5 
 
INTRODUZIONE 
 
Oggetto del presente lavoro è una rilettura antropologica e pubblicitaria del gioco più bello, 
più seguito, più appassionante del mondo, il Calcio. Il desiderio di affrontare questa 
tematica al termine del mio percorso di studi è sorta dall’idea di voler osservare da vicino in 
che modo la passione più importante della mia vita potesse realmente, nella società odierna, 
entrare in relazione con gli strumenti comunicativi pubblicitari esistenti, quale fosse il 
legame instauratosi, in che maniera le aziende orientate ad un marketing strategico 
potessero usufruire del linguaggio sportivo e soprattutto quale immagine del Calcio ne 
sarebbe scaturita.  
Si tratta di un lavoro intenzionato a mettere in discussione una concezione ormai condivisa 
da gran parte della società, che considera questo gioco ormai spoglio delle sue origini, dei 
suoi tratti caratteristici, della sua natura spettacolare, intrattenitrice e passionale. Sappiamo 
tutti quanto l’ambito economico e finanziario abbia sempre più saputo entrare all’interno 
dei meccanismi in grado di muovere questo sport, a tal punto da rendere il calcio 
professionistico, seguito da milioni di appassionati e tifosi, una macchina produttrice di 
soldi ancor prima di essere uno strumento attraverso cui poter divertirsi e veicolare, allo 
stesso tempo, determinati valori di lealtà, correttezza e rispetto verso il proprio avversario. 
Esiste nel mondo moderno una sostanziale rassegnazione nei confronti di un calcio ormai 
divenuto mero strumento di propaganda pubblicitaria e comunicativa, sfruttato dalle grandi 
marche per persuadere i propri consumatori all’acquisto, per entrare in nuovi mercati, per 
ottenere visibilità globale. Pastorin, nel suo splendido libro dal titolo Lettera a mio figlio sul 
calcio, dichiara a chiare lettere questo adattamento ad una nuova dominazione economica 
del Calcio: 
 
“Il calcio che vedi tu, figlio mio, ha veramente poco di poetico, è diventato un grande 
affare, un’industria. Più che i gol, conta l’andamento della Borsa e il marketing ha 
sostituito il dribbling.”
1
  
 
Ma chi ama questo sport, chi lo pratica, lo vive e dedica il proprio tempo ad insegnarlo ai 
ragazzini, non può perdere la speranza e la consapevolezza che questo sport sia ancora in 
                                                 
1
 Pastorin 2002, pag. 21.
6 
 
grado di considerarsi una Palestra di Vita, determinato da un pallone che racchiude in sé 
risate e pianti, pene ed esaltazioni, sogni ad occhi aperti e tanta imprevedibilità, in grado di 
ribaltare qualsiasi risultato ed offrire al mondo intero la certezza che nel gioco del calcio, in 
realtà, non esiste alcun tipo di certezza.  
Non ho mai smesso di credere che, per quanto oggi il valore del denaro, purtroppo, avesse 
acquistato una profonda rilevanza a livello professionistico, in un calcio giocato spesso 
fuori dal campo, tra sponsor, contratti milionari, procuratori assetati di denaro e calciatori 
sballottati a destra e sinistra, da una squadra all’altra e da un Continente all’altro, a seconda 
di dove tirasse il vento dell’Euro o del Dollaro, il valore antropologico, umano, esistenziale, 
sociale, comunitario celato nel Calcio sarebbe sempre stato in grado di esprimersi e di 
manifestarsi, pur con linguaggi ed in contesti differenti. Ed ho così tentato di addentrarmi 
nel mondo comunicativo, pubblicitario delle grandi marche, intenzionate ad usufruire della 
visibilità di questo sport per entrare in contatto con i propri tifosi-consumatori, al fine di 
constatare realmente se lo sport in questione fosse semplice mezzo, divulgatore di un 
messaggio promozionale, trasformato definitivamente in uno degli affari più lucrosi del 
mondo, o se avesse ancora oggi, nell’era della globalizzazione, la facoltà di comunicare la 
sua bellezza, quella follia capace di rendere l’uomo bambino per un attimo, alcuni semplici 
insegnamenti che contraddistinguono la sua natura e che avvicinano un ragazzino alla vita.  
 
Nella prima parte di questo lavoro mi sono soffermato sugli aspetti antropologici del calcio 
giocato, valorizzando innanzitutto la sua essenza teatrale, il suo saper trasmettere allegria, 
spensieratezza, la capacità di saper esprimere la cultura di un’intera popolazione, di 
un’intera nazione, con la consapevolezza, d’altra parte, di essere espressione di un 
linguaggio comune, universale, nel quale le differenze di status, di religione, di lingua 
smettono di essere una barriera sul campo, al rotolare del pallone. Ho dato attenzione al 
significato di questo sport per i più piccoli, a quel calcio di strada che tutti noi abbiamo 
incontrato nella nostra infanzia e di cui, spesso, in età adulta, ne sentiamo la mancanza. Ho 
sperimentato questo sport da calciatore, per comprendere cosa significasse nella mente e nel 
cuore di chi scende in campo trovarsi di fronte un avversario, sentire le urla del pubblico, 
provare la sensazione di essere ad un passo dall’elevarsi ad eroe della patria o crollare nel 
pozzo degli sconfitti. Ho vissuto l’esperienza di allenatore, per capire in che modo un 
simile sport possa entrare nella vita di un adolescente ed insegnare loro che, come nella 
vita, è lo spirito di squadra, di sacrificio, di impegno a rendere un uomo migliore, dentro e
7 
 
fuori dal campo, nel rispetto del risultato e di chi si affronta. Ho avuto la possibilità di 
seguire il calcio professionistico in casa ed in trasferta, per avvicinarmi ancor di più al 
mondo dei tifosi, alla stretta cerchia degli ultrà, affrontandone successivamente la loro 
concezione di un calcio inteso come battaglia simbolica e riletto attraverso la lente della 
metafora bellica, considerando, tuttavia, determinati episodi in cui il confine tra finzione e 
realtà viene a vacillare, scaturendo episodi di violenza e di manifestazioni razziste che 
distruggono l’immagine di questo gioco.  
Per poi avvicinarmi attraverso diversi autori ai rituali nascosti dietro questo sport, le 
superstizioni culturali, i riti propiziatori di una nazione, di un calciatore, di una società. 
Nella seconda parte, invece, ho riversato completamente la mia attenzione sulle campagne 
pubblicitarie delle grandi aziende multinazionali, dedite ad una comunicazione con i propri 
consumatori usufruendo di questo sport, determinando in quali situazioni ed a che 
condizione il calcio si possa definire, appunto, veicolo di un messaggio persuasivo di 
prodotto, di brand, interamente comunicato dall’azienda e se esistano o siano esistite, nel 
tempo, campagne pubblicitarie in cui la voce e l’attenzione fossero totalmente nelle mani di 
questo sport, al fine di permettere al brand di ricorrere ai valori antropologici per entrare in 
comunione con il tifoso ed instaurare con esso un legame forte e duraturo.  
Sarà un viaggio itinerante, in cui si cercherà di riportare in auge un connubio esistente tra il 
mondo calcistico e la realtà pubblicitaria, tentando di dimostrare come la bellezza emotiva e 
vitale di questo sport non sia andata del tutto persa. Il calcio non ha smesso di essere 
comunicatore diretto con i propri tifosi della sua essenza passionale. Credo si possa dire  di 
essere spettatori di una simbiosi tra calcio e mondo pubblicitario, in cui a ciascuno è dato di 
divulgare, implicitamente od esplicitamente, un messaggio forte ed autentico a quello 
spettatore, tifoso-consumatore, coinvolto emotivamente. Perché in fondo, 
indipendentemente dall’evoluzione, dal progresso, dai nuovi media, da questa era della 
riproducibilità tecnica dello sport, il calcio rimarrà sempre l’essenza di una sfida, in 
un’orgia di emozioni dove il Bene prende il posto del male in una frazione di secondo, dove 
ad entrare in campo è la fede, l’odio, il rito, l’amore, il senso di colpa.  
Sarà sempre uno sport originato spontaneamente, come se una forza ludica avesse spinto 
l’uomo a correre dietro ad un pallone e giocare con esso.  
Dichiara, infatti, Jorge Valdano:
8 
 
“Questa caratteristica tribale salva il calcio dal progresso, perché non c’è evoluzione che 
possa relegare nell’oblio a scimmia che è in noi. […] Le impronte digitali degli uomini di 
potere si vedranno ogni giorno più chiare, ma se anche dietro ogni club dovesse esserci un 
Berlusconi, i colori della maglia continueranno ad appartenere soltanto ai tifosi”
2
.  
  
                                                 
2
 Valdano 2005, pag. 224.
9 
 
 
 
 
 
PARTE  I 
 
 
LETTURA ANTROPOLOGICA DEL 
CALCIO
10 
 
Capitolo primo 
 
1.1. IL CALCIO: UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA 
 
Il Calcio, è giusto chiarirlo fin dall’inizio, non può più essere considerato semplicemente 
uno sport d’intrattenimento. Questa pratica sportiva è divenuta nel tempo un vero e proprio 
fenomeno sociale, in grado di dividere, amalgamare, influenzare un contenuto gruppo tifosi 
come un’intera nazione. 
Infatti, come ha voluto dichiarare apertamente Luigi Porro,  
 
“Da tempo il calcio ha cessato di rappresentare soltanto un gioco, fosse pure il gioco più 
bello del mondo. La sua popolarità su scala planetaria ne ha fatto un fenomeno sociale che 
tende a debordare dallo stesso sistema sportivo. […] Esso agisce al crocevia di altri 
sistemi, la comunicazione, l’economia, la politica, ma insieme appare dotato di caratteri 
propri che non consentono di ridurlo a uno dei tanti nodi che compongono la sconfinata 
rete dell’intrattenimento spettacolare nell’età della dittatura mediatica” 
3
. 
 
Tuttavia, essendo fenomeno sociale, l’errore comune commesso è quello di ridimensionare 
notevolmente il valore e la posizione ricoperte da tale sport all’interno della nostra vita, 
associandolo a quello che, nel linguaggio comune, viene solitamente definito Tempo 
Libero. 
In questi termini, non soltanto si rischia di ricollocarlo in un angolo della nostra giornata e 
ridurlo a mero passatempo, ma il rischio maggiore è quello di rendere tale sfera dipendente 
ed impotente nei confronti di una sfera più imponente, quella del lavoro. 
Forse un tempo, ad esso non si poteva attribuire altro significato. Anzi, nacque proprio 
grazie al progresso scientifico, che apportò un aiuto importante alla manodopera delle 
fabbriche con l’inserimento di macchinari, in grado di ridurre la giornata lavorativa e 
permettere alle classi sociali di tuffarsi in questo tempo a loro disposizione ed occuparlo 
con uno sport fino a quel momento concesso alla nobiltà. Ne è testimonianza concreta 
Habermas, il quale, confermando quanto detto, sostiene come  
 
                                                 
3
 Porro 2008, pag. 9.
11 
 
“Solo dal momento in cui l’organizzazione razionale del lavoro e la sua meccanizzazione 
hanno raggiunto un livello tale che all’incremento estensivo della produzione subentra un 
incremento intensivo, è venuto diminuendo il dispendio socialmente necessario di lavoro, 
dunque il tempo di lavoro” 
4
. 
 
 Prosegue Gerhard Vinnai: 
 
La tendenza che di qui ha preso le mosse, all’accorciamento della giornata lavorativa, 
della settimana lavorativa, dell’anno lavorativo ed insomma della vita lavorativa, crea uno 
spazio libero dal lavoro industriale, nel quale può installarsi lo sport.” 
5
.  
 
Si può certo negare come l’Inghilterra, madre del capitalismo industriale, sia anche la 
madre del moderno gioco del calcio come sport di massa. La storia ci ricorda quanto sia 
stato proprio questo paese, nel quale avvenne l’immediato passaggio, attorno al XIX 
secolo, da uno sfruttamento della forza lavoro di tipo estensivo ad uno di tipo intensivo, il 
fondatore della prima Football Association, a Londra nel 1863, con la quale nacquero i 
presupposti per una democratizzazione di un gioco considerato un privilegio della classe 
sociale borghese e feudale, che frequentava le Public Schools e le Università 
6
. 
Tuttavia, oggi, ridurre il calcio a mera occupazione del tempo libero, credo non sia più 
possibile. Bisogna progredire, andare avanti, comprendere come il calcio oggi sia specchio 
e insieme voce della società, come sia in grado di abbracciarla, condizionarla e da essa 
esserne condizionato, quanto sia divenuto espressione di collettività ma soprattutto di 
individualità. 
Il calcio ha smesso definitivamente di essere un incontro di 22 giocatori, diretti da un 
arbitro, con l’obiettivo di calciare un palla all’interno della porta avversaria e realizzare più 
reti degli avversari entro i 90 minuti di gioco. Per gli appassionati, per i tifosi, per chi segue 
ovunque la propria squadra del cuore o per coloro che non perderebbero una partita in 
compagnia degli amici, pronti a soffrire, urlare, esultare; per chi corre tra i passanti con un 
pallone ai piedi o per chi attende l’amico sotto casa con indosso la maglia del suo 
campione, tra i piedi un pallone e tra le mani 2 felpe per realizzare 2 porte al centro del 
parco, il calcio è molto, molto di più. È rituale, arte, creatività, fede, passione, riscatto 
                                                 
4
 Habermas, in Vinnai 2003, pag. 25. 
5
 Vinnai 2003, pag. 25. 
6
 Ivi, pagg. 25 – 26.
12 
 
sociale; è dramma, è mito; è gioia o amara disillusione; passione, divertimento, piacere; è 
poesia e filosofia di vita. Ma soprattutto, è un gioco. Un gioco che, a seconda di chi ne entra 
in possesso, può trasformarsi in palestra di vita o in corruttore sociale, intriso di violenza, 
business, ricchezza, arroganza, razzismo. 
E allora non rimane altro che riconoscere ed avvicinarsi al calcio non solo da un punto di 
vista strettamente sociale, ma lasciare spazio ad un’altra disciplina, il cui accostamento allo 
sport sembrava assolutamente utopico fino a qualche anno fa. Se parliamo di calcio, non 
possiamo più fare a meno di discorrere di riti, tribù, miti, divinità, caste, leggi, addirittura 
epica. Non facciamo altro che attribuire a questo sport un linguaggio, una terminologia, una 
simbologia che in realtà apparterebbe al mondo dell’Antropologia. E sebbene 
L’antropologia nacque come “scienza delle società primitive, sviluppandosi 
contestualmente alla scoperta dell’altro, nell’incontro e dall’incontro con l’Altro” 
7
, questa 
scienza umana, romantica e dinamica allo stesso tempo, continua a dedicarsi alle dinamiche 
di trasformazione e contaminazione che attraversano le società complesse, rendendo in un 
certo senso familiare ciò che in realtà potrebbe apparire estraneo ed insolito, ricco di risvolti 
misteriosi. E riconoscendo nel calcio l’essenza di cultura, non può che essere utile 
analizzare antropologicamente i nuovi processi culturali che tale sport ha apportato in tutti 
questi anni all’interno della società globale. Perciò, riportando le parole di Barba  
 
“La lente dell’antropologo ha il diritto di indagare su fatti e processi che interessano il 
mondo del calcio. Una lente che possiamo anche ritenere parziale, personale, deformata, 
perché ogni fatto, come diceva Clifford Geertz (1973) è interpretazione.” 
8
. 
 
Il calcio è una straordinaria occasione di conoscenza, di incontro di popoli e culture, di 
proficua contaminazione, un veicolo di valori positivi, un esercizio di umanità e di 
godimento estetico, di umiltà e di bellezza, un’autentica miniera di possibilità umane. E non 
possiamo assolutamente perdere l’occasione di tuffarci ed assaporare questa realtà 
culturale, conoscerne i segreti, approfondirne i misteri. Naturalmente, con l’aiuto di 
un’arma infallibile e vincente, l’Antropologia. 
                                                 
7
 Barba 2007, pag. 15. 
8
 Ivi, pagg. 16 – 17.
13 
 
1.2. UN’OPERA D’ARTE 
 
Se dovessimo riunirci attorno ad un tavolo e discutere insieme nel tentativo di trovare un 
accordo su una definizione universale di tale sport, che possa accomunare le idee e le 
concezioni su di esso di ciascuno, probabilmente troveremmo serie difficoltà nel risolvere 
la questione in breve tempo. L’eterogeneità di significati che potrebbe assumere e ricoprire 
nella vita di ogni uomo, rende quest’ultimo legittimato ad esprimere a gran voce il ruolo 
che questo sport, cosi collettivo ed identitario allo stesso tempo, assume nella propria 
esistenza. E questo “appropriarsi” del calcio, questo desiderio o necessità di lasciarsi da 
esso coinvolgere e creare una sorta di comunione con tutto ciò che appartiene a questo 
mondo, ci rende esperti professionisti e, forse, poco tolleranti ai giudizi ed opinioni di chi ci 
sta attorno. 
E’ inutile nasconderlo, di calcio si parla molto, forse troppo. E, naturalmente, tutti si 
sentono autorizzati a farlo. Se solo tentassimo di confrontare una discussione in atto nel 
ramo dell’economia o della politica con una diatriba simile in ambito calcistico, la 
differenza risulterebbe evidente agli occhi di tutti. Nel primo caso, infatti, a parlare sono 
chiamati i dotti, i veri esperti, in genere i professionisti. Chiunque vorrebbe esprimere il 
proprio personale parere, ma, nel caso si incontrasse qualcuno chiaramente più competente, 
saremmo pronti a tirarci umilmente in disparte. 
Ma quando ci si considera meno competenti di chi ci sta accanto se si è impegnati in una 
discussione sportiva? E’giusto anche domandarsi: Dove è situato il confine della 
conoscenza, il filo che permette di compiere una separazione tra chi sa e chi non sa? Come 
poter riconoscere una verità oggettiva da una soggettiva? 
Probabilmente, a cercare risposte simili, si perderebbe non soltanto del tempo inutilmente, 
ma ci si lascerebbe sfuggire il bello di questo sport: la sua individualità. 
Nel calcio, in fondo, non esiste una sola verità. Come non lo si può ridurre ad una sporadica 
definizione oggettiva. Ci si siede attorno ad un tavolo, come dichiarato all’inizio, e ci si 
pone come obiettivo quello di carpire quale possa essere l’essenza del calcio per 
antonomasia, quel “minimo comune multiplo” che possa accomunare i pensieri di ciascuno. 
Ma probabilmente, non esisterebbero informazioni, conoscenze, ponderatezza di giudizi ad 
aiutare questi eruditi. 
Perché il calcio è uno sport, una fede, uno spettacolo, un rituale, per tutti una vera e propria 
passione. E’ un gioco, non possiamo dimenticarlo, necessario per tonificare il proprio
14 
 
corpo, addestrare alla cooperazione ed indirizzare il praticante al raggiungimento 
dell’obiettivo. Insegna, in un arco di 90 minuti, a rispettare le regole. Ma non solo. 
Aggiungendo le parole di Barba,  
“esso può essere inteso come il teatro Shakespeariano nel quale si confondono storia e 
chimera, commedia e tragedia. […] Simula la realtà e allo stesso tempo  permette di 
oltrepassarla grazie alla fantasia (un povero, uno zoppo, può sconfiggere il più forte); 
inverte lo status sociale (come nel Carnevale, il piccolo che si fa re, e lo abbatte), ma allo 
stesso tempo ci sono cose che non si fanno; può essere fine a se stesso ma è da sempre 
anche un fattore di ascesa sociale” 
9
.  
 
Ma ancora, possiamo considerarlo una sequenza narrativa assolutamente soggettiva, in 
quanto, a differenza degli altri sport, l’elenco numerico di corner, falli, tiri in porta, non ha 
alcuna influenza sul giudizio finale. E’ guerra, è spettacolo, è identità, è politica, è 
religione. Il calcio non può discostarsi da tutto questo. 
C’è forse un’ultima similitudine adeguata al contesto, ma che ancora non è stata 
menzionata. Un gesto tecnico, un dribbling, un sombrero o una rabona, il calcio è un’arte, 
che va coltivata, assaporata, curata nei dettagli e vissuta con la spensieratezza e la 
meraviglia riconoscibile in un bambino di fronte ad un albero colmo di regali la mattina di 
Natale. 
Chiunque voglia cimentarsi in questo sport, chiunque si trovi una palla tra i piedi, uno 
spazio in cui poter giocare e due porte, che dia vita alla creatività, alla fantasia, che liberi la 
mente e dia sfogo al suo istinto, alla sua naturalezza, perfino all’”animalità” insita in 
ognuno di noi. Che si consideri un’Artista, davanti alla sua tela, con accanto i suoi colori, i 
suoi strumenti di lavoro. Che le scarpette divengano i suoi pennelli, il campo la sua tela, e 
dia inizio ad un’opera d’arte, libera da schemi, tattica, moduli e quant’altro offuschi la 
bellezza di questo mondo. Si è così tanto condizionati da quel calcio che apprendiamo, che 
studiamo, che osserviamo e discutiamo in diversi momenti della nostra giornata, che 
probabilmente, abbiamo dimenticato quell’estasi biologica e naturale che ci coglieva 
nell’osservare il rotolare magico di una palla e quel senso di libertà che si impossessava 
della nostra anima e della nostra mente dopo la buona riuscita di un dribbling o di una 
magia inaspettata e, talvolta, non voluta, ma tentata, senza freni, senza vieti. 
                                                 
9
 Barba 2007, pag. 17.
15 
 
Può darsi che questa dimensione si sia persa del tutto, dato il nostro essere del tutto immersi 
in questo mondo adulto e professionistico. O forse, qualcosa ancora si può salvare. Forse 
un’ancora di salvezza esiste. Comporta uno sforzo non indifferente, ma tentare, perlomeno, 
di compierlo, sarebbe un dovere. Basterebbe riscoprire il valore ludico del calcio, lo scopo 
di puro e semplice divertimento, compiere un ritorno alle origini, a quel calcio di strada, nel 
quale le porte venivano create con le maglie o gli zaini, la palla con carta e scotch, le 
squadre con i due capitani più forti. 
Basterebbe, insomma, tornare ad essere un po’ bambini. In fondo, non dimentichiamolo, si 
tratta sempre di un gioco. Ed un po’ meno di professionalità non guasta mai. 
 
 
1.3. IL CALCIO DI STRADA 
 
Credo ci sia qualcosa di naturale, di innato nell’attrazione che mostra un bambino nei 
confronti di una palla e di una squadra, composta da eroi che trattano così bene quel 
mistero. L’atto creativo sembra nascere sempre in un contesto sociale difficile, in un 
momento di bisogno, nell’esigenza di dare una svolta alla propria vita o semplicemente 
sfogare il proprio istinto e, probabilmente, è proprio ciò che affascina i bambini:  
 
“dare calci ad un pallone rappresenta la prima difficoltà seria a cui andiamo incontro e 
come sempre succederà nella vita, se si supera il dramma, il limite, ci si affeziona a quel 
momento” 
10
.  
 
In loro si riversa un’emozione difficile da spiegare perché, a fondo, è ancor più difficile 
comprenderla. E’ il ripiegarsi, nella loro pulita concezione del calcio, di una passione e di 
una sensibilità poetica che non ammette confini. E’ il tuffarsi a piedi uniti in un’aura di 
magia e fantasia, alla quale è sorprendentemente difficile accedervi. 
La distanza dal mondo adulto diviene netta. E, a mio parere, da una realtà troppo esigente e 
sofisticata per permettersi di riconoscere la vera essenza di questo sport. 
Sembra non esistere più un calcio senza un pallone firmato Adidas o Nike, in cuoio 
morbido, con le cuciture rifinite a mano. Siamo smarriti se ci approcciamo ad una partita 
senza casacche rigorosamente con colori ben distinti, senza un campo semi-regolamentare, 
                                                 
10
 Barba 2007, pag. 41.