PREFAZIONE
Ho aderito con grande piacere al cortese invito del Dott. de Rossi di scrivere la
prefazione a questo interessantissimo lavoro di tesi che riguarda il tema
decisamente delicato del ruolo della prova scientifica nel processo penale italiano.
Mi occupo di investigazioni scientifiche da 33 anni, un arco temporale
indiscutibilmente ampio durante il quale, le scienze forensi, hanno segnato una
vera e propria rivoluzione nel complesso panorama investigativo e processuale.
Negli anni settanta, la prova scientifica, si limitava alla osservazione/ispezione dei
luoghi, corroborata da una sufficiente documentazione fotografica – spesso
realizzata in bianco e nero – cui erano associati rilievi e accertamenti di limitata
estensione che, oltre alle indagini medico-legali, riguardavano le impronte digitali,
analisi di tipo ematologico od esami balistici, il cui peso probatorio, ancorché
rilevante in taluni limitati casi, non raggiungeva certo il peso che la prova
scientifica ha esibito negli ultimi tempi. Ne sono un esempio i tanti casi delittuosi
che, recentemente, hanno contrassegnato il panorama criminale nazionale come il
caso Bilancia, il duplice omicidio di Novi Ligure, il caso Carretta, il sequestro di
Tommaso Onofri, il caso Cogne, l‟omicidio di Meredith Kercher e, ultimamente,
l‟omicidio di Chiara Poggi - citato in apertura in questo lavoro di tesi - che
ripropone con forza le contraddizioni, i limiti e le incertezze che ruotano intorno
all‟affidabilità ed al peso processuale della prova scientifica.
In realtà, se per un verso, le scienze forensi, hanno fatto registrare uno
sviluppo inimmaginabile mettendo a disposizione della giustizia strumenti di
elevato valore probatorio, dall‟altro, almeno in Italia, non si è assistito ad una
parallela evoluzione di programmi formativi, di protocolli di intervento e di norme
che garantiscano un uso della scienza, ispirato ai più elevati canoni di efficacia ed
affidabilità.
Da uomo di scienza non voglio addentrarmi in discussioni giuridiche che il
dott. de Rossi ha saputo affrontare così diligentemente ed esaustivamente,
attraverso la guida sapiente della Professoressa Curtotti. Voglio segnalare, invece,
e con forza, il preoccupante ritardo in cui versa il paese che, in tema di prova
scientifica, riguarda soprattutto la preparazione degli esperti ed adeguati sistemi di
controllo e di verifica delle loro competenze, sia nella delicatissima fase delle
indagini preliminari, sia in quella dibattimentale.
Insomma, mentre i giuristi, si preoccupano e a ragione, di garantire che l‟uso
della scienza si ispiri ai massimi criteri di parità tra accusa e difesa e sia strumento
di verità, piuttosto che di confusione, in Italia, nonostante i miglioramenti ottenuti,
non riusciamo ancora ad avere protocolli operativi che, sul luogo di un reato,
dall‟arrivo dell‟operatore di primo intervento (si pensi ai volontari del soccorso,
alla pattuglia di turno di una volante, ai vigili del fuoco, etc.), alle attività più
tecniche e specialistiche che riguardano gli esperti della scena del crimine (CSI),
prevedano l‟intervento di personale preparato (i primi) e specializzato (i secondi),
in grado di assicurare una perfetta attività di isolamento e protezione della scena
ed un esemplare lavoro di individuazione, raccolta e confezionamento di reperti e
tracce, di fondamentale valore probatorio. A questo si aggiunga che il sistema è
terribilmente esposto al pericolo dell‟uso di scienza spazzatura, imputabile non
tanto nell‟introduzione di tecniche scientifiche non ancora sufficientemente
validate dalla comunità scientifica, ma nell‟impiego di consulenti e periti
incompetenti. Contrariamente a quanto avviene negli altri paesi, non viene
esercitata su costoro, quella necessaria attività di verifica delle capacità individuali
- e non mi si dica che l‟albo dei periti sia in grado di assolvere a questa funzione -
attraverso una severa disamina dei curricula formativi, delle pubblicazioni
scientifiche, dei casi trattati. Il tutto, è reso ancora più paradossale dal fatto che, i
principali fruitori degli esperti, vale a dire avvocati e magistrati, non sono
sufficientemente in grado di valutare le effettive capacità di consulenti e periti
poiché privi delle conoscenze essenziali che riguardano le scienze forensi che -
sono d‟accordo con il Dott. de Rossi - non rientrano certamente “nel sapere
comune”, e sono altrettanto assenti dalle discipline previste nei corsi universitari
di scienze giuridiche.
Credo sia venuto il tempo di interrogarci seriamente su questo ritardo, su
queste incomprensibili lacune. Intendo quindi complimentarmi con il Dott. de
Rossi per il suo importante approfondimento scientifico che ci sprona ad aprire il
confronto ed il dibattito su un tema estremamente delicato come quello delle
investigazioni scientifiche, che incidono così profondamente sulla giustizia.
Illuminante, al riguardo, una recente pubblicazione del Consiglio Nazione
delle Ricerche statunitense dal titolo Strengthening Forensic Science in the
United States. A Path Forward, con la quale si è voluto effettuare una
approfondita disamina circa l‟uso delle scienze forensi in quel paese e tracciarne il
futuro. La pubblicazione contiene una serie di raccomandazioni, tra le quali, mi
piace citarne sinteticamente alcune, in conclusione di questa prefazione:
“Per promuovere lo sviluppo delle Scienze Forensi in un campo maturo di
ricerca e pratica multidisciplinare, fondata sulla sistematica raccolta ed analisi
di dati rilevanti, il Congresso dovrebbe stabilire ed elargire fondi appropriati alla
creazione di un Ente Federale indipendente: l‟Istituto Nazionale di Scienze
Forensi (NIFS).”
“La ricerca è assolutamente necessaria per garantire alle discipline di
Scienze Forensi precisione, affidabilità e validità. L‟Istituto Nazionale di Scienze
Forensi (NIFS) dovrebbe assumere un ruolo di importanza e competitività nella
ricerca e revisione dei metodi forensi.”
“L‟Istituto Nazionale di Scienze Forensi (NIFS) dovrebbe promuovere delle
ricerche sulla possibilità di sviste ed errori che possono occorrere nello
svolgimento degli atti forensi. Tali ricerche dovrebbero comprendere programmi
che si occupino di studiare gli effetti delle sviste nelle pratiche forensi.”
“L‟accreditamento dei laboratori e la certificazione individuale dei
professionisti di scienze forensi devono essere obbligatorie e rilasciate
dall‟Istituto Nazionale di Scienze Forensi (NIFS) che riconosce ed autorizza
determinati standard internazionali come, ad esempio, quelli pubblicati
dall‟Organizzazione Internazionale per gli Standard (ISO). Nessun pubblico o
privato può praticare una disciplina di scienze forensi o testimoniare in qualità di
esperto di scienze forensi senza un certificato che lo accrediti.”
Che tutto ciò sia d‟auspicio per un urgente miglioramento del nostro sistema
processuale affinché la scienza si liberi dai pregiudizi e dalle riserve di cui è
affetta e possa contribuire in misura sempre più rilevante all‟accertamento della
verità ed al giusto processo.
Parma, 15 settembre 2010
LUCIANO GAROFANO
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Capitolo 1
IL CASO “GARLASCO” NELL’AMBITO DEL SISTEMA
PROCESSUAL-PENALISTICO ITALIANO
SOMMARIO: 1. Il delitto di Garlasco. Cenni. – 2. La sentenza: analisi e criticità di diritto. – 3.
Fine di un inquietante giallo? Considerazioni finali.
1. Il delitto di Garlasco. Cenni.
"Ho trovato una persona uccisa in via Pascoli, correte". Inizia così, alle 13,49 del
13 agosto 2007, con una chiamata di Alberto Stasi al 118, il 'giallo' di Garlasco,
l'omicidio della 26enne Chiara Poggi nella sua villetta al civico 8. A chiamare i
soccorsi, con voce "glaciale" diranno alcuni, "preoccupato" secondo altri, e' il
fidanzato 24enne. La relazione tra la vittima e l‟ingegnere dura, ormai, da 4 anni
ma lui - farà notare l'accusa - non la chiama per nome, si riferisce a lei
identificandola genericamente come "una persona", e poi, qualche minuto dopo
l‟ora che segna l‟inizio di questo inquietante giallo, e' nella caserma dei
Carabinieri dove verrà sentito per ore rispondendo sempre senza esitazione:
"Mentre Chiara veniva uccisa, lavoravo alla tesi a casa mia. Ho provato a
chiamarla più volte ma lei non rispondeva. Allora sono andato in via Pascoli, ho
aperto la porta e l'ho trovata in un lago di sangue".
La porta non e' stata forzata. Basta aprirla per scorgere il sangue. Il palmo
della mano della vittima ha tracciato il percorso fino alla porta che nasconde le
scale che portano alla tavernetta. E' su quei gradini che Chiara viene finita: in
pochi passi c'e' tutto il racconto dell'omicidio, le tracce di chi la guarda dritto negli
occhi quando lei apre la porta, prima di essere colpita alle spalle. Arrivano i
R.I.S.
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, provano a leggere la trama nascosta dietro segni invisibili. Sette giorni
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Il corpo dei carabinieri ha, come la Polizia di Stato, una propria struttura dedicata alle
investigazioni di tipo scientifico. Il Reparto Investigazioni Scientifiche, in sigla R.I.S., è la sezione
dell'Arma dei Carabinieri che svolge, per l‟appunto, attività tecnico-scientifica nell'ambito
delle indagini preliminari. Il R.I.S. è supportato dalle unità S.I.S. (Sezioni Investigazioni
Scientifiche) specializzate nel sopralluogo preliminare sulla scena del crimine e posto alle
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dopo, Alberto Stasi viene indagato per omicidio volontario, i carabinieri
sequestrano la sua bicicletta e il PC, frugano in ogni angolo della casa. Rosa
Muscio, il pm, donna estremamente schiva, spesso a sorpresa sceglie curve
investigative sorprendenti. Il 24 settembre, la prima, la più rischiosa: ne ordina
l'arresto. La prova schiacciante sarebbe la presenza di dna della vittima sui pedali
della bicicletta in sella a cui Alberto sarebbe fuggito.
Quattro giorni dopo, il gip Giulia Pravon dispone la scarcerazione di Stasi,
non ci sono prove sulla sua colpevolezza, solo suggestioni accusatorie. "Fine di un
incubo", commenta lui. Muscio continua a indagare, il 9 ottobre chiude l'inchiesta
e il 3 novembre chiede il rinvio a giudizio. Alla fine di dicembre la Procura iscrive
il ragazzo nel registro degli indagati per una nuova ipotesi di reato, detenzione e
divulgazione di materiale pedopornografico. Nel suo PC ci sarebbero decine di
file a sfondo sessuale che riguardano minori. La prima buona notizia per Alberto
dopo tanto tempo arriva il 27 marzo, quando si laurea con lode e una tesi dedicata
alla fidanzata. Il 23 febbraio comincia l'udienza preliminare e pochi giorni dopo
gli avvocati della difesa chiedono che venga giudicato col rito abbreviato,
passaggio cruciale di tutta la vicenda processuale. Il 9 aprile i pm Rosa Muscio e
Claudio Michelucci chiedono la condanna a 30 anni. "Colpevole al di là di ogni
ragionevole dubbio - dicono - ha ucciso per una lite avvenuta la sera precedente".
"Non ci sono arma, movente, solo indizi discordanti, ho paura di una giustizia
penale che costruisce prima i colpevoli e poi le prove", ribatte Giarda. Il 30 aprile
il Gup Stefano Vitelli si ritira in camera di consiglio e ne esce con una decisione a
sorpresa: niente sentenza, ma un'ordinanza con cui dispone 4 nuove perizie sui
punti oscuri dell'inchiesta, partendo dal presupposto che le indagini sono state
"lacunose". Il 25 ottobre riparte il processo, con la sensazione che la scienza non
abbia reso più limpido l'intrigo, anche se la perizia informatica conferma la
dipendenze del Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche, il cui corrispondente
acronimo è Ra.C.I.S. In casi di maggiore gravità, tali unità intervengono, coordinatamente,
direttamente sul posto per i rilevamenti sulla scena del crimine e la refertazione delle prove.. Il
R.I.S. è composto da quattro reparti, dislocati a Parma, con sede nel Palazzo Ducale, a cui compete
l‟Italia settentrionale, Roma (Caserma Salvo D‟Acquisto) a cui compete l‟Italia centrale, Messina
(Caserma Alfio Ragazzi) per l‟Italia meridionale e Cagliari, a cui compete la Sardegna. Ognuno di
questi reparti è poi suddiviso, a sua volta, in diverse sezioni che corrispondono a specifici campi
d‟indagine.
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versione di Alberto Stasi: ha lavorato davvero alla tesi dalle 9 e 36 alle 13 e 20.
Poi, tutto come da copione: i pm richiedono 30 anni, "senza attenuanti" e
l'avvocato Giuseppe Colli invoca l'assoluzione. La parte civile chiede 10 milioni
per risarcire i Poggi. E alla fine sarà assoluzione ai sensi dell‟art. 530, secondo
comma del codice di procedura penale, il quale stabilisce che deve essere
pronunciata sentenza di assoluzione “anche quando manca, e' insufficiente o è
contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l‟imputato lo ha commesso, (…)
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.
2. La sentenza: analisi e criticità di diritto.
La complessità dell‟inchiesta relativa al caso in questione è emblematicamente
racchiusa nelle 159 pagine di motivazione del verdetto di assoluzione nei
confronti di Alberto Stasi, scritte dal gup di Vigevano Stefano Vitelli, che
rappresentano, senza ombra di dubbio, una pagina storica del nostro processo
penale. Prima di addentrarsi nell‟esegesi delle colonne portanti della sentenza,
una squisita esigenza sistematica spinge a concentrare l‟attenzione su un
passaggio fondamentale, nonché estremamente delicato, dell‟intera vicenda, una
necessaria premessa di carattere logico/procedimentale, ovverosia la scelta del rito
abbreviato semplice, che rappresentò, senz‟altro, un colpo di scena.
Da un punto di vista procedurale, tale rito è, ex art. 438 e ss. c.p.p., una
scorciatoia premiale che permette all‟imputato, laddove condannato, di ottenere lo
sconto di pena secco di un terzo, sebbene la decisione del processo deve essere
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Si ha l‟insufficienza della prova solo se la prova non assume quella consistenza ed efficacia tale
da poter fondare una affermazione di responsabilità. Si ha, invece, la contraddittorietà della prova
quando sussiste l‟equivalenza delle prove di reità con quelle di innocenza. Non si versa né nell‟una
né nell‟altra situazione se il giudice svaluta motivatamente determinate prove, di modo che esse
non ritornano più nella valutazione complessiva del materiale probatorio che il giudice deve
compiere ai fini della decisione (Cass. 9.5.1997, 208884). D‟altra parte, la condotta ascritta
all‟imputato deve essere provata per intero e la condanna non può essere basata su un quadro
probatorio incompleto superato dall‟assunto che i fatti provati consentono di immaginare con
sufficiente approssimazione i fatti non provati. Naturalmente la completezza del quadro probatorio
può essere raggiunta sia attraverso prove dirette che attraverso prove indirette o logiche e deve
riferisci non ad ogni dettaglio della condotta, ma alla esistenza dei fatti nei loro aspetti essenziali.
L‟incompletezza di tale verifica impone, ai sensi dell‟art.530, c.2, c.p.p., l‟assoluzione
dell‟imputato (Cass. 3.10.1997, 209112). A norma dell‟art. 530 c.p.p. deve essere adottata la stessa
formula assolutoria sia quando si accerti la insussistenza del fatto o la impossibilità di attribuirlo
all‟accusato e sia quando si riconosca soltanto carente ovvero insufficiente o contraddittoria la
prova.
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presa dal giudice allo stato degli atti. Ciò significa che l‟istruzione probatoria, nel
rito anzidetto, è praticamente inesistente (salvo non venga richiesta in forma
condizionata all‟assunzione di una determinata prova, e, in ogni caso, con forme
decisamente più snelle rispetto a quelle dibattimentali).
La strategia processuale del collegio difensivo di Stasi non volle significare,
ad onor del vero, l‟aver messo in gioco l‟eventualità che il loro assistito potesse
essere condannato e, pertanto, la volontà di usufruire di tale strumento, capace di
abbattere una sostanziosa porzione di pena e di allontanare lo spettro
dell‟ergastolo, data l‟accusa di omicidio aggravato. Gli avvocati di Stasi non
pensarono neanche per un istante a questo: la scelta del predetto rito obbedisce,
infatti, ad una duplice logica: in primis, la poc‟anzi accennata diminuzione della
pena di un terzo, in caso di condanna, in secundis, il giudice deve decidere sulla
base della attività svolte fino a quel momento dalle parti, “allo stato degli atti”. In
altre parole, sulle attività di indagine preliminare. Quest‟ulteriore ratio dell‟art.
438 c.p.p. ruota intorno agli elementi probatori raccolti dall‟accusa, che si
sarebbero rivelati scarsi per sostenere una solida base di responsabilità a carico del
ragazzo di Garlasco, facendo emergere chiaramente la precisa intenzione di
indirizzare il giudice verso un‟assoluzione, basando la stessa su un‟evidente
insufficienza probatoria. Tale seconda sfumatura del rito in questione va, ad onor
del vero, temperata con la possibilità, ex art. 441, c.5, c.p.p., che “quando il
giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d‟ufficio,
gli elementi necessari ai fini della decisione”
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. Ed è ciò che, de facto, accadde in
quel fatidico 30 Aprile 2009, quando il Gup motivò la scelta di disporre, a
sorpresa, nuove perizie, nello specifico una tecnico/informatica, una
medico/legale, una chimica/sperimentale e la quarta definita come “semi-
virtuale”, sostenendo che “emergono alcune significative incompletezze di
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Con la riforma introdotta dalla legge 479/1999 è stato attribuito al giudice il potere di assumere le
nuove prove che ritenga necessarie ai fini della decisione. Si tratta di un potere esercitabile
d‟ufficio, indipendentemente dall‟iniziativa dell‟imputato, ma solo quando emerga un‟assoluta
esigenza probatoria (Cass. 20.3.2003, 224865) a prescindere dalla sua complessità o dalla
lunghezza dei tempi dell‟accertamento probatorio. La valutazione della “necessità”
dell‟integrazione non si identifica con l‟assoluta impossibilità di decidere o con l‟incertezza della
prova, ma presuppone, da un lato, l‟incompletezza del materiale probatorio, già acquisito agli atti,
e, dall‟altro, la probabilità che l‟attività integrativa completi il materiale a disposizione (Cass.
17.3.2009, 243063).