schizza in tante gocce come quelle del succo cremisi delle
noci, il colore di un passato sanguinoso e del quale si prova vergogna.
La sputacchiera, dunque, rappresenta per Saleem il legame con la
realtà, un modo per salvarsi la pelle, quando la strega Parvati lo
smaterializza “What I held on to in that ghostly time-and-space: a
silver spittoon…which glittered even in that nameless dark, I
survived.” (p. 381-2); è un punto di ritorno, triviale ma affascinante, al
mondo che cerca di divorarlo, soffocandolo con la varietà delle voci.
Infine, la perdita della sputacchiera d’argento, ingoiata dai bulldozer,
alla fine del romanzo, segna la fine del fragile legame con il passato e
la realtà, contribuendo alla distruzione totale di Saleem e dell’umanità:
“I lost something else that day, besides my freedom: bulldozers
swallowed a silver spittoon. Deprived of the last object connecting me
to my more tangible, historically verifiable past.” (p. 432).
Presente e passato sono congiunti nel tempo ciclico degli intensi
odori dei pickles della storia. Alla fine del romanzo, dopo la lunga
epopea e le varie peripezie, Saleem si mette in marcia con il figlioletto
verso la fabbrica di un cibo delizioso che gli ricorda la sua infanzia;
dopo un lungo viaggio a Nord, scopre che la padrona della fabbrica è
Mary Pereira, la sua balia. E’ tornato alle origini, ma precocemente
invecchiato; incontra Padma, una delle operaie, e qui il racconto-
Odissea si salda con il presente. “To pickle is to give immortality,
after all: fish vegetables, fruit hang embalmed in spice-and-vinegar; a
certain alteration, a slight intensification of taste...” (p. 461).
Nonostante il processo di chutnificazione implichi trasformazione,
distorsione di gusti, esso è necessario per curare l’amnesia della
nazione; l’arte sta nel modificare il grado di intensità della fragranza,
ma non il tipo. I pickles diventano, così, immortali nella speranza
rushdiana che “One day, perhaps, the world may taste the pickles of
history.” (p. 461); nell’Abracadabra di un mondo di maghi e profeti.
“Ricordare è sapere” sosteneva Platone nel concetto di anamesi,
1
dove
“sapere”, dal latino sapio, oltre a evidenziare la relazione tra
1
Menone, 80 e-82b; traduzione di G. Reali, La Scuola, Brescia 1988.
conoscenza e memoria, significa anche “gustare, aver sapore”. Quindi,
per analogia, la memoria e la conoscenza sono delle degustazioni.
Il cuoco dalle mani magiche compie, alla fine, l’operazione di
mettere nei vasetti la mostarda di frutta e il chutney di mango, li
chiude ermeticamente con cura affinché l’odore non si perda
evaporando e il sapore agrodolce e piccante non vada a male a
contatto con agenti esterni, come Moreas e Ezekiel di The Moor’s Last
Sigh.
Il narratore-cuoco-Saleem lavora nel preservare dal tempo e
conservare gli eventi, le esperienze, la storia dal gusto forse un po’
agrodolce memorizzandoli nei capitoli-giare del libro; un sapore, però,
sicuramente di autentica verità, perché espressione di un atto d’amore.
“One empty jar… how to end? Happily with Mary in her teak rocking-
chair and a son who has begun to speak? Amid recipes, and thirty jars
with chapter-headings for names?” (p. 461).