tiva) avrebbe concluso il suo viaggio e raggiunto una dimora partico-
lare, perché definitiva: non una dimora in cui soggiornare per qualche
tempo, come nel caso di una meta provvisoria, ma una dimora in cui
chiudersi per sempre e da cui non più uscire. Un passo del genere si-
gnificherebbe la fine dell’esistenza come tensione verso l’alterità.
(….) Chi pensa di aver raggiunto la dimora definitiva nella propria e-
sistenza, invece, non sa, può non sapere, di essersi chiuso in una pri-
gione, di aver compromesso la propria libertà»
2
.
Tutti noi, allora, siamo viaggiatori, in quanto uomini, esistenze; tutti
noi siamo migranti che spostano le proprie anime da un corpo ad un
altro, modificando se stessi. Il viaggio, inteso come il venire incontro
all’altro, al diverso e al nuovo, sottintende la possibilità di ridefinire se
stessi in virtù dell’Altro; ma qual è la forza che spinge l’uomo a cerca-
re il contatto e il confronto con l’altro uomo?
Hassen Slama
3
riflette sulla questione migratoria partendo dal presup-
posto che esistano nell’essere umano due forze peculiari che agiscono
simultaneamente e in senso contrario: una è la forza dello spirito par-
ticolaristico, l’altra è la forza dello spirito dell’intercourse, cioè quella
che stabilisce le comunicazioni tra gli uomini e stimola i rapporti fra
loro.
2
F. Semerari, Il predone, il barbaro, il giardiniere, il tema dell’altro in Nietzsche, edizione
Dedalo, giugno 2000, Bari, pp. 82-83
3
H. Slama,La questione migratoria e la sua multidimensionalità, Atti del Convegno Inter-
nazionale Questione Migratoria, Tunisi, dal 27/9 al 30/9, 2001
Gli uomini del passato, che vissero sulle sponde del Mediterraneo, non
hanno fatto eccezione a questa sorta di regola; infatti alcuni di essi
(coloro in cui era prevalente la forza particolaristica) hanno diffuso,
gli uni contro gli altri, morte e distruzione, facendo della storia del
Mediterraneo una storia di ostilità e guerre; altri, invece, hanno instau-
rato fra loro rapporti civili, di pace e di cooperazione «permettendo
così all’uomo del Mediterraneo di dare vita ad una delle più importan-
ti e conosciute culle della civiltà umana del nostro pianeta»
4
.
Pertanto, sarebbe quest’ultima forza a indurre l’uomo, animale socia-
le, a cercare, ad approvare e coltivare la compagnia e la presenza degli
altri uomini, sia pure estranei per cultura, lingua, provenienza.
Gli antropologi ritengono che i primi flussi migratori relativi all’area
mediterranea risalirebbero addirittura all’età del paleolitico, quando
gruppi dell’Europa occidentale e mediterranea si “fusero” con gruppi
etnici di origine nord-africana, dando vita alla “razza” mediterranea.
Nei secoli furono molti i flussi migratori che interessarono i continenti
bagnati dal Mediterraneo: Africa, Asia, Europa. «Per tre o quattro mil-
lenni le migrazioni - scrive lo storico Maurice Aymard – avevano fatto
la storia e l’unità del Mediterraneo: oggi minacciano di disfarlo»
5
.
4
Ivi
5
M. Aymard, Migrazioni, in F. Braudel, Il Mediterraneo, Lo spazio la storia gli uomini e le
tradizioni, Bompiani, 2002, p. 225
Ciò che oggi accade sul suolo europeo, sostiene Slama, è l’anello di
una catena che affonda le sue radici in epoca assai lontana. La que-
stione migratoria odierna, però, non ha avuto sempre la dovuta e ne-
cessaria attenzione poiché, nel periodo che intercorre fra le due guerre
mondiali e durante gli anni ’50 -’60, si riteneva che essa fosse una esi-
genza momentanea e che, ricostruito ciò che le guerre avevano distrut-
to, sarebbe finita. Di quegli anni ci parla lo stesso Aymard: « intorno
al 1960 l’Italia è ancora il paese che fornisce i più grossi contingenti
di manodopera all’Europa industrializzata. Con il miracolo italiano,
però, tale emigrazione pressoché tradizionale è aggravata ed entra in
competizione con un’altra, questa volta interna, che ha per meta
l’Italia del Nord. Dei quattro milioni di uomini e donne che in
vent’anni (1951 –71) hanno lasciato il Sud, solo un milione si è recato
all’estero. Durante l’autunno caldo del 1969, anche Torino e Milano
scoprono i sordidi “ghetti”, popolati di calabresi e siciliani, che hanno
invaso le loro periferie: sono sempre i meridionali, esclusi senza com-
plimenti dai quartieri borghesi, a occupare nei giornali le pagine di
cronaca nera, colpevoli, manco a dirlo, di tutti i delitti»
6
.
«Intanto - dice ancora Aymard - nelle campagne siciliane disertate
dalla loro popolazione, bisogna fare appello ai tunisini per le ven-
6
Ivi, p. 223
demmie nella zona di Marsala: e ancora una volta, ecco affacciarsi il
razzismo»
7
.
Durante la Conferenza Mondiale contro il razzismo, la discriminazio-
ne razziale, la xenofobia e l’intolleranza, tenutasi nella città di Durban
(Sud Africa), dal 31/8 al 7/9/01, Nelson Mandela definisce il razzismo
nel seguente modo: «Il razzismo è una malattia che uccide più di ogni
contagio, deumanizza chiunque tocca»
8
.
Quello che sembrava un fenomeno transitorio, una situazione emer-
genziale, oggi, a distanza di molto tempo, è diventato qualcosa di sta-
bile che ci impegna in un confronto e in una riflessione quanto mai
necessari e indispensabili. Inoltre, ciò che non è affatto cambiato, è la
condizione degli immigrati, che, in qualsiasi paese dell’Unione euro-
pea, continuano a costituire la categoria meno protetta e più esposta a
tutti i tipi di violenza,.
7
Ivi, p. 223
8
H. Slama La questione migratoria e la sua multidimensionalità, Atti del Convegno Inter-
nazionale Questione Migratoria, Tunisi, dal 27/9 al 30/9 2001
1.2 SIAMO TUTTI STRANIERI
Di fronte alle problematiche e alle possibilità che tali flussi hanno su-
scitato e continuano a proporre si pone inevitabilmente la domanda sul
che fare: chiudere le frontiere o aprirle, segregare o integrare, rifiutare
o accogliere, proteggere le identità culturali o spingerle a processi di
contaminazione….. Questi aut-aut devono necessariamente costituire
oggetto di discussione non solo da parte delle istituzioni politiche
competenti, ma anche da parte di ciascuno di noi. E’ il singolo, innan-
zitutto, che deve sentire propria la questione e che, rivolgendo uno
sguardo alla storia, deve capire l’inevitabilità e l’incontenibilità del
fenomeno. «Quante volte occorrerà ripetere che la storia dell’umanità
è fatta di migrazioni! Essa è ricca di insegnamenti ma gli uomini sono
cattivi alunni. Maestra alla pazienza infinita, essa ripete la stessa cosa,
mille volte e in mille modi, a generazioni distratte e disinteressate che
dimenticano regolarmente le lezioni del passato e cadono periodica-
mente nello stesso errore:egoismo, intolleranza, guerra, orrore»
9
.
Perché ognuno di noi ha da porsi delle domande riguardo al suo rap-
porto con l’Altro, cosa dovrebbe spingerlo ad interrogarsi? Che cosa
importa se nella nostra città, marocchini, cinesi, senegalesi, tunisini
9
K. Hannachi, Gli immigrati tunisini a Mazara del Vallo, CRESM, Mazara del Vallo,
1998, p.27
lavorano a stento, abitano in condizioni disumane e neanche ricevono
uno sguardo (che non sia di ostilità) dalla gente che incontrano?
Ebbene, ognuno di noi è chiamato, allo scopo di costruire una società
che sia veramente multietnica, dove, cioè, il rapporto tra gli uomini sia
regolato dal rispetto reciproco, prima ancora che dalle leggi, a ridi-
mensionare la propria posizione, le proprie certezze, in altre parole a
mettere in discussione il proprio posto nel mondo.
La Storia, come sostiene Karim Hannachi, «mescola uomini e avve-
nimenti, luoghi e tempi, e produce a caso la nostra identità»
10
. La cosa
assurda, però, è che ogni identità “casuale” pretende di essere assoluta
e diventa spesso l’arma più micidiale che viene puntata contro l’Altro.
Chi ha scelto quando e dove nascere, chi ha scelto la lingua, la cultu-
ra, la religione e i genitori che ci avrebbero accompagnato lungo il
corso della nostra vita? Nessuno.
Eppure, ognuno ritiene che la storia del proprio paese sia la più glorio-
sa, che la propria cultura sia la più ricca, che la propria morale sia la
più giusta e che la propria religione sia l’unica vera. Questo ha com-
portato la presunzione di credere che la propria verità sia esclusiva,
unica, la sola valida e corretta. «Eppure, essendo figlio del caso, o-
gnuno è il probabile Altro, aldilà dello spazio e del tempo. Quindi la
convinzione dell’assolutezza delle proprie verità, e la conseguente e-
10
Ivi
sclusione di quelle altrui, non è altro che l’esclusione inconsapevole
delle proprie verità»
11
, e così, rifiutando l’Altro in verità, rifiutiamo
noi stessi. «Se l’uomo è il probabile Altro, l’omicidio è una sorta di
suicidio. Se io sono il probabile Altro, la mia tavola riccamente appa-
recchiata non può rallegrarsi se prima non mangia l’ultimo bambino
che piange per fame sulla terra, perché quel bambino potevo essere
io»
12
. E a questo proposito vorrei ricordare la frase di un libro molto
interessante, scritto da una camerunese che vive in Italia ormai da ven-
ti anni, arrivata qui per seguire l’uomo che ha sposato e per fuggire
dalla povertà: «le diversità sono sempre almeno due»
13
, parole sempli-
ci, ma nello stesso tempo forti, con le quali l’autrice sottolinea il fatto
che parlare di immigrazione, significa parlare di noi e degli altri, di
due mondi messi uno dinanzi all’altro, contrapposti eppure ugualmen-
te differenti. Per noi i diversi, gli estranei sono gli altri, ma per loro
siamo noi. Il “problema”, quindi, non è solo degli altri, ma anche no-
stro. Il fatto che le differenze siano sempre almeno due mi porta a
pensare sostanzialmente a due cose: o che lo straniero non esista o
che, siamo tutti stranieri.
A questo punto mi sembra ampiamente chiaro perché ciascuno di noi
deve mettere in gioco la propria vita dinanzi alla disperazione di molta
11
Ivi, p.28
12
Ivi
13
Geneviève Makaping, Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi?, Rubbettino, Catan-
zaro, dicembre 2001, p.40
gente che chiede di essere aiutata. Non possiamo più stare comoda-
mente e serenamente seduti, con le mani in mano, perché se è vero che
alcune cose non dipendono da noi, è vero anche che il modo in cui vi-
viamo e facciamo vivere è determinato dalla nostra volontà.