3
in particolar modo alla volontà delle masse di ogni regione di arrivare a una sola nazione con un
solo Re e con un ordinamento giuridico finalmente uguale per tutti, fu un processo quasi naturale,
come del resto dimostrato dai plebisciti del 1859 e del 1860.
A parte il Veneto, ancora sotto l’Austria, restava fuori lo Stato Pontificio, che anzi aveva
perso una grossa fetta del suo territorio.
Dopo le speranze iniziali dovute all’elezione nel 1846 di un Papa, Pio IX, che era sembrato
talmente aperto e liberale da far pensare alla costruzione di una Lega presieduta dallo stesso Pio IX
per la liberazione delle regioni occupate dal “nemico” straniero, le aspettative andarono presto
deluse.
La posizione del Papa divenne sempre più conservatrice e questo contribuì non poco perché
la sua posizione andasse sempre più indebolendosi e l’autorità della Santa Sede perdendo prestigio
nei confronti dell’opinione pubblica.
Di lì a poco lo Stato Pontificio si trovò privato delle Romagne, dell’Umbria e delle Marche,
che ben presto dichiararono la loro annessione al Piemonte, e si trovò ristretto ai confini del Lazio.
Con la proclamazione del regno d’Italia, avvenuta il 17 Marzo 1861, restavano fuori,
dunque, solo il Lazio, ancora appartenente allo Stato Pontificio e il Veneto, purtroppo ancora sotto
il dominio austriaco.
Si prospettava ora un compito forse ancora più difficile, quello di eliminare definitivamente
il male che aveva sempre afflitto il nostro Paese, un particolarismo giuridico esasperato e una
pluralità di tradizioni e di usi così diversa da regione a regione, senza tuttavia rinunciare
all’originario progetto di unire sotto un’unica bandiera anche il Veneto e il Lazio, con il
trasferimento definitivo della capitale a Roma.
La strada da percorrere era ancora lunga e piena di difficoltà, ma, come vedremo, l’abilità
dei nostri più importanti uomini politici e l’aiuto proveniente direttamente dal popolo fecero sì che,
dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia nel 1866, si arrivasse a un’Italia definitivamente
unita con la presa di Roma e del Lazio nel 1870 e con il trasferimento della capitale da Firenze a
Roma nel 1871, dando al Risorgimento nazionale quei caratteri di grandezza e fondamentale
importanza che tutti noi, oggi, possiamo e dobbiamo riconoscergli.
4
L’UNIFICAZIONE AMMINISTRATIVA DEL REGNO D’ITALIA
1.1 TEMPI, MODI E FORME DELL’UNIFICAZIONE AMMINISTRATIVA
L’unificazione nazionale si compì fondamentalmente mediante l’estensione delle leggi e
delle istituzioni amministrative del Regno Sardo. La formazione di uno Stato nazionale sotto la
monarchia sabauda condizionò in modo determinante il processo di unificazione amministrativa e lo
sviluppo dell’ordinamento interno del nuovo Regno d’Italia, nelle strutture principali, negli istituti,
negli organi e nelle funzioni.
Nel periodo delle annessioni, il governo piemontese conservò sempre, senza eccessive
difficoltà, il sicuro controllo della situazione, e nel processo di unificazione politico-legislativa,
prima e dopo la Legge 17 Marzo 1861, il nuovo Regno, diretta continuazione dello Stato Sardo,
assunse un ordinamento amministrativo rigidamente unitario, accentrato e sostanzialmente
uniforme
1
.
Certo, non mancarono, anche dopo l’unificazione, tendenze riformatrici e aspirazioni
all’introduzione di nuove forme di decentramento amministrativo e di autogoverno locale, ma la
legislazione italiana 1861-1865 consolidò in modo definitivo un ordinamento di tipo accentrato,
tanto negli organi centrali di governo, quanto nell’amministrazione locale, costituita su base
elettiva, ma con elettorato ristretto, con modeste possibilità di finanziamento e sottoposta ad un
sistema di controlli e di interventi tale da limitarne rigidamente l’autonomia.
Un rinnovamento radicale delle strutture dello Stato fu d’altra parte impedito dal modo
stesso in cui concretamente si attuò l’unificazione politica, senza convocare un’assemblea
costituente né attendere il voto di assemblee regionali.
Contribuì anche la preoccupazione dominante del Governo di assicurare la compattezza del
nuovo organismo politico unitario contro l’azione disgregatrice delle molteplici forze ostili che ne
minacciavano la stessa esistenza. E influì senza dubbio anche la forza della secolare tradizione di
accentramento amministrativo delle grandi monarchie dell’Europa continentale, perfezionatasi nel
periodo napoleonico.
1
Cfr. Astuti G. “L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia”, Ed. Morano, Napoli, 1966, pag. 7-13.
5
1.2 GLI INFLUSSI NAPOLEONICI
La recezione in Italia del sistema instaurato dalla legislazione francese napoleonica agli
ordinamenti territoriali fu immediata. Basti considerare che tra il 1815 e il 1816 tutti gli Stati italiani
della Restaurazione avevano emanato delle leggi sugli ordinamenti territoriali.
La Restaurazione prese dall’ordinamento imperiale francese numerosi schemi strutturali
dell’organizzazione dei pubblici poteri e la ragione di ciò è che le classi al potere avevano i
medesimi interessi all’accentramento, all’uniformità legislativa e quindi ad evitare il particolarismo:
erano gli stessi scopi che avevano mosso gli autori della legislazione imperiale francese.
Fu così che il sistema degli ordinamenti territoriali degli Stati della Restaurazione riprodusse
il sistema francese; una solida amministrazione centrale, che trova il suo cardine nel Ministero degli
Interni, secondo quel sistema che viene chiamato “prefettizio”
2
. E’ questo un sistema che non è
caratterizzato dalla figura del prefetto, ma dal Ministero degli Interni, dal rapporto di accentramento
e dall’assoggettamento degli enti locali. E così il sistema prefettizio è quello che applicano tutti gli
Stati italiani preunitari, ad eccezione del Lombardo Veneto, che applicava il sistema austriaco, il
quale classificava i Comuni per gruppi di importanza.
Esso era in sostanza una combinazione tra il sistema prefettizio francese e il sistema delle
differenziazioni territoriali che era proprio della precedente legislazione austriaca
Il Piemonte, invece, aveva fatto parte del gruppo degli Stati dell’assolutismo illuminato,
quindi era un paese in cui gli Enti locali avevano potuto avere una certa indipendenza di fronte al
potere centrale.
Quando perciò, con la Restaurazione, si tornò alla legislazione del 1775, il Regno Sardo in
realtà venne ad avere un ordinamento che rispetto a quello degli altri Stati italiani era più avanzato.
I passi indietro culminarono, nel 1826, nelle Patenti di Carlo Felice, con le quali persino la
nomina dei Consiglieri comunali fu sottratta alle autorità locali e attribuita al Governo.
Il regime, ormai di stampo nettamente autoritario instaurato da Carlo Felice, doveva durare
oltre 20 anni. Occorreva attendere l’avvento di Carlo Alberto affinché il Regno Sardo tornasse ad
essere, per quel che riguarda gli ordinamenti territoriali, lo Stato italiano più progredito.
2
Cfr. Giannini M.S. “I Comuni”, Ed. Neri Pozza, Vicenza, 1967, pag. 25-45.
6
1.3 IL REGNO SARDO
Date queste premesse, è facile intuire che era il Regno Sardo ad avere ogni titolo per
assumere la funzione di Stato-guida nel processo dell’unificazione nazionale, grazie soprattutto al
manifestarsi di un nuovo spirito liberale ignoto agli altri governi della restaurazione.
Carlo Alberto si dimostrò un aperto e sincero fautore di riforme. Provvide a una generale
codificazione del diritto privato, criminale e processuale penale: codice civile (1837), codice penale
(1839), codice di commercio (1842), codice di procedura criminale (1847).
Apportò, inoltre, anche riforme di carattere schiettamente politico, come l’Editto del 27
Novembre 1847 (riforma dell’ordinamento dei Comuni, province e Divisioni, con l’introduzione del
principio della rappresentanza su base elettiva nelle amministrazioni locali), l’Editto del 26 Marzo
1848 sulla libertà di stampa, l’Editto del 12 Giugno 1848, in cui veniva definitivamente sancito il
principio che “la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e
all’ammissibilità alle cariche civili e militari”.
Un ultimo generale riordinamento delle leggi ed istituzioni del Regno Sardo fu compiuto
proprio nel 1859, contemporaneamente alle annessioni. Furono nuovamente pubblicati il codice
penale, il codice penale militare e il codice di procedura penale. E furono altresì pubblicati nuovi
testi delle leggi sull’amministrazione comunale e provinciale, sulla pubblica istruzione, sul
contenzioso amministrativo, nonché la legge elettorale politica 17 Dicembre 1860 per l’elezione del
primo Parlamento nazionale.
E’ evidente, quindi, e merita di essere posto in risalto quanto alto fosse il senso di
responsabilità con cui fu preparata l’unificazione, pur fra le gravi e urgenti cure dovute all’incalzare
degli avvenimenti politici e militari.
L’unificazione amministrativa fu compiuta in due tempi, anteriormente e successivamente
alla Legge 17 Marzo 1861, con cui Vittorio Emanuele II assunse il titolo di Re d’Italia.
In un primo momento, nel periodo delle annessioni, l’unificazione venne parzialmente
attuata mediante l’estensione ad opera dei Governi provvisori, delle principali leggi politico-
amministrative e dei codici del Regno Sardo, nelle diverse regioni annesse, ad eccezione della
Toscana, della Sicilia e del Napoletano, dove furono temporaneamente mantenuti in vigore gli
ordinamenti locali, introducendo solo alcune urgenti riforme di carattere esclusivamente politico.
Successivamente all’unificazione dello Stato, si provvide ad elaborare una nuova
legislazione generale, diretta a conferire al nuovo Regno un ordinamento uniforme, che venne
attuato rapidamente, subito dopo il trasferimento della capitale a Firenze ( Legge 11 Dicembre 1864
7
), nel 1865 con la pubblicazione di codici e di un complesso di leggi, che segnarono una definitiva
revisione dell’ordinamento amministrativo piemontese del 1859.
1.4 LA RIORGANIZZAZIONE DEI POTERI CENTRALI DELLO STATO:
LA LEGGE 23 MARZO 1853 N. 1483
La storia dell’amministrazione italiana si fa risalire, in genere, alla Legge 23 Marzo 1853 n.
1483, con la quale, su proposta di Cavour, il Parlamento subalpino riorganizzava l’assetto dei poteri
centrali dello Stato
3
.
L’articolo 1 della legge dispone :”L’amministrazione centrale dello Stato sarà concentrata
nei ministeri”.
In precedenza, invece, l’amministrazione statale era articolata in ministeri ed aziende: i
primi svolgevano l’attività di gestione amministrativa, le seconde svolgevano attività di gestione
economica.
La riforma cavouriana aveva un obiettivo primario: unificare le strutture amministrative,
facendo del Ministero l’apparato centrale e più importante dell’amministrazione pubblica.
A capo dei Ministeri erano posti i ministri, membri del corpo politico, nei quali venivano
concentrate le responsabilità della direzione (la cosiddetta “gestione morale”) e quella di esecuzione
(la cosiddetta gestione economica).
La riforma Cavour era ispirata ad uno dei principi fondamentali dello Statuto, concesso da
Carlo Alberto solo pochi anni prima (1848): la responsabilità dell’Esecutivo davanti al Parlamento.
La figura del ministro diventa così “bifronte”: da una parte, egli è membro del corpo politico e, in
questa veste, è legato al Parlamento e al Re dal rapporto di fiducia; dall’altra, è al vertice
dell’amministrazione e ne è la guida
4
.
La seconda innovazione della riforma Cavour, invece, è costituita dall’introduzione del
segretario generale, il quale rispondeva all’esigenza di creare un tramite fra il ministro e la
burocrazia ministeriale e che, quasi sempre, anche in virtù di una relativa autonomia nei confronti
del ministro, lo portò ad essere più un membro del corpo politico piuttosto che un impiegato di
carriera.
3
Per una storia dell’amministrazione in Italia cfr. l’opera di Melis G. “Storia della pubblica
amministrazione”, Ed. Il Mulino, Bologna, 1982, pag. 48-73.
4
Cfr. Cassese S. “L’amministrazione centrale” in “Storia della società italiana dall’unità ad oggi, Vol. IX”,
Ed. Utet, Torino, 1974, pag. 8.
8
Si pensava così a un’attività amministrativa più rapida, finalmente unitaria, ma soprattutto
interamente controllabile dal Governo.
Molto importante, a questo proposito, fu il regolamento per l’accesso al pubblico impiego,
previsto attraverso una sorta di tirocinio pratico, cui corrispondeva la precaria figura del volontario.
Dopo non meno di due anni, il volontario avrebbe potuto sostenere un esame d’idoneità per poi
accedere, quando ve ne fosse la vacanza, al posto di “applicato di 4
a
classe”. L’apparato burocratico
era delineato secondo un modello rigidamente gerarchico-piramidale, dove ognuno era posto in
posizione di subordinazione rispetto al livello immediatamente superiore.
E, così, al di sotto del ministro, la struttura amministrativa prevedeva il segretario generale,
il direttore generale, il direttore capo di divisione, il capo di sezione, il segretario di 1
a
e 2
a
classe e
infine l’applicato di 1
a
, 2
a
, 3
a
e 4
a
classe.
Appare evidente come questo tipo di amministrazione sembrasse concepito come una
macchina, in cui l’atto amministrativo diveniva il prodotto finale di una lunga serie coordinata di
automatismi burocratici, tanto meglio concatenati tra loro quanto più il dipendente avesse aderito
alla funzione assegnatagli. Tuttavia, ed è qui la grande contraddizione del sistema amministrativo
preunitario, ad un apparato così burocratizzato corrispondeva un ventaglio di funzioni molto
limitato.
Basti pensare che le competenze di un ministero chiave come quello dell’Interno, ad
esempio, si esaurivano in un elenco di voci scheletrico: bilancio e contabilità generale del
Ministero, prefetture e questure, archivi di Stato, pubblica sicurezza. Si trattava, quindi, per lo più di
funzioni di vigilanza.
Il cammino per arrivare a un ordinamento meno rigido e più decentrato era ancora lungo e
doveva passare in particolar modo attraverso le difficili vicende dell’unificazione politica durante il
biennio 1859-1861, alle quali è strettamente legato il processo dell’unificazione legislativa ed
amministrativa nel nostro Paese.