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INTRODUZIONE
Oggetto del presente lavoro è una rilettura antropologica e pubblicitaria del gioco più bello,
più seguito, più appassionante del mondo, il Calcio. Il desiderio di affrontare questa
tematica al termine del mio percorso di studi è sorta dall’idea di voler osservare da vicino in
che modo la passione più importante della mia vita potesse realmente, nella società odierna,
entrare in relazione con gli strumenti comunicativi pubblicitari esistenti, quale fosse il
legame instauratosi, in che maniera le aziende orientate ad un marketing strategico
potessero usufruire del linguaggio sportivo e soprattutto quale immagine del Calcio ne
sarebbe scaturita.
Si tratta di un lavoro intenzionato a mettere in discussione una concezione ormai condivisa
da gran parte della società, che considera questo gioco ormai spoglio delle sue origini, dei
suoi tratti caratteristici, della sua natura spettacolare, intrattenitrice e passionale. Sappiamo
tutti quanto l’ambito economico e finanziario abbia sempre più saputo entrare all’interno
dei meccanismi in grado di muovere questo sport, a tal punto da rendere il calcio
professionistico, seguito da milioni di appassionati e tifosi, una macchina produttrice di
soldi ancor prima di essere uno strumento attraverso cui poter divertirsi e veicolare, allo
stesso tempo, determinati valori di lealtà, correttezza e rispetto verso il proprio avversario.
Esiste nel mondo moderno una sostanziale rassegnazione nei confronti di un calcio ormai
divenuto mero strumento di propaganda pubblicitaria e comunicativa, sfruttato dalle grandi
marche per persuadere i propri consumatori all’acquisto, per entrare in nuovi mercati, per
ottenere visibilità globale. Pastorin, nel suo splendido libro dal titolo Lettera a mio figlio sul
calcio, dichiara a chiare lettere questo adattamento ad una nuova dominazione economica
del Calcio:
“Il calcio che vedi tu, figlio mio, ha veramente poco di poetico, è diventato un grande
affare, un’industria. Più che i gol, conta l’andamento della Borsa e il marketing ha
sostituito il dribbling.”
1
Ma chi ama questo sport, chi lo pratica, lo vive e dedica il proprio tempo ad insegnarlo ai
ragazzini, non può perdere la speranza e la consapevolezza che questo sport sia ancora in
1
Pastorin 2002, pag. 21.
6
grado di considerarsi una Palestra di Vita, determinato da un pallone che racchiude in sé
risate e pianti, pene ed esaltazioni, sogni ad occhi aperti e tanta imprevedibilità, in grado di
ribaltare qualsiasi risultato ed offrire al mondo intero la certezza che nel gioco del calcio, in
realtà, non esiste alcun tipo di certezza.
Non ho mai smesso di credere che, per quanto oggi il valore del denaro, purtroppo, avesse
acquistato una profonda rilevanza a livello professionistico, in un calcio giocato spesso
fuori dal campo, tra sponsor, contratti milionari, procuratori assetati di denaro e calciatori
sballottati a destra e sinistra, da una squadra all’altra e da un Continente all’altro, a seconda
di dove tirasse il vento dell’Euro o del Dollaro, il valore antropologico, umano, esistenziale,
sociale, comunitario celato nel Calcio sarebbe sempre stato in grado di esprimersi e di
manifestarsi, pur con linguaggi ed in contesti differenti. Ed ho così tentato di addentrarmi
nel mondo comunicativo, pubblicitario delle grandi marche, intenzionate ad usufruire della
visibilità di questo sport per entrare in contatto con i propri tifosi-consumatori, al fine di
constatare realmente se lo sport in questione fosse semplice mezzo, divulgatore di un
messaggio promozionale, trasformato definitivamente in uno degli affari più lucrosi del
mondo, o se avesse ancora oggi, nell’era della globalizzazione, la facoltà di comunicare la
sua bellezza, quella follia capace di rendere l’uomo bambino per un attimo, alcuni semplici
insegnamenti che contraddistinguono la sua natura e che avvicinano un ragazzino alla vita.
Nella prima parte di questo lavoro mi sono soffermato sugli aspetti antropologici del calcio
giocato, valorizzando innanzitutto la sua essenza teatrale, il suo saper trasmettere allegria,
spensieratezza, la capacità di saper esprimere la cultura di un’intera popolazione, di
un’intera nazione, con la consapevolezza, d’altra parte, di essere espressione di un
linguaggio comune, universale, nel quale le differenze di status, di religione, di lingua
smettono di essere una barriera sul campo, al rotolare del pallone. Ho dato attenzione al
significato di questo sport per i più piccoli, a quel calcio di strada che tutti noi abbiamo
incontrato nella nostra infanzia e di cui, spesso, in età adulta, ne sentiamo la mancanza. Ho
sperimentato questo sport da calciatore, per comprendere cosa significasse nella mente e nel
cuore di chi scende in campo trovarsi di fronte un avversario, sentire le urla del pubblico,
provare la sensazione di essere ad un passo dall’elevarsi ad eroe della patria o crollare nel
pozzo degli sconfitti. Ho vissuto l’esperienza di allenatore, per capire in che modo un
simile sport possa entrare nella vita di un adolescente ed insegnare loro che, come nella
vita, è lo spirito di squadra, di sacrificio, di impegno a rendere un uomo migliore, dentro e
7
fuori dal campo, nel rispetto del risultato e di chi si affronta. Ho avuto la possibilità di
seguire il calcio professionistico in casa ed in trasferta, per avvicinarmi ancor di più al
mondo dei tifosi, alla stretta cerchia degli ultrà, affrontandone successivamente la loro
concezione di un calcio inteso come battaglia simbolica e riletto attraverso la lente della
metafora bellica, considerando, tuttavia, determinati episodi in cui il confine tra finzione e
realtà viene a vacillare, scaturendo episodi di violenza e di manifestazioni razziste che
distruggono l’immagine di questo gioco.
Per poi avvicinarmi attraverso diversi autori ai rituali nascosti dietro questo sport, le
superstizioni culturali, i riti propiziatori di una nazione, di un calciatore, di una società.
Nella seconda parte, invece, ho riversato completamente la mia attenzione sulle campagne
pubblicitarie delle grandi aziende multinazionali, dedite ad una comunicazione con i propri
consumatori usufruendo di questo sport, determinando in quali situazioni ed a che
condizione il calcio si possa definire, appunto, veicolo di un messaggio persuasivo di
prodotto, di brand, interamente comunicato dall’azienda e se esistano o siano esistite, nel
tempo, campagne pubblicitarie in cui la voce e l’attenzione fossero totalmente nelle mani di
questo sport, al fine di permettere al brand di ricorrere ai valori antropologici per entrare in
comunione con il tifoso ed instaurare con esso un legame forte e duraturo.
Sarà un viaggio itinerante, in cui si cercherà di riportare in auge un connubio esistente tra il
mondo calcistico e la realtà pubblicitaria, tentando di dimostrare come la bellezza emotiva e
vitale di questo sport non sia andata del tutto persa. Il calcio non ha smesso di essere
comunicatore diretto con i propri tifosi della sua essenza passionale. Credo si possa dire di
essere spettatori di una simbiosi tra calcio e mondo pubblicitario, in cui a ciascuno è dato di
divulgare, implicitamente od esplicitamente, un messaggio forte ed autentico a quello
spettatore, tifoso-consumatore, coinvolto emotivamente. Perché in fondo,
indipendentemente dall’evoluzione, dal progresso, dai nuovi media, da questa era della
riproducibilità tecnica dello sport, il calcio rimarrà sempre l’essenza di una sfida, in
un’orgia di emozioni dove il Bene prende il posto del male in una frazione di secondo, dove
ad entrare in campo è la fede, l’odio, il rito, l’amore, il senso di colpa.
Sarà sempre uno sport originato spontaneamente, come se una forza ludica avesse spinto
l’uomo a correre dietro ad un pallone e giocare con esso.
Dichiara, infatti, Jorge Valdano:
8
“Questa caratteristica tribale salva il calcio dal progresso, perché non c’è evoluzione che
possa relegare nell’oblio a scimmia che è in noi. […] Le impronte digitali degli uomini di
potere si vedranno ogni giorno più chiare, ma se anche dietro ogni club dovesse esserci un
Berlusconi, i colori della maglia continueranno ad appartenere soltanto ai tifosi”
2
.
2
Valdano 2005, pag. 224.
9
PARTE I
LETTURA ANTROPOLOGICA DEL
CALCIO
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Capitolo primo
1.1. IL CALCIO: UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA
Il Calcio, è giusto chiarirlo fin dall’inizio, non può più essere considerato semplicemente
uno sport d’intrattenimento. Questa pratica sportiva è divenuta nel tempo un vero e proprio
fenomeno sociale, in grado di dividere, amalgamare, influenzare un contenuto gruppo tifosi
come un’intera nazione.
Infatti, come ha voluto dichiarare apertamente Luigi Porro,
“Da tempo il calcio ha cessato di rappresentare soltanto un gioco, fosse pure il gioco più
bello del mondo. La sua popolarità su scala planetaria ne ha fatto un fenomeno sociale che
tende a debordare dallo stesso sistema sportivo. […] Esso agisce al crocevia di altri
sistemi, la comunicazione, l’economia, la politica, ma insieme appare dotato di caratteri
propri che non consentono di ridurlo a uno dei tanti nodi che compongono la sconfinata
rete dell’intrattenimento spettacolare nell’età della dittatura mediatica”
3
.
Tuttavia, essendo fenomeno sociale, l’errore comune commesso è quello di ridimensionare
notevolmente il valore e la posizione ricoperte da tale sport all’interno della nostra vita,
associandolo a quello che, nel linguaggio comune, viene solitamente definito Tempo
Libero.
In questi termini, non soltanto si rischia di ricollocarlo in un angolo della nostra giornata e
ridurlo a mero passatempo, ma il rischio maggiore è quello di rendere tale sfera dipendente
ed impotente nei confronti di una sfera più imponente, quella del lavoro.
Forse un tempo, ad esso non si poteva attribuire altro significato. Anzi, nacque proprio
grazie al progresso scientifico, che apportò un aiuto importante alla manodopera delle
fabbriche con l’inserimento di macchinari, in grado di ridurre la giornata lavorativa e
permettere alle classi sociali di tuffarsi in questo tempo a loro disposizione ed occuparlo
con uno sport fino a quel momento concesso alla nobiltà. Ne è testimonianza concreta
Habermas, il quale, confermando quanto detto, sostiene come
3
Porro 2008, pag. 9.
11
“Solo dal momento in cui l’organizzazione razionale del lavoro e la sua meccanizzazione
hanno raggiunto un livello tale che all’incremento estensivo della produzione subentra un
incremento intensivo, è venuto diminuendo il dispendio socialmente necessario di lavoro,
dunque il tempo di lavoro”
4
.
Prosegue Gerhard Vinnai:
La tendenza che di qui ha preso le mosse, all’accorciamento della giornata lavorativa,
della settimana lavorativa, dell’anno lavorativo ed insomma della vita lavorativa, crea uno
spazio libero dal lavoro industriale, nel quale può installarsi lo sport.”
5
.
Si può certo negare come l’Inghilterra, madre del capitalismo industriale, sia anche la
madre del moderno gioco del calcio come sport di massa. La storia ci ricorda quanto sia
stato proprio questo paese, nel quale avvenne l’immediato passaggio, attorno al XIX
secolo, da uno sfruttamento della forza lavoro di tipo estensivo ad uno di tipo intensivo, il
fondatore della prima Football Association, a Londra nel 1863, con la quale nacquero i
presupposti per una democratizzazione di un gioco considerato un privilegio della classe
sociale borghese e feudale, che frequentava le Public Schools e le Università
6
.
Tuttavia, oggi, ridurre il calcio a mera occupazione del tempo libero, credo non sia più
possibile. Bisogna progredire, andare avanti, comprendere come il calcio oggi sia specchio
e insieme voce della società, come sia in grado di abbracciarla, condizionarla e da essa
esserne condizionato, quanto sia divenuto espressione di collettività ma soprattutto di
individualità.
Il calcio ha smesso definitivamente di essere un incontro di 22 giocatori, diretti da un
arbitro, con l’obiettivo di calciare un palla all’interno della porta avversaria e realizzare più
reti degli avversari entro i 90 minuti di gioco. Per gli appassionati, per i tifosi, per chi segue
ovunque la propria squadra del cuore o per coloro che non perderebbero una partita in
compagnia degli amici, pronti a soffrire, urlare, esultare; per chi corre tra i passanti con un
pallone ai piedi o per chi attende l’amico sotto casa con indosso la maglia del suo
campione, tra i piedi un pallone e tra le mani 2 felpe per realizzare 2 porte al centro del
parco, il calcio è molto, molto di più. È rituale, arte, creatività, fede, passione, riscatto
4
Habermas, in Vinnai 2003, pag. 25.
5
Vinnai 2003, pag. 25.
6
Ivi, pagg. 25 – 26.
12
sociale; è dramma, è mito; è gioia o amara disillusione; passione, divertimento, piacere; è
poesia e filosofia di vita. Ma soprattutto, è un gioco. Un gioco che, a seconda di chi ne entra
in possesso, può trasformarsi in palestra di vita o in corruttore sociale, intriso di violenza,
business, ricchezza, arroganza, razzismo.
E allora non rimane altro che riconoscere ed avvicinarsi al calcio non solo da un punto di
vista strettamente sociale, ma lasciare spazio ad un’altra disciplina, il cui accostamento allo
sport sembrava assolutamente utopico fino a qualche anno fa. Se parliamo di calcio, non
possiamo più fare a meno di discorrere di riti, tribù, miti, divinità, caste, leggi, addirittura
epica. Non facciamo altro che attribuire a questo sport un linguaggio, una terminologia, una
simbologia che in realtà apparterebbe al mondo dell’Antropologia. E sebbene
L’antropologia nacque come “scienza delle società primitive, sviluppandosi
contestualmente alla scoperta dell’altro, nell’incontro e dall’incontro con l’Altro”
7
, questa
scienza umana, romantica e dinamica allo stesso tempo, continua a dedicarsi alle dinamiche
di trasformazione e contaminazione che attraversano le società complesse, rendendo in un
certo senso familiare ciò che in realtà potrebbe apparire estraneo ed insolito, ricco di risvolti
misteriosi. E riconoscendo nel calcio l’essenza di cultura, non può che essere utile
analizzare antropologicamente i nuovi processi culturali che tale sport ha apportato in tutti
questi anni all’interno della società globale. Perciò, riportando le parole di Barba
“La lente dell’antropologo ha il diritto di indagare su fatti e processi che interessano il
mondo del calcio. Una lente che possiamo anche ritenere parziale, personale, deformata,
perché ogni fatto, come diceva Clifford Geertz (1973) è interpretazione.”
8
.
Il calcio è una straordinaria occasione di conoscenza, di incontro di popoli e culture, di
proficua contaminazione, un veicolo di valori positivi, un esercizio di umanità e di
godimento estetico, di umiltà e di bellezza, un’autentica miniera di possibilità umane. E non
possiamo assolutamente perdere l’occasione di tuffarci ed assaporare questa realtà
culturale, conoscerne i segreti, approfondirne i misteri. Naturalmente, con l’aiuto di
un’arma infallibile e vincente, l’Antropologia.
7
Barba 2007, pag. 15.
8
Ivi, pagg. 16 – 17.
13
1.2. UN’OPERA D’ARTE
Se dovessimo riunirci attorno ad un tavolo e discutere insieme nel tentativo di trovare un
accordo su una definizione universale di tale sport, che possa accomunare le idee e le
concezioni su di esso di ciascuno, probabilmente troveremmo serie difficoltà nel risolvere
la questione in breve tempo. L’eterogeneità di significati che potrebbe assumere e ricoprire
nella vita di ogni uomo, rende quest’ultimo legittimato ad esprimere a gran voce il ruolo
che questo sport, cosi collettivo ed identitario allo stesso tempo, assume nella propria
esistenza. E questo “appropriarsi” del calcio, questo desiderio o necessità di lasciarsi da
esso coinvolgere e creare una sorta di comunione con tutto ciò che appartiene a questo
mondo, ci rende esperti professionisti e, forse, poco tolleranti ai giudizi ed opinioni di chi ci
sta attorno.
E’ inutile nasconderlo, di calcio si parla molto, forse troppo. E, naturalmente, tutti si
sentono autorizzati a farlo. Se solo tentassimo di confrontare una discussione in atto nel
ramo dell’economia o della politica con una diatriba simile in ambito calcistico, la
differenza risulterebbe evidente agli occhi di tutti. Nel primo caso, infatti, a parlare sono
chiamati i dotti, i veri esperti, in genere i professionisti. Chiunque vorrebbe esprimere il
proprio personale parere, ma, nel caso si incontrasse qualcuno chiaramente più competente,
saremmo pronti a tirarci umilmente in disparte.
Ma quando ci si considera meno competenti di chi ci sta accanto se si è impegnati in una
discussione sportiva? E’giusto anche domandarsi: Dove è situato il confine della
conoscenza, il filo che permette di compiere una separazione tra chi sa e chi non sa? Come
poter riconoscere una verità oggettiva da una soggettiva?
Probabilmente, a cercare risposte simili, si perderebbe non soltanto del tempo inutilmente,
ma ci si lascerebbe sfuggire il bello di questo sport: la sua individualità.
Nel calcio, in fondo, non esiste una sola verità. Come non lo si può ridurre ad una sporadica
definizione oggettiva. Ci si siede attorno ad un tavolo, come dichiarato all’inizio, e ci si
pone come obiettivo quello di carpire quale possa essere l’essenza del calcio per
antonomasia, quel “minimo comune multiplo” che possa accomunare i pensieri di ciascuno.
Ma probabilmente, non esisterebbero informazioni, conoscenze, ponderatezza di giudizi ad
aiutare questi eruditi.
Perché il calcio è uno sport, una fede, uno spettacolo, un rituale, per tutti una vera e propria
passione. E’ un gioco, non possiamo dimenticarlo, necessario per tonificare il proprio
14
corpo, addestrare alla cooperazione ed indirizzare il praticante al raggiungimento
dell’obiettivo. Insegna, in un arco di 90 minuti, a rispettare le regole. Ma non solo.
Aggiungendo le parole di Barba,
“esso può essere inteso come il teatro Shakespeariano nel quale si confondono storia e
chimera, commedia e tragedia. […] Simula la realtà e allo stesso tempo permette di
oltrepassarla grazie alla fantasia (un povero, uno zoppo, può sconfiggere il più forte);
inverte lo status sociale (come nel Carnevale, il piccolo che si fa re, e lo abbatte), ma allo
stesso tempo ci sono cose che non si fanno; può essere fine a se stesso ma è da sempre
anche un fattore di ascesa sociale”
9
.
Ma ancora, possiamo considerarlo una sequenza narrativa assolutamente soggettiva, in
quanto, a differenza degli altri sport, l’elenco numerico di corner, falli, tiri in porta, non ha
alcuna influenza sul giudizio finale. E’ guerra, è spettacolo, è identità, è politica, è
religione. Il calcio non può discostarsi da tutto questo.
C’è forse un’ultima similitudine adeguata al contesto, ma che ancora non è stata
menzionata. Un gesto tecnico, un dribbling, un sombrero o una rabona, il calcio è un’arte,
che va coltivata, assaporata, curata nei dettagli e vissuta con la spensieratezza e la
meraviglia riconoscibile in un bambino di fronte ad un albero colmo di regali la mattina di
Natale.
Chiunque voglia cimentarsi in questo sport, chiunque si trovi una palla tra i piedi, uno
spazio in cui poter giocare e due porte, che dia vita alla creatività, alla fantasia, che liberi la
mente e dia sfogo al suo istinto, alla sua naturalezza, perfino all’”animalità” insita in
ognuno di noi. Che si consideri un’Artista, davanti alla sua tela, con accanto i suoi colori, i
suoi strumenti di lavoro. Che le scarpette divengano i suoi pennelli, il campo la sua tela, e
dia inizio ad un’opera d’arte, libera da schemi, tattica, moduli e quant’altro offuschi la
bellezza di questo mondo. Si è così tanto condizionati da quel calcio che apprendiamo, che
studiamo, che osserviamo e discutiamo in diversi momenti della nostra giornata, che
probabilmente, abbiamo dimenticato quell’estasi biologica e naturale che ci coglieva
nell’osservare il rotolare magico di una palla e quel senso di libertà che si impossessava
della nostra anima e della nostra mente dopo la buona riuscita di un dribbling o di una
magia inaspettata e, talvolta, non voluta, ma tentata, senza freni, senza vieti.
9
Barba 2007, pag. 17.
15
Può darsi che questa dimensione si sia persa del tutto, dato il nostro essere del tutto immersi
in questo mondo adulto e professionistico. O forse, qualcosa ancora si può salvare. Forse
un’ancora di salvezza esiste. Comporta uno sforzo non indifferente, ma tentare, perlomeno,
di compierlo, sarebbe un dovere. Basterebbe riscoprire il valore ludico del calcio, lo scopo
di puro e semplice divertimento, compiere un ritorno alle origini, a quel calcio di strada, nel
quale le porte venivano create con le maglie o gli zaini, la palla con carta e scotch, le
squadre con i due capitani più forti.
Basterebbe, insomma, tornare ad essere un po’ bambini. In fondo, non dimentichiamolo, si
tratta sempre di un gioco. Ed un po’ meno di professionalità non guasta mai.
1.3. IL CALCIO DI STRADA
Credo ci sia qualcosa di naturale, di innato nell’attrazione che mostra un bambino nei
confronti di una palla e di una squadra, composta da eroi che trattano così bene quel
mistero. L’atto creativo sembra nascere sempre in un contesto sociale difficile, in un
momento di bisogno, nell’esigenza di dare una svolta alla propria vita o semplicemente
sfogare il proprio istinto e, probabilmente, è proprio ciò che affascina i bambini:
“dare calci ad un pallone rappresenta la prima difficoltà seria a cui andiamo incontro e
come sempre succederà nella vita, se si supera il dramma, il limite, ci si affeziona a quel
momento”
10
.
In loro si riversa un’emozione difficile da spiegare perché, a fondo, è ancor più difficile
comprenderla. E’ il ripiegarsi, nella loro pulita concezione del calcio, di una passione e di
una sensibilità poetica che non ammette confini. E’ il tuffarsi a piedi uniti in un’aura di
magia e fantasia, alla quale è sorprendentemente difficile accedervi.
La distanza dal mondo adulto diviene netta. E, a mio parere, da una realtà troppo esigente e
sofisticata per permettersi di riconoscere la vera essenza di questo sport.
Sembra non esistere più un calcio senza un pallone firmato Adidas o Nike, in cuoio
morbido, con le cuciture rifinite a mano. Siamo smarriti se ci approcciamo ad una partita
senza casacche rigorosamente con colori ben distinti, senza un campo semi-regolamentare,
10
Barba 2007, pag. 41.