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INTRODUZIONE
«La mente di Manganelli è posseduta da una forte componente filosofica: se fosse
vissuto in altre epoche avrebbe scritto volumi di metafisica sull’Essere o Dio o il
Numero, come un allievo di Platone o di Spinoza», scrive Nicola Fano nella sua
Autobiografia di uno scrittore. Lo scrittore è Giorgio Manganelli.
Nato a Milano nel 1922, Manganelli è un letterato singolare, con studi in scienze
politiche e una particolare predilezione per la retorica dei trattati secenteschi; la sua
scrittura muove i primi passi nel terreno della psicanalisi e dunque dell’inconscio. Nel
1957 frequenta a Roma lo studio dell’analista junghiano Ernst Bernhard, il quale offre
allo scrittore la chiave d’accesso ad un mondo parallelo: l’abisso sconfinato della
psiche umana. È questo il luogo in cui abita la sua letteratura. Essa è il frutto di un
singolare incontro: nasce dal tentativo di cristallizzare il magma dell’inconscio nella
calcolata geometria della retorica.
La letteratura negli anni Sessanta, periodo d’esordio dello scrittore con
Hilarotragoedia (1964), vive grandi stravolgimenti che risentono della temperie
storica e culturale del tempo: l’antirealismo come reazione al realismo esasperato del
dopoguerra; lo sviluppo della multimedialità che tesse le fila di una realtà sempre più
astratta e labirintica; le ricerche sul linguaggio che della letteratura fanno un universo
a sé stante, quasi mondo parallelo al reale; l’industrializzazione imperante legata al
boom economico, cui consegue una reificazione dilagante fino alla soppressione
stessa dell’io. La compattezza dell’io si scopre un’illusione e, di conseguenza, crolla
la concezione della realtà come struttura armonica e razionale.
In questo clima l’imperativo è “sperimentare”. La letteratura avverte un bisogno
impellente di rinnovamento. Proprio la «riduzione dell’io», secondo Graziella Pulce,
accomuna le diverse sperimentazioni del Gruppo 63, gruppo d’avanguardia letteraria
cui Manganelli prese parte. Esso poco può aiutarci a tracciare un preciso profilo del
Nostro poiché, mancando di un manifesto, la sua linea tematica è tutt’altro che
coerente (per incompatibilità di posizioni si scioglierà nel ‘69).
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D’altronde, può la reazione al caos della realtà essere programmata e
programmatica? La reazione di Manganelli è la creazione di uno «spazio assoluto
della iperletteratura divina, meraviglia, magia, mistificazione, artificio, astrazione,
fantasia, irrealtà, arbitrio, menzogna, congegno, gioco, giocattolo, manipolazione,
evvia dicendo», come lo definisce Giulio Ferroni; dove anche l’«evvia dicendo» non
va inteso come sfumatura lessicale dell’elenco, equivalente a un semplice “eccetera”,
bensì come caratteristica della scrittura manganelliana, la cui musa è la «Chiacchiera».
Il fulcro intorno al quale questo spazio centrifugo si organizza è il linguaggio. Il
linguaggio diviene il grande Leviatano (dall’ebraico liwyāṯān = contorto, avvolto) che
avviluppa trame, personaggi, sentimenti, morale, non risparmia nemmeno il
pulviscolo delle verità depositato sul fondo di ogni opera letteraria. Il linguaggio si
insinua nelle crepe della realtà, ne diventa l’elemento costitutivo.
Le teorie di Hans Georg Gadamer – elaborate proprio in quegli anni – affermano
che ogni esperienza del mondo è linguistica e che la dimensione linguistica precede
l’esistenza stessa.
Lo scrittore ambisce per vocazione ad afferrare, descrivere e “insegnare” il mondo,
ma gli scrittori del Postmoderno, appurata l’impossibilità di riprodurre adeguatamente
il reale, tentano di sfiorarne la totalità inseguendone le orme nei sentieri del
linguaggio.
Afferma Manganelli: «mi premeva (come mi preme sempre) porre la letteratura in
una posizione anti-umanistica. Noi siamo stati per molti anni, direi per una
generazione, perseguitati da una lettura umanistica della letteratura che era
fondamentalmente una letteratura affettiva, patetica, pedagogica e didascalica. Mi
interessava e mi interessa ritrovare la totalità del momento linguistico che è un
momento estremamente ampio, tanto che non può non affondare le sue estremità in
quello che ci può essere di più oscuro, tenebroso ed enigmatico … La parola porta
sempre con sé una dilatazione di enigma nella vocazione letteraria. […] Ecco: quando
noi ci imbattiamo in questi “enigmi”, ci troviamo di fronte a ciò che io potrei chiamare
letteratura. […] Il testo letterario non vuole né esprimere né comunicare, vuole essere.
Ma il suo modo di essere è un modo di organizzarsi linguisticamente in uno spazio
che è il silenzio».
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Dunque la letteratura come un porsi in essere del linguaggio: non nella definitezza
di una trama né di un personaggio, ma come assoluta priorità del fenomeno linguistico
in sé.
I punti di riferimento letterari di Manganelli sono Nabokov, Wilson, Borges,
Blanchot, Barthes, ma anche Shakespeare, Gadda, Wilde e Poe.
Nei suoi testi ripercorriamo i labirinti borgesiani e le gaddiane accumulazioni di
storie e di parole in chiose e postille per attuare il disperato tentativo di ghermire il
reale ed il nulla, che ne è negativo fotografico. L’accumulo del linguaggio è, però,
inevitabilmente assenza. Nella scrittura manganelliana l’essenza è l’assenza. Come
classificarla, dunque?
Grazia Menechella, nel tracciare il profilo dello scrittore, propone una triplice
alternativa: moderno, postmoderno o neobarocco? Innanzitutto eccentrico.
Moderno poiché anch’egli rivolge una serrata critica al linguaggio: «non bisogna
pensare di potersi affidare – e fidare – di lui». Postmoderno poiché anche la sua
letteratura è rivolta a se stessa, è “letteraria”. E neobarocco perché, come in quella
poetica della meraviglia, le parole hanno perso il loro legame con la realtà e
costituiscono un mondo a parte: il manganelliano «gioco fatuo» della scrittura.
Nelle Interviste impossibili (originariamente con il titolo A e B), però, Manganelli
scrittore si presenta – dietro l’esile maschera di una A – in una veste nuova: filosofo
che si interroga – e interroga – sull’universo e sulle sorti del mondo.
Nella trattazione che segue si è cercato di cogliere gli indizi disseminati nei dialoghi
con i dodici personaggi intervistati, per congiungere i punti del discorso e formare il
disegno di una Weltanschauung. In alcuni tratti la linea si interrompe per poi
riprendere altrove, in altri si spezza irrimediabilmente. Ma d’altronde – afferma
Graziella Pulce – «nell’enigma che è l’universo, come insieme vorticante di segni che
si prestano a molteplici interpretazioni e nei quali si cerca di leggere un messaggio
coerente, vi è la perfetta coincidenza di metamorfosi e anamorfosi, il brulichio
indistinguibile di metamorfosi e immobilità e dunque l’intima debolezza di ogni
prospettiva unificante ed univoca. Ogni volta che l’immagine è fermata nella fissità,
nella coerenza di una verità, si decompone e sfarfallano le aporie della ragione».
Questa l’esile filigrana del disegno, il nodo filosofico-esistenziale che costituisce il
cuore della riflessione e il rovescio della trama del textus manganelliano: l’uomo per
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esistere deve exsistere (= uscire fuori) dal Nulla; vuole consistere ma la sua natura è
metamorfica, perciò quando si “fissa” muore, poiché per darsi un’identità unica uccide
tutti gli altri possibili sé. L’uomo è in continua agonia – l’agonia delle pietre di Gaudì
– poiché se consiste (ha un’identità) non vive, ma se vive (asseconda la continua
metamorfosi) non consiste. L’unica realtà è la maschera di volta in volta indossata,
che è però incompiutezza. L’essere umano è metà carne (fissità) e metà sogno
(mutevolezza).
La letteratura, dimensione inconsistente, è la condizione ideale. Essa è menzogna –
nella sua inesistenza è pura utopia (da ôu ‘non’ e tópos ‘luogo) – ma anche l’unica
verità. Essa è, infatti, l’unico “luogo” in cui si può isolare, dunque fissare, uno dei
frammenti che costituiscono l’uomo ed è popolata di «sogni reali», cioè di entità che
hanno quell’unica natura. Ma l’uomo non vorrebbe essere nemmeno esclusivamente
un “sogno letterario” poiché verrebbe privato della sua essenza terrena e sarebbe
soltanto «perfetta recitazione». Egli è, dunque, condannato ad essere desiderio: lo
spazio che sta fra il nulla e l’esistere. La sua natura è «concentrata inesistenza».
L’uomo abita una realtà di pure apparenze, esse sono solo le «macerie» del nulla.
Vive nella continua angoscia della scelta. Convive con la lotta fra il bene e il male,
guerrieri eterni le cui spade scintillano nell’oscurità tetra della sua anima, fitta di
demoni e ombre. Su di esse incombe sovrana quella della morte.
«Manganelli non vuole rovesciare l’essere nel non-essere», afferma Silvia
Pegoraro, ma al termine dell’intervista a Nostradamus l’autore lascia in sospeso un
interrogativo in cui si cela l’auspicio di un altro Essere che non sia, come quello
presente, una continua metamorfosi di morte: «Ma se muore la morte, che succede?».
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I IL “GENERE” DELLE INTERVISTE IMPOSSIBILI
I.1 Definizione e tipologie
L’intervista impossibile è una tipologia testuale che solo di recente è stata
individuata ed accolta all’interno di un genere anch’esso di nuova definizione: il
colloquio fantastico postumo. Si tratta di dialoghi inventati fra personaggi illustri non
più in vita, i quali colloquiano fra loro o con un intervistatore.
Nonostante la cospicua presenza di testi scritti in questa forma nella letteratura e
nella cultura occidentali dall’antichità ad oggi, un lavoro che li passasse in rassegna è
stato condotto solo di recente. È lo studio
1
portato avanti da Donatella Boni, una
ricercatrice in Letterature comparate dell’Università di Verona che, rilevate in numero
consistente queste singolari conversazioni e individuate numerose caratteristiche
comuni fra esse, ne ha dedotto un genere a sé, designato con il già citato nome di
“colloquio fantastico postumo”.
Nell’etichetta del genere è insita la definizione attraverso le sue tre caratteristiche
fondamentali: la forma dialogica, il carattere fantastico e lo “status” di defunto di
almeno uno fra gli interlocutori.
La prima caratteristica è lo stile mimetico: le varie battute, scandite dai nomi degli
interlocutori, recano i verbi al presente. Ciò presentifica l’atto dialogico e implica
piena corrispondenza fra la sua durata e il lasso di tempo necessario alla lettura.
L’evento dialogato ha la sembianza di una scena che si svolge davanti ai nostri occhi.
La seconda caratteristica è la natura fantastica: sia l’incontro fra i personaggi che il
contenuto della conversazione sono frutto dell’immaginazione dello scrittore. Ciò è
conseguenza ovvia della condizione di defunto dell’interlocutore, riportato in vita
nella dimensione del dialogo, che è fittizia così come le parole proferite. Servendosi di
1
Donatella Boni, Discorsi dell’altro mondo. Nascita e metamorfosi del colloquio fantastico postumo,
Verona, Ombrecorte, 2009.
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esse lo scrittore «mette i lettori in contatto col dicibile ma non detto, col possibile ma
non avvenuto né realizzabile. Si tratta cioè di una resa al quadrato di quella che è la
più antica e sacrale funzione della letteratura: porre ritualmente il pubblico (attraverso
quel sacerdote che è lo scrittore) di fronte all’ineffabile, all’impossibile»
2
.
La terza caratteristica si esplica nell’aggettivo «postumo» che identifica l’evento
come posteriore rispetto alla morte.
La condizione che conferisce eccezionalità al dialogo è la fama del defunto
chiamato a dialogare. Essa comporta due conseguenze. In primo luogo lo scrittore può
eludere informazioni sul personaggio celebre che sono già presenti nella mente del
lettore come conoscenze pregresse, senza inficiare la completezza e l’immediatezza
dell’evento dialogato. In secondo luogo la notorietà conferisce autorevolezza alle
parole pronunciate che acquistano la valenza di testamento intellettuale e spirituale del
personaggio o rivelano suoi tratti inediti e curiosi.
Il genere del colloquio fantastico postumo si è articolato nel corso del tempo in
quattro diverse tipologie: conversazioni immaginarie, dialoghi dei morti, apparizioni e
sedute spiritiche, interviste impossibili. Le elenchiamo qui di seguito, insieme a
qualche esempio
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, e ne indichiamo alcuni tratti salienti soffermandoci in modo
particolare sulla tipologia delle interviste impossibili.
Le conversazioni immaginarie sono simulazioni di dialoghi avvenuti con o fra due o
più illustri scomparsi, durante la loro esistenza terrena. Il contesto spazio-temporale è
quello reale del nostro mondo, ma nella dimensione del passato. Tali conversazioni
hanno di solito matrice filosofica e costituiscono disquisizioni su un determinato tema
d’interesse. L’autore pone il lettore nella posizione di privilegiato testimone del reale
svolgersi della vicenda nel passato, come se assistesse alle conversazioni fra i
personaggi dal buco della serratura. Ne sono esempi i Dialoghi (IV sec a.C.) di
Platone scritti dopo la morte di Socrate ed alcune fra le Operette morali leopardiane
(1824-1832).
I dialoghi dei morti sono colloqui che coinvolgono personalità storiche talvolta
frammiste a personaggi mitologici o letterari. Il contesto è l’oltretomba, dunque un
2
Ivi, p. 19.
3
Elenchiamo, in ordine cronologico, solo alcune fra le opere esemplificative di ciascuna tipologia per
non appesantire la trattazione. Per un excursus storico completo rimandiamo alla già citata opera di D.
Boni.
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non-spazio e un non-tempo. Il cronotopo dell’aldilà è palcoscenico per le anime che,
prive dei corpi, hanno maturato il distacco da pene e piaceri terreni. Tale condizione
spiana la strada a molteplici commenti sull’attualità spesso proferiti con piglio
polemico e critico. L’archetipo di questa tipologia è, non a caso, l’opera di Luciano di
Samosata (scrittore greco del II secolo d.C.) che reca il titolo eponimo di Dialoghi dei
morti. Tale opera, infatti, affonda le sue radici nelle Satire di Menippo di Gadara
(filosofo cinico e scrittore greco del IV-III secolo a.C.) nelle quali, con tono parodico
e polemico, figura una aspra critica della realtà a lui contemporanea.
La terza categoria fa riferimento a resoconti verbali delle rivelazioni fatte da
fantasmi di personaggi famosi apparsi o evocati in sedute spiritiche. Il prototipo più
celebre è il Secretum (1342-43) di Petrarca, che è forse la più nota apparizione
dell’universo letterario italiano, in cui Sant’Agostino si manifesta allo stesso
Francesco. In tempi recenti, invece, ne è esempio la serie di rievocazioni
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di grandi
protagonisti del passato ideata da Renzo Arbore nel 1981. In una delle sedute
spiritiche un ironico Roberto Benigni interpreta uno smemorato e buffo Dante
Alighieri, rovesciando le aspettative degli spettatori di fronte al sommo poeta.
Il tratto caratterizzante dell’ultima tipologia – l’intervista impossibile – è, appunto,
lo schema dell’intervista che rispecchia quello del relativo canone giornalistico, ma
qui l’intervistato è un illustre defunto cui un vivente rivolge domande come se fosse
ancora in vita. Il ritmo è incalzante e ad interrogazioni concise seguono di solito
lunghe risposte. Le tematiche sono varie: rivelazioni sulla biografia del personaggio,
questioni morali, considerazioni sull’epoca in cui visse o sulla realtà attuale
dell’intervistatore. L’intervista impossibile è, fra le forme del colloquio fantastico
postumo, quella che si è affermata in tempi più recenti poiché recente è la sua
istituzionalizzazione nell’ambito giornalistico (XIX secolo)
5
.
E’ immediato e quasi faceto il contrasto che si determina fra la moderna pratica
dell’“articolo in forma di domanda e risposta” e l’aura di vetustà che circonda
l’intervistato, il quale (non dimentichiamolo) è morto!
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Trasmesse all’interno del programma Telepatria International, ovvero niente paura… siamo Italiani!
In onda su Rai Due, in tre sole puntate, dal 6 al 20 dicembre 1981.
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L’ingresso dell’intervista nell’ambito letterario si fa risalire ai colloqui di Jules Huret (1963-1915),
scrittore e giornalista francese, con alcuni romanzieri dell’epoca (Jules de Goncourt, Émile Zola, Guy
de Maupassant, Joris-Karl Huysmans ecc.), poi pubblicati su «Le Figaro» nel 1895.